La disciplina dell’orario di lavoro

di Luigi Oppedisano ed Erminia Diana [*]

Oppedisano1. Il profilo storico

La durata della giornata lavorativa nei paesi europei è stata connotata da forti contrasti sociali tra datori di lavoro e lavoratori. In Inghilterra nel 1833 è stata approvata la prima legge per disciplinare l’orario di lavoro. In occasione di una avversata discussione per discutere della condizione nelle lavorazioni di merletti, tenutasi nell’anno 1860 nel palazzo comunale di Nottingham, si giunse a predisporre una richiesta al fine di strappare una delle prime conquiste: la riduzione del tempo di lavoro a 18 ore quotidiane[1]. Le condizioni di lavoro erano molto dure e pesante: la giornata lavorativa ordinaria nelle fabbriche tessili aveva inizio intorno alle cinque e mezzo di mattina e terminava alle venti e trenta. Anche la durata del lavoro dei fanciulli venne circoscritta a otto ore al giorno.

Nei paesi europei la limitazione della durata della giornata lavorativa ha rappresentato una delle prime materie oggetto di intervento dei legislatori che, al crescere della questione sociale, si sparse il concetto della necessità dell’azione legislativa per rendere meno disuguale lo scambio che si realizzava fra capitale e lavoro. Proprio in tale direzione si muovevano le preoccupazioni della classe emancipata, nonché l’insegnamento sociale della Chiesa, la quale era alla ricerca della garanzia di un riposo adeguato anche in vista del rispetto del precetto domenicale. Inoltre, la teoria marxista vedeva nell’aumento della giornata lavorativa lo strumento attraverso il quale l’imprenditore si appropriava del plusvalore, così da mettere in risalto le ragioni del divario sociale.

Sul tema della durata della giornata lavorativa un ruolo importante è stato svolto dall’Associazione Internazionale dei Lavoratori (A.I.L.) che nel primo congresso, tenuto a Ginevra dal 3 all’8 settembre 1866, sono state approvate risoluzioni favorevoli per la lotta alla limitazione della giornata lavorativa a otto ore. Al terzo congresso dell’A.I.L., tenuto a Bruxelles dal 6 al 13 settembre 1868, per l’Italia ha partecipato il deputato Saverio Friscia, uno dei fondatori del circolo napoletano "Libertà e Giustizia" ed organizzatore della sezione di Catania dell'A.I.L. anche in tale congresso è stata approvata una risoluzione riguardante la lotta alla riduzione dell’orario di lavoro. Tra i componenti dell’A.I.L. vi era anche il filosofo Karl Marx.

Oppedisano Diana 2 2Le lotte di categoria dei lavoratori edili e meccanici del 1872 in Inghilterra portano un risultato brillante: la durata della giornata lavorativa di 9 ore. In Russia bisogna attendere dieci anni per imporre comunque le prime limitazioni al lavoro dei minori e delle donne e negli anni 1896/1897 i tessili di Mosca conquistano le undici ore e mezzo. Tuttavia sarebbero stati proprio i lavoratori russi, con la rivoluzione del 1917, ad ottenere per primi le 8 ore. In Francia fu proprio la rivoluzione del 1848 a imporre la durata giornaliera di 10 ore. Nel tempo, comunque, l’esperienza aveva insegnato come le conquiste strappate in un certo momento, per congiuntura favorevole o per rapporti di forza politica, rimaneva molto precaria.

Tuttavia durante la grande guerra, 1914 – 1918, in tutta l'Europa, Italia inclusa, la durata della giornata lavorativa era tornata alle 12 ore, dalle 6 del mattino alle 18 e viceversa nel lavoro a turni, ed orari più pesanti nelle piccole aziende manifatturiere. All’inizio del nuovo secolo, la battaglia per le otto ore giornaliere avvicinò la classe operaia di tutta Europa, però i primi successi sono stati raggiunti solo dopo il conflitto mondiale. In Germania, la legislazione del 1918 e 1919 fissarono la conquista delle otto ore nella gran parte dei settori industriali. In Francia, la settimana di quaranta ore si attestò con gli accordi di palazzo di Matignon del 1936. In Gran Bretagna il movimento operaio, dopo una prima sventurata battaglia nel 1909, riuscì a imporre il principio delle otto ore giornaliere intorno al 1920, non per via legislativa, tuttavia, con considerevoli eccezioni, i turni nelle acciaierie conservavano ancora in media dodici ore. Nello medesimo periodo, i paesi scandinavi avevano adottato provvedimenti, deliberati dalle assemblee rappresentative, volti a regolamentare l'orario degli operai. In Italia, dopo il tentativo desiderato nel 1920 da Francesco Saverio Nitti di fare approvare un progetto di legge per l'introduzione delle otto ore, sulla base delle rivendicazioni proveniente del movimento operaio e socialista, il problema dell'orario fu affrontato poi da Mussolini: la settimana di quaranta ore, il sabato fascista, il potenziamento delle strutture previdenziali, azioni e strumenti utili a fortificare il consenso popolare della dittatura.

