Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo

di Alberto Del Prete [*]

Alberto Del PreteÈ notorio che il licenziamento si configura come un atto unilaterale recettizio con il quale il datore di lavoro comunica ad un lavoratore alle proprie dipendenze la formale cessazione del rapporto di lavoro, con tutte le conseguenze di legge. Quest’atto, tuttavia, non è sempre uguale a se stesso, nel senso che dottrina, giurisprudenza e lo stesso legislatore hanno, a più riprese, individuato diverse possibili categorie, distinguendo, per ciascuna di esse, presupposti, procedure, termini e relative forme di tutela.

A grandi linee si può distinguere il licenziamento fondato su motivazioni a vario titolo attinenti al lavoratore (giusta causa, disciplinare o giustificato motivo soggettivo) dal licenziamento che, invece, viene intimato per motivazioni attinenti esclusivamente al datore di lavoro, nel qual caso si parla di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. L’oggettività, in questo caso, sta ad indicare, per l’appunto, proprio il fatto che il licenziamento scaturisce da una problematica riguardante il solo datore di lavoro, che il lavoratore si trova, perciò, a dover subire senza alcuna responsabilità.

Il giustificato motivo oggettivo

La disciplina di questa peculiare fattispecie va ricercata nella disposizione di cui all’art. 3 Legge 604/1966, che prevede che il licenziamento possa essere intimato “per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”; si tratta, in buona sostanza, di circostanze che mettono il datore di lavoro nella condizione di dover estromettere il lavoratore dall’organizzazione aziendale come extrema ratio, nei casi in cui non s’intravedono, a breve termine, idonee soluzioni alternative. Costituiscono, pertanto, giustificato motivo oggettivo la crisi dell’impresa, la cessazione della sua attività o anche il solo venir meno delle mansioni cui è assegnato il lavoratore, senza che sia possibile il suo ricollocamento alternativo in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili con il suo livello di inquadramento.


È importante, tuttavia, avere ben chiara la visione dei limiti di ammissibilità di questa particolare modalità di licenziamento, poiché in difetto di riscontro lo stesso licenziamento potrà essere dichiarato illegittimo. Sotto questo profilo, peraltro, una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. 25201 del 07/12/2016) ha introdotto una significativa novità, riconoscendo la rilevanza della ragione non solo economica ma anche organizzativa, in sé per sé considerata, come requisito o estremo del giustificato motivo oggettivo.

È stato, infatti, sancito che «ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare e il giudice accertare, essendo sufficiente dimostrare l’effettività del mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa a meno che il datore di lavoro non abbia motivato il licenziamento richiamando l’esigenza di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli».

Ne consegue, allora, che solo ove il datore di lavoro adduca una ragione economica alla base della soppressione del posto, il giudice è legittimato a verificare la veridicità e la sussistenza di questa causale, mentre ove il datore di lavoro adduca una ragione di tipo organizzativo alla base della soppressione del posto, il giudice deve limitarsi ad accertare l’effettività dello stesso riassetto organizzativo attraverso la soppressione di una determinata posizione lavorativa. E tuttavia il giudice, per evitare che qualunque riassetto organizzativo addotto dal datore di lavoro costituisca un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, deve utilizzare criteri oggettivi come quello dell’inutilità sopravvenuta della prestazione, o altri criteri oggettivi necessari per accertare l’effettiva sussistenza della ragione organizzativa come causa della soppressione del posto e del conseguente licenziamento.

La procedura

Esaminando l’istituto in parola, emerge come il legislatore abbia inteso in qualche modo procedimentalizzare detta fattispecie, a scopi deflattivi del contenzioso in materia, dettando una serie di regole riscontrabili all’art. 7 Legge 604/1966, così come novellato dall’art. 1, comma 40, Legge 92/2012 (Legge Fornero). Di sicuro rilievo, per trarne ulteriori elementi conoscitivi sulla suindicata procedura, appare anche la C.M. 3/2013 del 16/01/2013 appositamente emanata dal Ministero del Lavoro a chiarimento di dette novità legislative.

Va detto, innanzitutto, che la disciplina in parola viene dettata, con efficacia obbligatoria, espressamente per le aziende al di sopra dei 15 dipendenti (più di 5 se trattasi di azienda agricola) nell’ambito dello stesso Comune, ovvero con più di 60 dipendenti su scala nazionale. Al di sotto di tali limiti dimensionali, invece, viene meno il requisito dell’obbligatorietà.


