Riflessioni, prospettive e stimoli avanguardisti per una legge italiana, inesistente, contro il sopruso sul posto di lavoro

di Gianna Elena De Filippis [*]

De Filippis 2 1Com’è ormai noto, da diversi anni in Italia si assiste ad un fenomeno di destrutturazione del diritto del lavoro e sue pertinenze (modifiche consistenti hanno riguardato, ad esempio, anche gli ammortizzatori sociali e il sistema pensionistico). Sono stati smontati i canoni storici dei contratti di lavoro, dei licenziamenti, delle tutele conseguenti ai licenziamenti illegittimi, delle misure a sostegno del reddito.

La direzione “elastica” intrapresa dal 2003 con il d.lgs. n. 276/2003 è proseguita ad oltranza muovendosi in operazioni di sottrazione ovvero di addizione di nuovi elementi al sistema giuridico del lavoro.

Dal 2003 al 2012 si è avuto, dunque, un processo di alta malleabilità nell’uso dei contratti di lavoro atipici, fino a registrarne vistosi abusi. Timido arresto di questa incresciosa liberalizzazione lavoristica si ha con la legge n. 92/2012 che, per alcuni versi, irrigidisce organicamente il sistema per il tramite di nuovi limiti al ricorso alle varie tipologie contrattuali, da un lato, e, dall’altro, per il tramite di oneri aggiuntivi a carico delle imprese. La fatidica flessibilità inizia ad avere un costo fisso. Questa soluzione risulta essere senz’altro molto intelligente per far rientrare gli abusi nelle “righe” ma, allo stesso tempo, diventa rischiosa e inopportuna. In un momento di globale crisi economica e finanziaria, infatti, le imprese vivono, ogni giorno, il rischio della perdita economica e sono disincentivate ad effettuare nuove assunzioni, visto il costo del lavoro sempre più greve tra le voci di bilancio. A fronte di nuovi limiti normativi e nuovi oneri contributivi, le assunzioni, dunque, nel bel mezzo del collasso economico in tutti i settori di produzione, diventano un miraggio e chi ha un lavoro cerca a tutti i costi di conservarlo. Alla legge n. 92/2012 sono seguiti numerosi e costanti interventi correttivi. A moderare il costo del lavoro a carico delle imprese intervengono misure di sgravio contributivo a favore delle imprese ovvero estensioni agevolative a nuove aree del mercato del lavoro.


Il JOBS ACT 2015 ha elaborato un “reimpasto” complessivo dell’intero sistema lavoristico italiano con le maxi deleghe su ammortizzatori sociali, politiche del lavoro, revisione dei contratti, attività ispettive, tutela dei tempi di vita e di riposo. Insomma, uno stravolgimento che ha investito in modo trasversale quasi tutti gli istituti del diritto del lavoro e della previdenza sociale. Dall’avvio del rapporto di lavoro alla fine e nel bel mezzo della sua esecuzione, oggi si è dematerializzato ogni punto fisso storicamente tangibile: meno vincoli e limiti nell’utilizzo dei contratti “flessibili”; licenziamento riconducibile quasi esclusivamente ad un aspetto conseguenziale di tipo economico; disciplina delle mansioni totalmente smontata; grande ruolo attribuito ai contratti di secondo livello.

L’attenzione continua a persistere esclusivamente verso l’aspetto giuridicamente rilevante del costo del lavoro, della convenienza delle assunzioni, della facilitazione nel licenziamento,della qualità commisurata solo alla “comodità” monetaria.

Nel frattempo resiste il difficile inserimento delle donne nel mondo del lavoro, nonchè la loro permanenza in caso di maternità. Una pari opportunità che, a momenti, è servita solo a creare nuovi enti a carico dello stato.