Oppedisano Diana 4 1Con il r.d.l. 15 marzo 1923, n. 692, convertito in legge 17 aprile 1925, n. 473, il governo è intervenuto per porre limitazioni all’orario di lavoro nelle aziende industriali e commerciali, prevedendo per i lavoratori dipendenti salariati e impiegati che la durata della giornata lavorativa non possa essere superiore alle otto ore al giorno o le quarantotto ore settimanali di lavoro effettivo. Il legislatore con il Regio Decreto 10 settembre 1923, n. 1955, ha provveduto ad approvare il regolamento per l’applicazione del predetto atto governativo.

La legge prevedeva, altresì, che in ogni azienda industriale o commerciale e in ogni altro luogo di lavoro doveva essere esposto, in modo facilmente visibile ed in luogo accessibile a tutti i dipendenti interessati, l'orario di lavoro con le indicazioni dell'ora di inizio e di termine del lavoro. Nei confronti dei datori di lavoro inadempienti all’obbligo dell’esposizione della tabella dell’orario di lavoro era prevista una sanzione amministrativa.

I riposi domenicali e settimanali erano previsti e regolamentati dalla legge 22 febbraio 1934, n. 370[2].

Il codice civile, approvato con il Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 262, a proposito dell’orario di lavoro, ha previsto che la durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro del lavoratore subordinato non può valicare i limiti previsti dalle leggi speciali[3]. La norma si occupa anche del lavoro straordinario, prevedendo che in caso di allungamento dell’orario normale, il lavoratore deve essere ricompensato per le ore straordinarie con un aumento rispetto a quella dovuta per il lavoro ordinario[4]. Inoltre, la disposizione fa riferimento anche al periodo di riposo settimanale, coincidente possibilmente con la domenica[5]. La norma riconosce al lavoratore il diritto a godere delle ferie annuali retribuite.

La Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, all’articolo 36, a proposito della durata massima della giornata lavorativa, ha rinviato alla legge la regolamentazione della stessa[6].

Il legislatore italiano dopo sessant’anni è intervenuto sulla materia con la legge 24 giugno 1997, n. 196, c.d. legge Treu[7], fissando a quaranta ore la durata settimanale del lavoro. Inoltre, il D.L. 29 settembre 1998, n. 335, convertito con modificazioni dalla legge 27 novembre 1998, n. 409, ha apportato modifiche alla disciplina del lavoro straordinario.

La prima norma della comunità europea concernente l’organizzazione dell’orario di lavoro è la direttiva 93/104/CE del 23 novembre 1993 che ha disciplinato taluni aspetti riguardanti il riposo giornaliero, la pausa, il riposo settimanale, la durata massima settimanale del lavoro, le ferie annuali, la durata del lavoro notturno, la valutazione della salute e trasferimento al lavoro diurno dei lavoratori, garanzie per il lavoro notturno, informazione in caso di ricorso regolare ai lavoratori notturni, protezione in materia di sicurezza e di salute, ritmo di lavoro, lavoratori mobili e attività offshore e lavoratori a bordo di pesca marittima.

La Carta Comunitaria dei diritti sociali dei lavoratori firmata dai Capi di Stato e di Governo, con esclusione del Regno Unito, riuniti in sede di Consiglio Europeo a Strasburgo il 9 dicembre 1989 ed i cui principi generali sono stati recepiti nel Trattato della Comunità Europea[8] propone il ravvicinamento delle condizioni di vita dei lavoratori che costituisce un progresso soprattutto per quanto riguarda la durata e l’organizzazione del lavoro. La Carta prevede inoltre il diritto di ogni lavoratore della Comunità al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite.

La direttiva 2000/34/CE del 22 giugno 2000, modificando la precedente del 1993, ha ampliato il campo di applicazione, allargandola a tutti i settori di attività privati e pubblici, con esclusione della gente di mare e dei lavoratori la cui attività non è misurata o predeterminata dai lavoratori stessi, in particolare dei dirigenti o altre persone aventi potere di decisione autonomo, della manodopera familiare, dei lavoratori operanti nel settore liturgico e delle comunità religiose. Le predette direttive sono state oggetto di codifica con la direttiva 2003/88/CE del 4 novembre 2003.