Da questa disciplina resta esclusa, invece, l’ipotesi del licenziamento per superamento dei limiti di comporto, ai sensi dell’art. 7 VI° comma Legge 604/1966, così come modificato dall’art. 7 IV° comma D.L. 76/2013, convertito in Legge 99/2013. Restano pure escluse altre due fattispecie, espressamente indicate dall’art. 2, comma 34, Legge 92/2012 relative a casi di: a) licenziamenti effettuati in conseguenza di cambi di appalto, ai quali siano succedute assunzioni presso altri datori di lavoro, in attuazione di clausole sociali che garantiscano la continuità occupazionale prevista dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale; b) interruzione di rapporti di lavoro a tempo determinato nel settore delle costruzioni edili, per completamento delle attività e per chiusura del cantiere. La deroga al principio generale si giustifica, nel primo caso, sul presupposto che, a ben vedere, non c’è una vera e propria perdita del posto di lavoro, mentre, nel secondo caso, sul presupposto che, notoriamente, i rapporti di lavoro in edilizia sono sempre legati ai cicli lavorativi dei cantieri, per cui, quando si esaurisce l’attività del cantiere, ricorre senza dubbio l’ipotesi del giustificato motivo oggettivo. La procedura, inoltre, non si applica nelle ipotesi in cui il licenziamento riguardi un numero di lavoratori superiore a 4 per i quali l’azienda decida di recedere dal rapporto di lavoro in un arco temporale inferiore ai 120 giorni, nel qual caso si applicano le disposizioni in materia di mobilità, ai sensi della Legge 223/1991.

Del Prete 22 1In tutte le altre ipotesi nelle quali trova, dunque, applicazione la procedura introdotta dalla Legge Fornero, l’azienda dovrà avviare la stessa mediante trasmissione di una comunicazione alla Direzione Territoriale del Lavoro, oggi Ispettorato Territoriale del Lavoro, competente per territorio e contestualmente al lavoratore interessato, nella quale rende nota la propria intenzione di recedere dal rapporto di lavoro spiegandone, contestualmente, quelle che sono le ragioni giustificative e l’eventuale impossibilità di ricollocazione alternativa dello stesso lavoratore e chiedendo, infine, la convocazione delle parti dinanzi alla Commissione Provinciale di conciliazione, composta da esponenti delle principali organizzazioni datoriali e sindacali e presieduta dal Capo dell’Ispettorato del Lavoro o da un funzionario appositamente delegato.


Dal momento della ricezione della missiva, l’Ufficio deve provvedere all’invio della convocazioni ad entrambe le parti interessate entro e non oltre 7 giorni. La fissazione della data nella quale riunire la predetta Commissione dev’essere individuata entro e non oltre i 20 giorni successivi, per cui, dalla data di ricezione della ricezione della prima comunicazione, il tentativo di conciliazione dovrà avvenire entro un termine massimo pari a 27 giorni. Trattasi di termini perentori, poiché, in caso di mancato rispetto anche di uno solo di essi, il datore di lavoro avrà facoltà di procedere senz’altro al licenziamento, senza neppure avere l’obbligo di attendere la relativa convocazione, così vanificandosi, di fatto, l’intera procedura conciliativa.


Ricevuta la convocazione, le parti sono tenute a presentarsi personalmente dinanzi alla suindicata Commissione nel giorno e nell’ora prefissati per dare luogo al tentativo di conciliazione, onde poter conferire allo stesso una reale efficacia, sia perché nessun altro può conoscere le vicende riguardanti il rapporto di lavoro meglio delle parti direttamente interessate, sia perché esse stesse, in ultima analisi, dovranno decidere se compiere tutti gli sforzi necessari per trovare un accordo con la rispettiva controparte, ovvero rifiutare tale possibilità, accollandosene personalmente tutte le possibili conseguenze. Possono, però, farsi assistere dalle rispettive organizzazioni sindacali e datoriali, ovvero da professionisti appositamente incaricati (avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro). Inoltre, in caso d’impedimento, entrambe le parti possono anche delegare quest’ultimi, i quali, dovranno presentarsi muniti di delega, nelle forme di legge, comprendente l’autorizzazione a transigere e conciliare, incassare somme e rilasciare quietanze in nome e per conto del proprio rappresentato. Oppure, sempre in caso d’impedimento, entrambe le parti possono richiedere alla Commissione un breve rinvio della trattazione che, comunque, dovrà espletarsi entro i 15 giorni successivi, termine fissato al fine di prevenire deprecabili atteggiamenti dilatori.

Comparse dinanzi alla Commissione le parti iniziano la discussione nella ricerca di un possibile accordo con la partecipazione attiva della stessa Commissione la quale è chiamata ad esortare in ogni modo le parti al fine di raggiungere la conciliazione, formulando, laddove possibile, anche una vera e propria proposta conciliativa, sulla quale le parti saranno, poi, chiamate a pronunciarsi. Nulla esclude, tuttavia, che l’incontro possa essere aggiornato, con il consenso di entrambe le parti, anche al di là dei suindicati limiti, al fine di esplorare tutte le possibili condizioni che possano condurre ad una conciliazione.