Un “esile” intervento si può riscontrare all’art. 24 del d.lgs. n. 80/2015, “Congedo per le donne vittime di violenza di genere”, tramite cui viene riconosciuto il diritto di astensione dal posto di lavoro della durata di 3 mesi per seguire un percorso di protezione relativo alla violenza di genere. Ma questa violenza di genere come viene inquadrata se subita sul posto di lavoro? Come viene prevenuta? Come viene controllata?

In questa mesta scena, un male, paradossalmente inevitabile, serpeggia, nel frattempo, tra operai, impiegati, apprendisti, donne, giovani. È un male che mina violentemente la serenità del rapporto di lavoro e la sua sana e giusta prosecuzione: è il sopruso lavorativo , comunemente conosciuto come mobbing (dall’inglese to mob: aggredire, assalire). Si userà intenzionalmente, nel corso di questa dissertazione, il termine sopruso (sopra l’uso: atto con cui, abusando della propria forza e autorità, s’impone ad altri la propria volontà, ledendo i loro legittimi diritti ed interessi, TRECCANI Vocabolario) proprio per includere nel discorso ogni possibile comportamento o atteggiamento datoriale ingiusto, violento, subdolo, prevaricatore sui lavoratori, aldilà del mobbing vero e proprio che ha requisiti ed inquadramento giurisprudenziale precisi e predeterminati.

A nulla sembra essere servita la normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, il cui asse portante è il d.lgs. n. 81/2008. A chiare lettere all’articolo 2, lett. o), Definizioni, del decreto citato, si definisce “salute” lo stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità . L’articolo 28, Oggetto della valutazione dei rischi, inoltre, tra i rischi per la sicurezza e salute dei lavoratori, include esplicitamente anche i rischi collegati allo stress lavoro-correlato .

De Filippis 12 1Come dire, le norme ci sono ma sono poco applicate, poco conosciute, poco considerate, poco “verificate” e, paradossalmente, negli anni di maggior sensibilizzazione legislativa verso la salute dei lavoratori, crescono, sul campo di battaglia, i fenomeni di vessazioni, ingiurie, maltrattamenti, molestie sessuali, pressione psicologica, sui lavoratori. Risulta ancor più grave e vergognoso che molte imprese non si sono mai dotate di un Documento di Valutazione dei Rischi (DVR), nemmeno nella formula dell’autocertificazione, né si sono mai impegnate nella formazione e informazione dei propri dipendenti. Scarsità di pubblicità e promozione delle norme? Scarsità del senso civico d’impresa? Insufficienza dei controlli ispettivi? Diverse le possibili concause del fenomeno.

Il sopruso lavorativo dilaga ormai. Esso ha effetti devastanti sulla persona colpita; i danni sono sia psicologici che fisici; si manifestano con pesanti sintomi psicosomatici, stati depressivi o ansiosi, tensione continua e incontrollata, limitazione della vita relazionale. L’esito ultimo può essere il suicidio.

Il sopruso lavorativo provoca anche un crescente calo di produttività all’interno dell’azienda in cui si verifica: si registra un forte calo del rendimento professionale e la vittima si assenta spesso per visite o per periodi di malattia. Tale costo si ripercuote, dunque, anche sull’intera società per motivi assistenzialistici.

Premesso e considerato, dunque, che le norme sulla sicurezza sono rimaste disattese in Italia dal punto di vista applicativo della prevenzione, della promozione della salute e della sicurezza, della formazione e informazione dei lavoratori, la situazione è ancor più deleteria quando il lavoratore colpito intende tutelarsi attivando una sua difesa. Insomma, non solo l’inapplicazione concreta della legge a monte, bensì anche la quasi totale impossibilità effettiva di difendersi a valle!

Diritti scritti, diritti non esercitabili: quale peggiore menomazione, deturpazione, sfregio per un sistema giuridico che fonda la propria Repubblica sul LAVORO?