Riguardo ad altre specifiche categorie, il legislatore comunitario ha emanato apposite direttive per l’organizzazione del lavoro della gente di mare[9], per gli autotrasportatori mobili, sia subordinati che autonomi[10] e per questi ultimi, in base al disposto dell’articolo 2 della direttiva, la norma si applica a decorrere dal 23 marzo 2009, della gente di mare a bordo delle navi che fanno scalo nei porti della Comunità[11] e del personale di volo dell’aviazione civile[12]. Con riguardo alla direttiva 99/95/CE la Corte di Giustizia, su denuncia della Commissione, rilevando l’inadempimento dello stato italiano alla trasposizione nel proprio ordinamento della norma comunitaria, ha emesso la relativa sentenza di condanna[13].

Il legislatore comunitario non si è preoccupato di fissare in modo diretto la durata massima dell’orario di lavoro giornaliero, ma ha stabilito un periodo minimo di riposo di undici ore consecutive. Tale formulazione fa dedurre che la durata massima dell’orario di lavoro giornaliero possa raggiungere il limite di dodici ore e cinquanta minuti di lavoro, presentandosi oggettivamente peggiorativa rispetto a quella attualmente in vigore negli ordinamenti interni dei paesi della Comunità[14].

Inoltre, va messo in evidenza che il legislatore comunitario ha previsto nella direttiva una particolare clausola di non regresso, contenuta all’articolo 18, paragrafo 3, della medesima direttiva, che doveva rappresentare la garanzia per il non regresso dal livello generale di protezione dei lavoratori[15].

Con la legge 1° marzo 2002, n. 39, (legge comunitaria 2001) il legislatore ha delegato il governo ad emanare norme per dare attuazione alla direttiva 93/104/CE e successive modifiche. Finalmente il governo, dopo diversi incontri anche con le parti sociali, ha emanato il D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66 per dare attuazione alle predette direttive comunitarie. In tal modo, dopo sessant’anni e non poche resistenze da parte del potere politico e dalle parti sociali, è stato possibile dare corso al cambiamento e l’Italia si è dotata di una nuova normativa, questa volta “organica”.

Il D.Lgs. n. 66/2003, per come si deduce dalla lettura dell’articolo 19, non si presenta come una semplice rivisitazione della precedente disciplina ma, al contrario, si impone quale nuova norma recante modifiche radicali, cancellando tutte le precedenti disposizioni in materia, con eccezione di quelle espressamente richiamate nella nuova disciplina[16].

L’abrogazione è quindi massiccia e si provvede ad un riordino piuttosto radicale della disciplina dei tempi di lavoro ed anche ad un cambiamento sistematico piuttosto evidente. Per grandi linee vi è un abbandono, ossia un riconoscimento secondario, residuale e subalterno al sistema dei limiti massimi dei tempi di lavoro in quanto, nella disciplina del D.Lgs. n. 66/2003, la parte più importante è assolta dai limiti medi della prestazione lavorativa e, quindi, il calcolo dell’orario massimo viene operato mediante una valutazione dell’orario medio osservato nell’arco di un periodo medio di riferimento.

Quanto alle novità apportate dal D.Lgs. n. 66/2003, la prima è certamente nella definizione del concetto di “orario di lavoro” che la nuova norma il comma 2, lett. a) dell’articolo 1 definisce “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”[17]. Mentre nel r.d.l. 692/1923 il concetto di orario di lavoro incontrava una biforcazione piuttosto evidente in quanto lo stesso era riferita al “lavoro effettivo”, ossia al lavoro che richiede un’applicazione assidua e continuativa, con eccezione di quelle attività discontinue o di semplice attesa o custodia che venivano sottratte ai limiti previsti della norma.

La seconda novità, forse la più innovativa, così ritenuta da diversi studiosi, politici e rappresentanti delle organizzazioni sindacali, è costituita dal nuovo ruolo che assumeranno le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro. Infatti, la nuova legge affida ai soggetti sindacali un ruolo importante nella specificazione delle regole concrete per l’attivazione dei vari istituti demandati alla contrattazione collettiva e non poche disposizioni, che tra l’altro sono considerate chiave, consentono alle organizzazioni sindacali più rappresentative di poter negoziare nei contratti collettivi anche la distribuzione dei tempi di lavoro.

Oppedisano Diana 4 1La normativa ha previsto che la stessa non si applica al personale della scuola di cui al D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297, al personale delle Forze di polizia, delle Forze armate, nonché agli addetti al servizio di polizia municipale e provinciale, in relazione alle attività operative specificamente istituzionali e agli addetti ai servizi di vigilanza privata.