Il tentativo, comunque, si conclude con la redazione di un verbale di accordo ovvero di mancato accordo, sui quali dovranno essere riportate anche le eventuali proposte conciliative formulate dalla Commissione, con particolare riferimento, evidentemente, alla seconda ipotesi, poiché, in tal caso, la stessa proposta, con le relative risposte di entrambe le parti, sarà certamente oggetto di attenta valutazione anche da parte del Giudice del lavoro di fronte al quale, presumibilmente, proseguirà il contenzioso tra le parti in caso di redazione di un verbale di mancato accordo. In ogni caso, soprattutto nei casi di accordo predefinito tra le parti, è dovere della Commissione invitare espressamente le parti, con particolare riferimento al lavoratore, in quanto notoriamente parte debole del rapporto di lavoro, ad esprimere in quella sede tutte le proprie eventuali perplessità, sottolineando che, trovandosi di fronte ad una delle sedi protette ai fini conciliativi, l’accordo che egli si appresta a sottoscrivere non potrà più essere impugnato in alcun modo, ai sensi ed agli effetti dell’art. 2113 cod. civ. È appena il caso di rammentare, inoltre, che il verbale di accordo, proprio perché scaturito da una sede protetta, in caso di mancata ottemperanza degli obblighi ivi assunti dal datore di lavoro, potrà essere utilizzato dal lavoratore alla stregua di un atto immediatamente esecutivo, senza la necessità di ulteriori passaggi formali.

Infine, in caso di assenza ingiustificata di una o di entrambe le parti, il tentativo si conclude con la redazione di un verbale di mancata comparizione, che consente al datore di lavoro di procedere con il licenziamento ed al lavoratore di procedere, semmai, all’impugnazione dello stesso. Non si può escludere, tuttavia, la possibilità che il Giudice possa, in tal caso, invitare le parti a comparire nuovamente dinanzi alla Commissione di conciliazione, al fine di conferire un certo grado di effettività al tentativo obbligatorio.

La fase giudiziale

Del Prete 22 2Nei casi in cui la fase conciliativa si conclude con un verbale di mancato accordo, a meno di una rinuncia da parte del lavoratore licenziato, si inizia la fase giudiziale, in cui il lavoratore generalmente contesta la legittimità del licenziamento subito, sostenendo la tesi dell’insussistenza del giustificato motivo oggettivo. In caso di soccombenza del lavoratore, fatti salvi i casi di gravame, è evidente che egli non potrà far altro che accettare il provvedimento impugnato. Totalmente diversa, invece, è l’ipotesi in cui il Giudice accolga il ricorso del lavoratore dichiarando l’illegittimità del licenziamento. Va detto, però, che le garanzie offerte al lavoratore, in caso di licenziamento illegittimo, sono profondamente mutate in questi ultimi anni.

Fino al 2012, l’illegittimità del licenziamento per motivo oggettivo era sempre stata sanzionata – per i rapporti di lavoro rientranti nel campo di applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori – con la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, oltre al risarcimento integrale del danno retributivo ed al versamento dei contributi previdenziali per il periodo intercorrente tra il momento del licenziamento e quello della reintegrazione.

La riforma del mercato del lavoro del 2012 ha apportato, tuttavia, una prima sostanziale modifica a questo regime sanzionatorio, introducendo una disciplina che, invece di tutelare in ogni caso la stabilità del rapporto lavorativo, modula le sanzioni comminabili al datore di lavoro a seconda della gravità del vizio che inficia il licenziamento, limitando la reintegrazione ad un ristretto novero di ipotesi.

Le suddette garanzie valgono, peraltro, per i soli lavoratori assunti presso datori di lavoro che superano le soglie dimensionali previste dall’art. 18, di cui si è già detto in precedenza. Al di sotto di tali soglie, trova, invece, applicazione il più blando regime di tutela previsto dall’art. 8 Legge 604/1966, così come sostituito dall’art. 2 Legge 108/1990, che riconosce al lavoratore illegittimamente licenziato il solo diritto a percepire un indennizzo economico.

Il progressivo depotenziamento delle tutele offerte ai lavoratori in caso di licenziamento ingiusto ha di recente raggiunto il suo apice, con l’approvazione del D.Lgs. 23/2015, in tema di “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”, attuativo della Legge delega 183/2014 (c.d. Jobs Act), che ha introdotto nell’ordinamento un nuovo regime sanzionatorio da applicarsi in caso di licenziamento illegittimo; regime che, per espressa indicazione del legislatore, trova applicazione nei confronti di tutti i lavoratori assunti a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (7 marzo 2015).

