La recente evoluzione normativa del regime delle responsabilità solidali in materia di appalti - Un focus sugli appalti c.d. “labour intensive”

di Antonino Ferruggia [*]

Ferruggia 2 1L’attuale formulazione dell’art. 29, comma 2, D.lgs. n. 276/2003, come rivisitato dalla L. n. 92/2012 (c.d. “riforma Fornero”), reintroduce un congegno giuridico col quale si consente alla contrattazione collettiva, purché di livello nazionale, di derogare al regime delle responsabilità solidali tra due o più attori economici coinvolti in un appalto o subappalto.

È utile ricordare come la ratio del sistema delle responsabilità solidali tra committente ed appaltatore o, ad un eventuale livello inferiore della filiera commercialistica, tra appaltatore e subappaltatore, sia da riconnettersi alla circostanza che l’impresa esternalizzante si avvantaggia di prestazioni lavorative altrui – quelle dei dipendenti dell’impresa esternalizzata – integrandoli nella propria organizzazione.

Da ciò discende l’imposizione di una contropartita ad opera del legislatore che si radica nella compartecipazione dell’impresa esternalizzante, nella veste di obbligato solidale, al rischio di dovere intervenire nel pagamento delle retribuzioni e nel versamento dei contributi per prestatori di opere non inseriti nel proprio organico aziendale.

Per vero, già il correttivo del 2004 al D.lgs. n. 276 (D.lgs. n. 251) aveva condizionato l’operatività del sistema delle responsabilità condivise all’assenza di contratti collettivi nazionali che derogassero alla disciplina generale.

Nell’ottica di un rafforzamento delle tutele giuslavoristiche in materia di appalti, la successiva correzione apportata dalla finanziaria del 2007 (L. n. 296/2006) aveva abrogato la derogabilità sul piano della regolamentazione contrattual-collettiva della solidarietà passiva del committente e degli eventuali ulteriori subappaltanti inferiti nel decentramento di attività dell’impresa. Il meccanismo delle corresponsabilità in materia contributiva e retributiva avrebbe così trovato applicazione sempre e comunque, in ogni ipotesi di appalto di opere e servizi. In quest’ottica, si provvide a sottrarre alle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro un significativo ambito di intervento, suscettibile di alterare gli equilibri delle relazioni di lavoro e delle garanzie delineate dal legislatore.

La riforma Fornero da ultimo varata torna dunque ad una formulazione del dispositivo legale molto vicina alla precedente statuizione introdotta con il correttivo del 2004. In altri termini, viene ad essere riaffermata la possibilità per i soggetti sindacali di incidere sul sistema delle responsabilità solidali, fino al punto da impedirne l’azionamento o ridimensionarne la portata.

L’unica novità di rilievo rispetto alla previsione del 2004 risiede nell’aver voluto subordinare l’eventuale deroga all’avverarsi di un preciso presupposto fattuale. Invero la novella del 2012 sancisce quale conditio sine qua non per obliterare le responsabilità solidali che gli attori collettivi comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale diano corso a forme adeguate di verifica circa la regolarità complessiva degli appalti attraverso non meglio precisate metodologie e procedure di controllo.

In primo luogo, vi è da chiedersi come possa declinarsi in concreto simile incerta e ambivalente espressione. Sul punto, non può che rimandarsi ai numerosi ed irrisolti punti di criticità emersi nell’annoso dibattito attorno ai temi della rappresentanza e rappresentatività sindacali. Ad onta delle disposizioni contenute nell’art. 39, commi 2 e segg., Cost., il ruolo e l’incisività delle parti sociali nella regolazione dei rapporti di produzione si sono storicamente affermati senza gli argini e le condizioni che una vera legge sulla rappresentanza costituzionalmente orientata avrebbe prodotto. Sotto altro aspetto, nell’odierno panorama caratterizzato da una crisi di rappresentanza del sindacato confederale, dall’indebolimento dell’azione delle rappresentanze dei lavoratori nei luoghi di lavoro e da un’accentuata conflittualità infra-sindacale, può discutersi dell’opportunità di devolvere tout court a simili organizzazioni non soltanto il quomodo, ma financo l’an della più incisiva garanzia lavoristica pensata dal legislatore del 2003 per fare fronte agli effetti perversi ascrivibili alla scomposizione organizzativa dell’impresa.