Inoltre, il D.Lgs. n. 66/2003 non si applica nemmeno ai lavoratori mobili, per quanto attiene ai profili di cui alla direttiva n. 2002/15/CE dell'11 marzo 2002, concernente l'organizzazione dell'orario di lavoro delle persone che effettuano operazioni mobili di autotrasporto. Per lavoratori mobili si intendono quelli impiegati quali membri del personale viaggiante o di volo presso una impresa che effettua servizi di trasporto passeggeri o merci su strada, per via aerea o per via navigabile, o a impianto fisso non ferroviario.

2. L’orario normale di lavoro

Si evidenzia che la nuova disciplina utilizza definizioni specifiche di orario di lavoro, lavoro straordinario, lavoro notturno, lavoro a turni, periodo di riposo, riposo adeguato, lavoratore mobile, lavoro offshore e di contratti collettivi di lavoro. Quanto al campo di applicazione, la norma comprende tutti i settori di attività pubblici e privati, in relazione a rapporti di lavoro subordinato, con le uniche eccezioni del lavoro della gente di mare e del personale di volo dell’aviazione civile che sono stati oggetto di specifici provvedimenti di attuazione delle direttive 1999/63/Ce e 2000/79/Ce, nonché dei lavoratori mobili. Per quest’ultimo caso continua a trovare applicazione la disciplina previgente laddove risulti adattabile con le disposizioni del D.Lgs. n. 66/2003. Ad esclusione della disciplina del riposo settimanale e delle ferie, le nuove disposizioni non si applicano ai dirigenti ed al personale direttivo delle aziende, alle altre persone aventi potere di decisione autonomo, alla manodopera familiare, ai lavoratori del settore liturgico delle chiese e comunità religiose, ai lavoratori a domicilio ed al telelavoro.

Il legislatore ha voluto confermare, o meglio potenziare, il pieno rispetto del ruolo dell’autonomia negoziale collettiva, salvaguardando le attuali norme contrattuali ed in particolare il rispetto delle disposizioni vigenti per i lavoratori della pubblica amministrazione. Nella nuova normativa sono inseriti diversi e notevoli rinvii all’autonomia negoziale delle parti sociali per una forte valorizzazione della stessa contrattazione collettiva. Al riguardo si evidenzia, inoltre, che la dottrina ha ormai da tempo spiegato la riserva di legge di cui all’articolo 36 della Costituzione come una riserva relativa per cui deve consentire la legittimità del rinvio da parte della legge alla contrattazione collettiva per la regolamentazione di simili aspetti dell’orario di lavoro e anche se proprio la contrattazione collettiva è stata ritenuta dagli organismi europei come lo strumento elettivo per l’attuazione della normativa sociale, non si può certamente dimenticare che nel nostro ordinamento gli accordi tra le parti sociali se pur hanno piena validità anche se stipulati per settori particolari e da singole organizzazioni sindacali non hanno l’efficacia erga omnes, come richiesta per un’attuazione completa delle normative comunitarie[18].

Le novità apportate dal D.Lgs n. 66/2003 sono diverse. La prima è riscontrabile sicuramente nella definizione del concetto di “orario di lavoro” che la nuova norma al comma 2, lett. a) dell’articolo 1 definisce “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.

Siffatta formulazione assume una portata sicuramente più ampia, così come ha chiarito la stessa Corte di giustizia europea che ha ritenuto compresi nell'orario di lavoro i periodi in cui i lavoratori sono obbligati ad essere fisicamente presenti sul luogo indicato dal datore di lavoro e a tenersi a disposizione di quest'ultimo per poter fornire prontamente la loro prestazione in caso di necessità[19].

Oppedisano Diana 4 2Mentre nel r.d.l. n. 692/1923 il concetto di orario di lavoro incontrava una biforcazione piuttosto evidente in quanto lo stesso era riferita al “lavoro effettivo”, ossia al lavoro che richiede un’applicazione assidua e continuativa, con eccezione di quelle attività discontinue o di semplice attesa o custodia che venivano sottratte ai limiti previsti della norma. La seconda novità, forse la più innovativa, così ritenuta da diversi studiosi, politici e rappresentanti delle organizzazioni sindacali, è costituita dal nuovo ruolo che assumeranno le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro. Infatti, la nuova legge affida ai soggetti sindacali un ruolo importante nella specificazione delle regole concrete per l’attivazione dei vari istituti demandati alla contrattazione collettiva e non poche disposizioni, che tra l’altro sono considerate chiave, consentono alle organizzazioni sindacali più rappresentative di poter negoziare nei contratti collettivi anche la distribuzione dei tempi di lavoro.

Il decreto, riprendendo l'approccio di cui alla legge n. 196/1997, definisce orario normale il limite delle 40 ore settimanali fissato da quest'ultimo provvedimento. La normativa trasferisce alla contrattazione collettiva la possibilità, sulla scorta della direttiva 93/104/Ce e successiva modifica 2000/34/CE, apportare delle modificazioni all'orario settimanale di lavoro – c.d. orario multi periodale – rapportandolo ad una durata media in relazione ad un periodo predefinito non superiore all'anno.