L’input europeo fu molto chiaro sin dal 2001 con la risoluzione del Parlamento Europeo, Mobbing sul posto di lavoro (Risoluzione A5-0283/2001). La “risoluzione”, tuttavia, non è un atto precettivo nè vincolante per gli Stati membri, motivo per cui, in Italia, l’attenzione rivolta al problema è stata mediocre ed insufficiente. Dunque, aldilà, del TU n. 81/2008 e del d. lgs. n. 198/2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), in Italia, non si sono fatti grandi progressi normativi, anzi c’è stata persino una procedura di infrazione comunitaria per il differimento dell’entrata in vigore dell’obbligo di valutazione del rischio di stress da lavoro (procedura di infrazione n. 2010/4227 avviata dalla Commissione europea per il non corretto recepimento, nel nostro ordinamento giuridico, della Direttiva 89/391/CEE del Consiglio, del 12 giugno 1989, concernente l'attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro).

Eppure la salute e il benessere sul lavoro sono fattori fondamentali anche nella Strategia europea per il 2020. Un’economia sana dipende dall’esistenza di una popolazione sana. Senza questa premessa, i datori di lavoro perdono produttività e competitività; i cittadini sono privati di potenziale longevità e non godono di una buona qualità della vita. Questo aspetto è di particolare rilevanza anche per far fronte al fenomeno dell’invecchiamento demografico della popolazione europea.

Ad oggi, in Italia, aldilà della turpe assenza sociologica di una “cultura delle regole” (per citare Gherardo Colombo), male alla base di tutti gli altri mali italiani, male che invade soprattutto le più alte istituzioni pubbliche, la strada per avere tutele nel caso di sopruso lavorativo è talmente tortuosa da far rinunciare a priori all’idea di difendersi secondo legge. Il rischio è chiaramente o che si sviluppino faide privatistiche di auto-giustizia o che si rinunci ai propri diritti ancorchè scritti e riconosciuti persino nella Carta Costituzionale. Non esistendo un sistema di tutele ad hoc, ad oggi, ci si può tutelare con le comuni azioni civili per responsabilità contrattuale (obligatio ex contractu) o extra-contrattuale (obligatio ex delicto), ovvero con azione penale, più incisiva. Chiaramente, la scelta di uno di questi canali comporta il completo rispetto degli standard procedurali interni ad ognuno di essi; in particolare, per la parte lesa non ci sono sconti nell’onere della prova.

Dunque, questo il quadro panoramico in cui un lavoratore può innestare la propria tutela per avere subito maltrattamenti a lavoro. Il dramma principale in questi casi resta l’”ossessione” della prova. Dovendo rientrare, infatti, la fattispecie in commento nei cardini ordinari di un’azione civile o penale, le regole sull’onere della prova, sulla produzione di essa e relativa efficacia, restano invariate. Questo il cruccio peggiore di avvocati e loro assistiti, lavoratori vittime!Spesso si è costretti a rinunciare ad un’azione giudiziaria perché, sulla base delle norme processuali e sostanziali vigenti, la vittima dovrebbe essere indotta ad una probatio quasi diabolica.

Nella realtà, in fondo, chi, per fare un esempio, trovatosi in stato emotivo confusionale, di paura, di soggezione psicologica totale, avrebbe la lucidità ed il coraggio di portare con sé uno strumento tecnico di registrazione per documentare i maltrattamenti e le molestie che subisce sul posto di lavoro? Ovvero, un collega di lavoro potrà mai testimoniare rischiando, a sua volta, ritorsioni dal datore di lavoro coinvolto? Ovviamente NO.

Spesso, a seguito di reiterati maltrattamenti, ci si rivolge ad uno specialista di salute mentale, il quale, con certificazioni mediche, attesta lo stato di salute dell’assistito. Aldilà dell’uso risarcitorio, queste certificazioni mediche, nei fatti, spesso sono poco “valorizzate” in termini di prova se non aventi connotazioni tanto gravi da dimostrare un danneggiamento mentale pesante correlato all’ambiente di lavoro. Troppo spesso, in verità, si dimentica che la salute è lo stato “naturale” dell’individuo, uno stato esistente in positivo; la salute è stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità , come da T.U. n. 81/2008. Dunque, il fatto stesso di recarsi presso un centro di salute mentale del servizio sanitario pubblico che attesti e rilasci fedele certificazione medica è prova in sé di una lesione subita ingiustamente in un preciso periodo ed in correlazione ad una causa specifica clinicamente accertata.