A parere di chi scrive occorrerebbe invece che le scelte del legislatore convergessero nell’assicurare un presidio indisponibile di garanzie a favore delle maestranze formalmente assunte dall’impresa esternalizzata ma di fatto assorbite dalle trame organizzative dell’impresa principale, senza assoggettarne l’azionamento all’assenza di una convenzione derogatoria di matrice sindacale. Ciò al precipuo scopo di “blindare” l’assunto sul quale si è incardinata l’intera storia del diritto del lavoro italiano, id est quello dell’inderogabilità della norma lavoristica.

In queste brevi note, ragionare su ipotetici scenari in una prospettiva de iure condendo finalizzata a rintracciare punti di equilibrio tra ragioni economiche e tutela delle condizioni di lavoro in punto alla disciplina sugli appalti appare oltremodo velleitario. D’altra parte, persino in questa sede si ambisce ad abbozzare un diverso orizzonte legislativo, quantomeno per quella quota di esternalizzazioni in cui i lavoratori sono più soggetti a situazioni di sotto-protezione che, nei casi più estremi, sfociano in vere e proprie attestazioni di dumping sociale.

In questo contesto, è possibile fare riferimento a quegli appalti in cui siano dedotti ad oggetto delle prestazioni dell’impresa esternalizzata servizi ad alta intensità di lavoro e scarso contenuto professionale, laddove il committente non si avvale della specializzazione funzionale dell’impresa appaltatrice, bensì incorpora all’interno della propria catena di valore prestazioni lavorative ad esiguo valore aggiunto [1].

Ferruggia 2 4In simili scenari, i lavoratori impegnati nell’esecuzione della commessa sono tenuti ad autodeterminare il contenuto della propria prestazione lavorativa in ragione della semplicità e ripetitività dei compiti che essi sono chiamati a svolgere. Nondimeno, tale autonomia operativa non si traduce in un’altrettanta posizione di forza e indipendenza a causa della duplicazione dei centri di esercizio del potere direttivo ed organizzativo, ovvero il datore di lavoro formale e l’impresa committente. Viene cioè in evidenza una condizione di effettiva codatorialità che espone il lavoratore alla conformazione ad opera di più soggetti, se non delle proprie lavorazioni, quantomeno della disciplina di lavoro.

La fenomenologia che si tenta di tratteggiare è quella che riguarda imprese di medie, piccole o piccolissime dimensioni. Entro questo versante vengono a dislocarsi sulle maestranze – assunte dal soggetto decentrato ma inserite nel tessuto aziendale del principal – rischi estranei alla sfera strettamente pertinente l’adempimento dell’obbligazione di facere. Il rapporto di lavoro appare più soggetto a instabilità, così come più volatile e inadeguato diventa il livello delle protezioni di tali prestatori di opere, siccome l’organizzazione datoriale spesso non riesce ad affrancarsi da una condizione di monocommittenza e di relativa strutturale debolezza verso l’anello sovra-ordinato che detiene la golden share del processo di outsourcing. E non sempre i rimedi escogitati dal legislatore per contrastare fenomeni di abuso di dipendenza economica sono stati all’altezza della sfida di edificare uno statuto protettivo a vantaggio di imprese in situazioni di dipendenza progettual-tecnologica dal committente [2]. Di qui, l’articolarsi di un intreccio tutt’altro che virtuoso tra processo commercialistico e processo lavoristico, per cui gli sbilanciamenti e le sfasature delle relazioni economiche e di potere del primo si proiettano sul secondo, condizionandone caratterizzazioni e sviluppo. Invero, la debolezza economica e l’assoggettamento giuridico dell’impresa esternalizzata si riflettono sovente sui lavoratori che quest’ultima aggrega ai processi organizzativi dell’impresa principale.