La novella norma, il D.Lgs. 66/2003, nel cancellare la durata massima giornaliera dell’orario di lavoro, per alcuni ritenuta già superata, dispone che l’orario normale di lavoro è fissato in quaranta ore settimanali. La norma prevede inoltre che i contratti collettivi di lavoro possono intervenire e prevedere, ma solo ai fini contrattuali, una durata minore delle predette quaranta ore e riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno, senza che nei periodi in cui c’è una minore o una maggiore prestazione vi sia una riduzione o una maggiorazione della retribuzione. Viene fatto salvo ed acconsentito il principio della multiperiodicità.

Quanto, invece alla durata massima dell’orario di lavoro, la normativa prevede che per ogni periodo di sette giorni non può superare le 48 ore, comprensive delle ore di lavoro straordinario. La durata media deve essere calcolata con riferimento a un periodo non superiore a quattro mesi[20]. La contrattazione collettiva, comunque, può derogare al predetto periodo di riferimento di 4 mesi ed elevarlo fino a sei mesi, oppure fino a 12 mesi solo se in presenza di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro indicate nei contratti collettivi stessi. I periodi di ferie annuali e i periodi di assenza per malattia ed infortunio, come anche gli eventuali riposi compensativi fruiti a recupero di prestazioni straordinarie, non si considerano ai fini del computo della media delle 48 ore e del lavoro straordinario.

Il limite giornaliero massimo di 8 ore di lavoro rimane solo un ricordo dell’abrogato art. 1 del r.d.l. n. 692/1923, in quanto l’art. 7 della norma in esame stabilisce il diritto del lavoratore a undici ore di riposo consecutivo ogni 24 ore da cui si ricava a contrario un limite legale di 13 ore alla giornata lavorativa[21].

Si conferma che l'orario normale di lavoro è di 40 ore nell'arco della settimana, da intendersi non obbligatoriamente come settimana di calendario, salva la facoltà della contrattazione collettiva, di qualsiasi livello, di introdurre il c.d. regime degli orari multiperiodali, vale a dire la possibilità di eseguire orari settimanali superiori e inferiori all'orario normale a condizione che la media corrisponda alle 40 ore settimanali o alla durata minore stabilita dalla contrattazione collettiva, riferibile ad un periodo non superiore all'anno[22].

Oppedisano Diana 4 3L’orario di lavoro multiperiodale, secondo il disposto del D.Lgs. n. 66/2003 che da parte di qualcuno è stato considerato un insulto alla Costituzione, è invece la possibilità in capo al datore di lavoro di fare lavorare i propri dipendenti non più facendo riferimento ad un rigido orario settimanale ma secondo una media calcolata in un periodo ben più lungo[23]. La contrattazione collettiva può apportare delle variazioni all'orario settimanale di lavoro comparandolo ad una durata media in relazione ad un periodo predefinito non superiore all'anno. La contrattazione può fissare una durata massima dell'orario di lavoro purché non superiore alle 48 ore settimanali in relazione ad un periodo non superiore a 4 mesi, periodo che può essere innalzato fino a 6 mesi o fino a 12 mesi. Il datore di lavoro può, pertanto, programmare una settimana di 30 e una di 50 ore senza che quest’ultima implichi non solo uno sforamento della durata massima dell’orario settimanale, ma neppure il compenso per lo straordinario. Infatti, essendo la media delle due settimane di 40 ore, non si può proprio parlare di prestazione straordinaria fino a quando non viene superato l’orario programmato.

Risulta evidente che questo procedimento aiuti non poco le imprese le cui esigenze produttive variano significativamente nel corso dell’anno. Si evidenzia, inoltre, che la flessibilizzazione dell’orario di lavoro può presentare risvolti positivi tanto per le imprese quanto per i lavoratori.

Si aggiunge altresì che l’orario di lavoro dei lavoratori minori è regolamentato dalla legge 17 ottobre 1967, n. 977 e stabilisce che lo stesso non può superare le 7 ore di lavoro giornaliere e le 35 settimanali per i bambini e le 8 ore giornaliere e le 40 settimanali per gli adolescenti[24].