La nuova disciplina continua a distinguere tra lavoratori assunti presso imprese che superino o meno le soglie numeriche fissate dall’art. 18. Rispetto alla disciplina previgente, tuttavia, la nuova normativa si segnala per una significativa riduzione delle garanzie riconosciute ai lavoratori, in particolare in ragione della sostanziale diminuzione delle ipotesi in cui il Giudice possa ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato. In particolare, per quanto riguarda il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il decreto prevede che il Giudice possa ordinare la reintegrazione del lavoratore nel solo caso in cui si accerti il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore.

Del Prete 22 3Le forme di tutela

Appare con evidenza, a questo punto, come la tutela del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo sia quasi sempre, ormai, soprattutto una tutela obbligatoria, dalla quale può scaturire soltanto il pagamento di una indennità monetaria, con vari criteri per la determinazione del quantum debeatur, anziché una tutela reale, che si concluda, invece, con l’effettiva reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato.

Altra importante considerazione in proposito è che l’intera procedura stragiudiziale, di cui sopra, obbligatoriamente richiesta per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo proveniente da aziende che superino gli ormai ben noti limiti dimensionali, nei limiti in cui impedisce al datore di lavoro di porre in essere sic et simpliciter il licenziamento programmato, costituisce, essa stessa, una significativa forma di tutela del lavoratore il quale, soprattutto nel momento della comparizione delle parti dinanzi alla Commissione Provinciale di conciliazione, può trovare in quest’organo un importante supporto al fine di far valere le proprie ragioni nei confronti del proprio datore di lavoro.

Va anche detto, però, che raramente si verifica, in sede conciliativa, che una procedura di licenziamento per giustificato motivo oggettivo che sia stata avviata venga ritirata a seguito del tentativo di conciliazione, anche perché il datore di lavoro si avvale, gioco forza, della sua sostanziale posizione di vantaggio, ben sapendo che, portando fino in fondo la propria volontà di recedere dal rapporto di lavoro di cui si tratta, anche nel caso in cui il licenziamento venga riconosciuto illegittimo, quasi sempre questo si traduce soltanto nell’obbligo del pagamento di una somma di denaro anziché in un obbligo di reintegrazione.

Del Prete 22 4Tant’è che nella maggior parte dei casi in cui il tentativo obbligatorio si conclude con una conciliazione, non si tratta quasi mai, in effetti, di casi nei quali il lavoratore riesca ad evitare il licenziamento, ma soltanto di casi nei quali quest’ultimo riesca a ricavarne, quantomeno, il pagamento di una somma di denaro, da determinare caso per caso, in funzione di una serie di parametri. Si parla, in questi casi, di una sorta di incentivo all’esodo riconosciuto al lavoratore che non opponga resistenza al licenziamento comminatogli, che, naturalmente, va ad aggiungersi a tutto quanto già dovuto per legge a seguito del pregresso rapporto di lavoro (retribuzioni ed indennità varie, T.F.R. con relativi versamenti contributivi).

Non va trascurato, tuttavia, tra gli strumenti a disposizione del lavoratore, il c.d. obbligo del repechage, attraverso il quale il lavoratore può chiedere che siano verificati i criteri di scelta che hanno indotto il datore a far ricadere la scure del licenziamento proprio su quel lavoratore anziché su un altro. Si tratta, in effetti, di uno dei più importanti strumenti di tutela del lavoratore in questo contesto, che si basa sul principio della scelta del destinatario del provvedimento di licenziamento con l’intento di produrre il minor danno sociale possibile e che per il datore di lavoro, in un certo senso, può essere considerato a costo zero, dal momento che, al termine di tutte le necessarie verifiche, comunque verrà individuato un lavoratore sul quale inevitabilmente far ricadere il licenziamento.

Ultima forma di tutela prevista dal legislatore si ritrova, infine, nell’ammissibilità dell’istanza del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo per il pagamento della NASPI, ossia il trattamento erogato dall’INPS nei confronti dei lavoratori che si trovino involontariamente privi di lavoro, tra i quali non può non rientrare, per l’appunto, colui che viene licenziato per giustificato motivo oggettivo e, dunque, senza colpa. Si tratta di una vera e propria indennità di disoccupazione che dovrebbe accompagnare, nelle intenzioni, il lavoratore rimasto involontariamente senza lavoro durante la fase di ricerca di una nuova occupazione. Quadrato Azzurro

[*] Avvocato, Funzionario Area Amministrativa e Giuridico – Contenzioso – dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Teramo.
Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per la relativa Amministrazione di appartenenza.

© 2013-2022 - Fondazione Prof. Massimo D'Antona