Riepilogando, l’ambito d’indagine selezionato è quello dei c.d. appalti labour intensive, ove la compagine decentrata corrisponde ad una realtà economica modesta sul piano dimensionale-occupazionale, per di più soggetta a supremazia economica e progettual-tecnologica del principal. Si pone pur sempre riguardo a dinamiche commercialistiche in cui la dizione “appalto” costituisce il nomen iuris conferito dalla volontà delle parti contraenti. Eppure lo svolgimento concreto della relazione contrattuale rivela in questo caso solo una sfumata aderenza della fattispecie concreta al tipo delineato dall’art. 1655 e segg. cod. civ., giusta il degradare della causa del contratto al punto da lambire le manifestazioni interpositorie in senso proprio. In altri termini, se in un contratto di appalto vengono in risalto servizi che per essere erogati al committente necessitano dell’apporto prevalente o esclusivo di lavoro umano, peraltro a scarso valore aggiunto, decade la possibilità di individuare un discrimen giuridicamente attendibile tra un siffatto appalto ed una mera interposizione di lavoro.

Orbene, l’assetto normativo vigente – in ciò suffragato dall’orientamento dottrinale e giurisprudenziale maggioritario – ha incomprensibilmente continuato a ricavare l’organizzazione dei mezzi nel settore dei servizi labour intensive, necessaria a qualificare come genuina una operazione di decentramento, dall’esercizio di potere direttivo ed organizzativo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto. Tuttavia, anche all’esito di una superficiale ricognizione questo parametro appare inadeguato a tracciare un netto spartiacque nella dicotomia appalto/interposizione. Per la semplice ragione che in ambiti di questa specie le prestazioni di lavoro, in quanto a carattere fungibile ed esecutivo, non necessitano di alcuna specificazione o conformazione datoriale [3].

La configurazione statica della fattispecie in parola, così come il suo concreto atteggiarsi in senso dinamico, rivelano una perfetta corrispondenza tra appalto labour intensive ed interposizione di lavoro. Non appare allora ardita l’ipotesi di mutuare dalla disciplina della somministrazione autorizzata di manodopera – ovvero da quel quadro legale che ha riportato ad una situazione di diritto una situazione di fatto classificata come patologica tout court nel vigore della disciplina previgente – la regola della parità di trattamento tra dipendenti dell’impresa appaltatrice e dipendenti dell’impresa appaltante, a parità di mansioni svolte [4].

Ciò per affermare il principio che neppure in tempo di crisi all’impresa sia consentito scegliere l’istituto più conferente all’esigenza di ridurre al minimo il costo del lavoro, poiché ciò causerebbe un intollerabile contraccolpo al tralatizio modello di indisponibilità dei diritti dei lavoratori derivanti da norme inderogabili. Secondo una simile impronta ricostruttiva [5], ogni qual volta si abbia a che fare con un’interposizione sotto mentite spoglie – paradigmatico al riguardo è il caso dell’appalto labour intensive –, ebbene lì andrebbe applicata la regola della parità di trattamento. Col il solo limite dettato da un’eventuale sentenza che pronunci l’illiceità del rapporto triangolare [6], in quanto per una simile evenienza l’ordinamento stabilisce imperativamente l’imputazione giuridica dei prestatori di opere impiegati nell’organizzazione principale proprio alle dipendenze di quest’ultima (appaltante), con relativa estromissione del soggetto interposto (appaltatore) dalla vicenda triangolare.