Oppedisano Diana 4 43. Il lavoro straordinario

Il legislatore all’articolo 5 del D.Lgs. n. 66/2003, a proposito delle prestazioni di lavoro straordinario, ha stabilito che lo stesso deve essere contenuto e viene affidato sostanzialmente alla contrattazione collettiva. In mancanza di disciplina collettiva applicabile, il ricorso al lavoro straordinario è consentito solamente previo accordo tra il datore di lavoro ed il lavoratore per un periodo che non superi le 250 ore annuali, oltre quelle ore ammissibili senza limite predeterminato per situazioni particolari come: casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive e di impossibilità di fronteggiarle attraverso l’assunzione di altri lavoratori; casi di forza maggiore o per evitare situazioni di grave e immediato pericolo ovvero danni alle persone o alla produzione; per eventi particolari come fiere, mostre e manifestazioni.

Il lavoro straordinario deve essere conteggiato a parte e compensato con le maggiorazioni previste dai contratti collettivi di lavoro. I lavoratori possono anche usufruire di riposi compensativi (c.d. banca delle ore) in alternativa o in aggiunta agli incrementi retributivi. In tale caso, la norma prevede che le ore di lavoro straordinario prestate, non si computano ai fini della media delle 48 ore.

4. Il riposo giornaliero e settimanale

La norma prevede che il lavoratore ha diritto ad un minimo di 11 ore consecutive di riposo ogni 24 ore oltre ad un riposo di 24 ore ininterrotte ogni sette giorni. La domenica rimane il giorno normale di riposo settimanale e, pertanto, la disciplina dei riposi settimanali non subisce modificazioni sostanziali. Fanno eccezione alla suddetta regola:
Oppedisano Diana 4 5a) le attività di lavoro a turni ogni volta che il lavoratore cambi turno o squadra e non possa usufruire, tra la fine del servizio di un turno o di una squadra e l’inizio del successivo, di periodi di riposo giornaliero o settimanale;
b) le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata;
c) per il personale che lavora nel settore dei trasporti ferroviari: le attività discontinue; il servizio prestato a bordo dei treni; le attività connesse con gli orari del trasporto ferroviario che assicurano la continuità e la regolarità del traffico ferroviario;
d) i contratti collettivi possono stabilire previsioni diverse, nel rispetto delle condizioni previste dall'articolo 17, comma 4, cioè del riposo giornaliero e la pausa, le modalità di organizzazione del lavoro notturno e la relativa durata.

Il riposo di 24 ore consecutive può essere goduto in un giorno diverso dalla domenica e può essere attuato mediante turni in attività aventi particolari tipicità. Sono, perciò, fatte salve le disposizioni speciali che consentono la fruizione del riposo settimanale in giorno diverso dalla domenica.

Le disposizioni ministeriali[25] prevedono che il riposo giornaliero di 11 ore consecutive deve essere fruito ogni 24 ore, il riposo settimanale è calcolato come media in un periodo non superiore a 14 giorni e la durata media dell’orario di lavoro deve esse calcolata con riferimento ad un periodo non superiore a 4 mesi, ovvero fino a 6 o 12 mesi se previsto dai contratti collettivi a fronte comunque di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro e indicate negli stessi contratti.

5. Il regime sanzionatorio

L’impianto sanzionatorio, introdotto dal D.Lgs. n. 213/2004, non aveva subito sostanziali cambiamenti rispetto alle violazioni previste dalla precedente normativa in tema di orario normale di lavoro e di orario massimo settimanale. L’articolo 18 bis del D.Lgs. n. 66/2003 prevede sia sanzioni di natura penale che sanzioni amministrative.

L’articolo 41 del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133, nell’apportare alcune modifiche al D.Lgs. n. 66/2003 ha inasprito gli importi delle sanzioni amministrative previste dall’articolo 18 bis del D.Lgs. n. 66/2003.

Oppedisano Diana 4 6L’articolo 7 della legge 4 novembre 2010, n. 183, ha rimodulato l’impianto sanzionatorio e lievemente inasprito gli importi delle sanzioni amministrative dell’articolo 18 bis del D.Lgs. n. 66/2003.

Da ultimo l’articolo 14 del D.L. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 9, ha raddoppiato gli importi delle sanzioni amministrative per le violazioni amministrative riguardanti il superamento della durata media dell’orario di lavoro, il riposo settimanale ed il riposo giornaliero di cui all’articolo 18 bis del D.Lgs. n. 66/2003. La norma ha previsto che i maggiori introiti derivanti dall'incremento delle sanzioni amministrative sono versati ad un apposito capitolo dell'entrata del bilancio dello Stato per essere poi riassegnati:
1) al Fondo sociale per occupazione e formazione, di cui all'articolo 18, comma 1, lettera a), del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2;
2) ad apposito capitolo dello stato di previsione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nel limite massimo di 10 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2014, rivolto a misure, da definire con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, finalizzate ad una più efficiente impiego del personale ispettivo sull'intero territorio nazionale, ad una maggiore efficacia, anche attraverso interventi di carattere organizzativo, della vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale, nonché alla realizzazione di iniziative di contrasto del lavoro sommerso e irregolare.