Di fronte ad elementi precisi e concordanti (oggigiorno fondamentali gli sms e le mail) è fondamentale, pertanto, fissare un onere della prova agevolato per la vittima. Attraverso l’agevolazione probatoria, il giudice potrà valutare pienamente il fatto anche sulla base di presunzioni. La delicatezza della situazione richiede a gran voce un intervento di tal genere.


De Filippis 12 2Dopo avere lasciato un lavoro ingiustamente, la vittima, oggi, subisce anche la durezza e la rigidità ridondante delle norme processuali vivendo un incubo senza fine, fino a rinunciare all’esercizio dei propri diritti. Dunque, diritti esistenti sulla carta ma non esercitabili nella vita reale e il magistrato adito, responsabilmente, deve e può solo interpretare ed applicare le leggi esistenti. Circuito chiuso, ottuso, arreso a se stesso insomma, come un moderno letterario Ciclo dei vinti.

Indi, in caso di contenzioso ovvero di atti di dimissioni per giusta causa per maltrattamenti e molestie sul posto di lavoro, se il dipendente produce elementi sufficienti e tali da far presumere l’esistenza di vessazioni, ingiurie, minacce di licenziamento, proposte sessuali indesiderate, in un generale clima intimidatorio e ostile sul posto di lavoro, incomberà sul datore di lavoro la prova che quegli atti compiuti non costituiscono reato e che i suoi comportamenti trovano fondamento in ragioni oggettive estranee al rapporto di lavoro.

Risulta, inoltre, assolutamente urgente l’introduzione di una figura autonoma di reato, come accaduto già in Francia (Lutte contre le Harcèlement moral au travail, legge n. 73/2002).

Dovrebbe introdursi, in Italia, una fattispecie delittuosa suscettibile di gradazione nel suo sviluppo, manifestandosi in una sorta di progressione criminosa covata in un nucleo “iniziatico” di matrice delittuosa. Ad esempio, se si è trattato di atti dannosi reiterati nel tempo, verrà disposta una congrua misura detentiva e una multa di un certo importo. Se si è trattato di pochi e rari atti dannosi, il lavoratore avrà una tutela piena ancorchè mitigata in relazione alla qualità e quantità del maltrattamento subito.

Invece, oggi, in Italia, si da attenzione al lavoratore solo in presenza di eventi gravissimi e visibili materialmente, ovvero in presenza di mobbing vero e proprio, fattispecie giurisprudenziale molto complessa e per la cui verificabilità e sussistenza si richiede, tra le altre, una reiterazione importante degli atti subiti. Dunque, di fronte ad atti gravi ma non reiterati, sembra non esistere il presupposto di una giusta tutela; quasi non ne valesse la pena! Allora, assunta la “lieve” entità dei fatti, scoraggiati, delusi e frustrati, si continua a lavorare in condizioni persistenti di latente ostilità, continuando ad ammalarsi in silenzio senza neanche accorgersene, ovvero, esasperati, coscienti e sconfitti, si decide di lasciare il posto di lavoro.

Per la realizzazione della giustizia, l’antigiuridicità di un atto deve avere sempre adeguata risposta sanzionatoria dall’ordinamento, anche solo per creare una “macchia” nell’identità del reo, valido “precedente” per il prossimo lavoratore vittima, vista la regola probatoria tanto rigida. Il fatto che il reato si verifichi in ambiente lavorativo dovrebbe essere considerato dall’ordinamento come una fattispecie più grave rispetto a quando il medesimo fatto si verifichi altrove perché il “lavoro” è la condizione inevitabile per vivere; tolto il lavoro, è tolta la possibilità concreta di vivere e di sopravvivere! Dunque, ad esempio l’ingiuria, la diffamazione, il plagio, la violenza privata, la minaccia, la rivelazione del contenuto di documenti segreti, i maltrattamenti, le lesioni personali fisiche e psichiche, fattispecie già contenute nel codice penale italiano, dovrebbero assumere una veste più grave se consumati in costanza di rapporto di lavoro o di collaborazione professionale.