Ferruggia 2 3Solo in una tal guisa può formularsi un attendibile giudizio probabilistico in ordine ad una più accentuata adesione dei modelli relazionali adoperati dalle imprese alle regole del diritto del lavoro. Con implicazioni di sicura deterrenza rispetto ai comportamenti opportunistici di realtà aziendali che spesso brandiscono ideologicamente lo spauracchio della crisi per scardinare l’assetto consolidato delle tutele lavoristiche e addentrarsi nei mercati delle regole alla ricerca della massima convenienza al minor costo. Per dirla con Massimo D’Antona, «nel diritto del lavoro dove il processo di tipizzazione del contratto è inseparabile dallo sviluppo dell’ordinamento protettivo del lavoratore, i modelli di disciplina riferibili ai vari rapporti sono per definizione necessari, nel senso che la imputazione è automatica quando ricorrono certe caratteristiche soggettive ed oggettive del rapporto; e sono inoltre normalmente esclusivi, nel senso che il ricorso a schemi contrattuali alternativi, che realizzano assetti di interessi divergenti dal tipo, è irrilevante» [7].  

La logica che pervaderebbe il diritto del lavoro tornerebbe ad incardinarsi sul principio di effettività, melius sul c.d. “tipo imposto o esclusivo” volto a precludere “schemi negoziali alternativi per realizzare il medesimo risultato a condizioni diverse da quelle stabilite legalmente” [8]Quadrato Verde

Note:

[1] In dottrina v. ex multis V. Speziale, Il datore di lavoro nell’impresa integrata, Atti delle giornate di studio Aidlass di Catania, 21-23 maggio 2009, in La figura del datore di lavoro. Articolazione e trasformazioni, Giuffrè, Milano, 2010, p. 29; L. Calcaterra, Il divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro: problemi applicativi e prospettive di riforma, in R. De luca Tamajo (a cura di), I processi di esternalizzazione. Opportunità e vincoli giuridici, Esi, Napoli, 2002, p. 156. Al riguardo, parla addirittura di “evaporazione o virtualizzazione degli elementi materiali” R. De Luca Tamajo, Le esternalizzazioni tra cessione di ramo d’azienda e rapporti di fornitura, in Id., I processi di esternalizzazione. Opportunità e vincoli giuridici, op. ult. cit., pp. 45-46.

[2] V. C. Osti, L’abuso di dipendenza economica, in Merc. conc. reg., 1999, pp. 9 e 56. Sulla identificazione tra comportamento abusivo e violazione del dovere di buona fede v. Cass. 20 aprile 1994, n. 3775, in Corr. giur., 1994, p. 566.

[3] V. retro.

[4] Peraltro un’impostazione di questo tipo era già presente con la L. n. 1369/1960, abrogata in seguito all’entrata in vigore del D.lgs. n. 276/2003.

[5] Ovviamente la soluzione adottata costituisce una mera impronta ermeneutica di politica del diritto, non ricavabile dal diritto vivente nella sua attuale conformazione.

[6] Antonio Lo Faro (Id., Processi di outsourcing e rapporti di lavoro, ed. provv., 2003, p. 87 del dattiloscritto) connota come operazione triangolare qualsiasi vicenda di outsourcing in cui sia dato verificare che i lavoratori assunti dall’impresa decentrata vengano di fatto impiegati nell’ambito dell’organizzazione principale mediante uno qualsiasi degli schemi negoziali di cui abbonda la contrattualistica di diritto commerciale.

[7] M. D’Antona, Contrattazione collettiva e autonomia individuale nei rapporti di lavoro atipici, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 1990, pp. 529-565, adesso in Opere (da cui si cita), Giuffrè, Milano, 2000, pag. 83.

[8] Così M. D’Antona, op. ult. cit., pag. 81.

[*] Vincitore 2012 del Premio Massimo D'Antona
Il Dr. Antonino Ferruggia è Funzionario della Direzione Regionale del Lavoro di Bologna.
Ogni considerazione è frutto esclusivo del proprio libero pensiero e non impegna in alcun modo l’amministrazione di appartenenza ai sensi della circolare del Ministero del Lavoro del 18 marzo 2004.


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