Riepilogo delle violazioni di carattere penale previsti dal D.Lgs. n. 66/2003
Violazione Penalità
Art. 11, co. 2, D.Lgs. n. 66/2003.
Violazione del divieto di lavoro notturno.

(Divieto di adibire le donne al lavoro, dalle 24 alle ore 6, dall'accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino).
Art. 18-bis, c. 1 D.Lgs. n. 66/2003, come introdotto dall’art. 1, c. 1, lett. f), del D.Lgs. n. 213/2004.

arresto da due a 4 mesi o con l'ammenda da 516 euro a 2.582 euro.
Art. 11, co. 2, lett. a) del D.Lgs. n. 66/2003.
Violazione del divieto di lavoro notturno.

(Divieto di adibire al lavoro dalle ore 24 alle ore 6 la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a tre anni o, in alternativa, il lavoratore padre convivente con la stessa, nonostante il loro dissenso espresso in forma scritta e comunicato al datore di lavoro entro 24 ore anteriori al previsto inizio della prestazione).
Art. 18-bis, c. 1 D.Lgs. n. 66/2003, come introdotto dall’art. 1, c. 1, lett. f), del D.Lgs. n. 213/2004.

arresto da due a 4 mesi o con l'ammenda da 516 euro a 2.582 euro
Art. 11, co. 2, lett. b) del D.Lgs. 66/2003.
Violazione del divieto di lavoro notturno.

(Divieto di adibire al lavoro dalle ore 24 alle 6 la lavoratrice o il lavoratore che sia l'unico genitore affidatario di un figlio convivente di età inferiore a dodici anni, nonostante il loro dissenso espresso in forma scritta e comunicato al datore di lavoro entro 24 ore anteriori al previsto inizio della prestazione).
Art. 18-bis, c. 1 D.Lgs. n. 66/2003, come introdotto dall’art. 1, c. 1, lett. f), del D.Lgs. n. 213/2004.

arresto da due a 4 mesi o con l'ammenda da 516 euro a 2.582 euro
Art. 11, co. 2, lett. c) del D.Lgs. 66/2003.
Violazione del divieto di lavoro notturno.

(Divieto di adibire al lavoro dalle ore 24 alle 6 la lavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104 e successive modificazioni, nonostante il loro dissenso espresso in forma scritta e comunicato al datore di lavoro entro 24 ore anteriori al previsto inizio della prestazione).
Art. 18-bis, c. 1 D.Lgs. n. 66/2003, come introdotto dall’art. 1, c. 1, lett. f), del D.Lgs. n. 213/2004.

arresto da due a 4 mesi o con l'ammenda da 516 euro a 2.582 euro
Art. 14, c. 1, D. Lgs. n. 66/2003.
Omessi accertamenti medici preventivi e periodici per i lavoratori notturni.

(Per avere omesso di effettuare la valutazione dello stato di salute dei lavoratori notturni che deve avvenire a cura e a spese del datore di lavoro, o per il tramite delle competenti strutture sanitarie pubbliche di cui all'articolo 11 o per il tramite del medico competente di cui all'articolo 17 del D.Lgs. 19/09/1994, n. 626, e successive modificazioni, attraverso controlli preventivi e periodici, almeno ogni due anni, volti a verificare l'assenza di controindicazioni al lavoro notturno a cui sono adibiti i lavoratori stessi).
Art. 18-bis, c. 2, D.Lgs. n. 66/2003, come introdotto dall’art. 1, c. 1, lett. f), del D.Lgs. n. 213/2004.

arresto da 3 a 6 mesi o con l'ammenda da 1.549 euro a 4.131 euro.

Quanto al procedimento di estinzione delle violazioni, si segnala che è applicabile il procedimento prescrittivo di cui al D.Lgs. n. 758/1994, come modificato dall'art. 15 del D.Lgs. n. 124/2004 in quanto con riferimento alla condotta, sebbene ormai esaurita, può essere impartita la c.d. prescrizione ora per allora che consente l'estensione del beneficio anche nelle ipotesi di reintegrazione fittizia dell'ordine giuridico violato.

Alle sanzioni amministrative previste dal D.Lgs. 66/2003 non è applicabile l’istituto della diffida di cui all’articolo 13 del D.Lgs. 23 aprile 2004, n. 124, ma risulta applicabile l’articolo 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689[26], secondo la quale il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma in misura ridotta pari alla terza parte del massimo della sanzione o, se più favorevole e qualora sia previsto il minimo della sanzione, pari al doppio del minimo.