Il datore di lavoro, autore di comportamenti antigiuridici sul posto di lavoro, dovrà essere “registrato” tale presso gli enti previdenziali ed assistenzialistici, presso la DTL, perché non dovrà né potrà usufruire, per tutta la vita della sua impresa, di sgravi contributivi né di agevolazioni fiscali, lavoristiche, economiche. Si potrebbero fissare, inoltre, preclusioni al rilascio delle attestazioni utili per partecipare alle gare di appalto pubbliche, creando una sorta di magna interdizione legale. La severità e la deterrenza delle misure punitive è l’unico sistema utile in un paese ad illegalità e corruzione diffuse.

De Filippis 12 3La salute è un bene inestimabile, a protezione multilivello. La definizione contenuta nel nostro TU n. 82/2008 è di derivazione internazionale. Nella Costituzione dell'OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità, essa è, infatti, definita come "stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia"; essa è un diritto e come tale si pone alla base di tutti gli altri diritti fondamentali che spettano alle persone. Questo principio fonda la responsabilità degli Stati nel predisporre sistemi adeguati in materia, aldilà della semplice gestione del sistema sanitario pubblico.

Altro bene incommensurabile è il lavoro, bene sulla cui grandezza risulta persino superfluo scrivere in questa sede, tanta è la evidenza del suo rilievo.

Potrà mai lo Stato italiano produrre un’utile e dignitosa legge che combini la protezione del bene “salute” con la protezione del bene “lavoro”? L’humus delle vite degli uomini e delle donne comuni è ben vangato da anni sul posto di lavoro, troppo spesso è vangato malamente dalla pala prevaricatrice del datore di lavoro. Il problema è dilagato in concomitanza della crisi economica, della precarietà, della guerra tra poveri, la guerra tra chi tollera di più condizioni di umiliazione personale.

Se la Costituzione del 1948 è ancora veramente in vita, un segno, un intervento serio, chiaro, intelligente in materia, dovrà arrivare anche in Italia.

Nostra intenzione, del resto, attraverso questo articolo, è proprio quella di attirare l’attenzione dei giuslavoristi, dei consulenti del lavoro, del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, della magistratura, dei sindacati, affinché, in armonia, si adoperino al più presto in questo lungimirante urgente progetto, traendo spunto dalle vite della gente comune.

Questa “questione” come viene affrontata oggi dagli organi ispettivi?Può rientrare nelle loro verifiche un oggetto tanto spinoso e grave?

Negli ultimi anni, inoltre, si è sviluppato un folto sistema di certificazioni di qualità aziendale. Si pensi alla SA8000, standard internazionale che elenca i requisiti per un comportamento eticamente corretto delle imprese e della filiera di produzione verso i lavoratori.

Rivolgendosi alle medie e grandi imprese, potrebbero svilupparsi sistemi seriamente “attraenti” per incentivare i datori di lavoro al rispetto di parametri di “correttezza” nei rapporti di lavoro.

L’ultima importante sfida è l’ASSE.CO (Asseverazione di conformità dei rapporti di lavoro) eseguita dai Consulenti del Lavoro, un sistema di “favore” per le imprese realmente sane, argomento su cui si tornerà nel prossimo articolo. Quadrato Azzurro

[*] Consulente del Lavoro - www.sibillaconsulting.com.  La Dr.ssa Gianna Elena De Filippis ha vinto nel 2012 il Premio Massimo D’Antona (http://www.fondazionedantona.it/Premi/Prima.html)


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