Per un quadro riassuntivo delle fattispecie sanzionatorie degli illeciti amministrativi in materia di orario di lavoro si rinvia al prospetto che segue.

Illeciti amministrativi
Durata massima dell’orario di lavoro Sanzione Importo
Superamento del limite massimo dell’orario settimanale medio (art. 4, co. 2)

non diffidabile
Art. 18-bis, c. 3, D.Lgs. n. 66/2003, introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. f), del D.Lgs. n. 213/2004, come modificato dall’art. 7, c. 1, lett. a), della legge n. 183/2010, modificato dal D.L. n.145/2013, convertito con modificazioni dalla legge n. 9/2014.
sanzione base da € 200,00 a € 1.500,00
per più di 5 lavoratori o almeno 3 periodi da € 800,00 a € 3.000,00
per più di 10 lavoratori o almeno 5 periodi da € 2.000,00 a € 10.000,00
Lavoro straordinario
Lavoro straordinario oltre i limiti previsti delle 250 ore annuali (art. 5, co. 3)

non diffidabile
Art. 18-bis, c. 6, D.Lgs. n. 66/2003, come introdotto dall’art. 1, c. 1, lett. f), del D.Lgs. n. 213/2004, modificato dal D.L. n. 112/2008, convertito in legge n. 133/2008.
sanzione base da € 25,00 a € 154,00
per più di 5 lavoratori, ovvero si è verificata nel corso dell’anno solare per più di 50 giornate lavorative. da € 154,00 a € 1.032,00
Difformità nel computo e nella retribuzione del lavoro straordinario (art. 5, co. 5)

non diffidabile
Art. 18-bis, c. 6, D.Lgs. n. 66/2003, come introdotto dall’art. 1, c. 1, lett. f), del D.Lgs. n. 213/2004, modificato dal D.L. n. 112/2008, convertito in legge n. 133/2008.
sanzione base da € 25,00 a € 154,00
per più di 5 lavoratori, ovvero si è verificata nel corso dell’anno solare per più di 50 giornate lavorative. da € 154,00 a € 1.032,00
Riposo giornaliero
Mancata concessione del riposo giornaliero (art. 7, co. 1)

non diffidabile
Art. 18-bis, c. 4, D.Lgs. n. 66/2003, introdotto dall’art. 1, c. 1, lett. f), del D.Lgs. n. 213/2004, come modificato dall’art. 7, c. 1, lett. b), della legge n. 183/2010, modificato dal D.L. n.145/2013, convertito con modificazioni dalla legge n. 9/2014.
sanzione base da € 100,00 a € 300,00
per più di 5 lavoratori, ovvero si è verificata in almeno tre periodi di 24 ore. da € 600,00 a € 2.000,00
per più di 10 lavoratori, ovvero si è verificata in almeno 5 periodi di 24 ore. da € 1.800,00 a € 3.000,00
Riposo settimanale
Mancata concessione del riposo settimanale e domenicale (art. 7, co. 1)

non diffidabile
Art. 18-bis, c. 3, D.Lgs. n. 66/2003, introdotto dall’art. 1, c. 1, lett. f), del D.Lgs. n. 213/2004, come modificato dall’art. 7, c. 1, lett. a), della legge n. 183/2010, modificato dal D.L. n.145/2013, convertito con modificazioni dalla legge n. 9/2014.
sanzione base da € 200,00 a € 1.500,00
per più di 5 lavoratori o almeno 3 periodi. da € 800,00 a € 3.000,00
per più di 10 lavoratori o almeno 5 periodi da € 2.000,00 a € 10.000,00
Ferie
Mancata fruizione delle ferie (art. 10, co. 1)

non diffidabile
Art. 18-bis, c. 3, D.Lgs. n. 66/2003, introdotto dall’art. 1, c. 1, lett. f), del D.Lgs. n. 213/2004, come modificato dall’art. 7, c. 1, lett. a), della legge n. 183/2010.
sanzione base da € 100,00 a € 600,00
per più di 5, ovvero si è verificata in almeno 2 anni da € 400,00 a € 1.500,00
per più di 10 lavoratori, ovvero si è verificata in almeno 4 anni da € 800,00 a € 4.500,00

6. Conclusioni

La disciplina dell’orario di lavoro nel corso degli anni è stata volta alla tutela della salute dei lavoratori. Già la prima regolamentazione in materia, ovvero il r.d.l. 15 marzo 1923, n. 692, convertito nella legge 17 aprile 1925, n. 473, fissava sia la durata massima del lavoro giornaliero che quella settimanale e corrispondevano, rispettivamente, a 8 e 48 ore. Poi la legge n. 196/1997, c.d. legge Treu, ha introdotto la nozione di orario normale di lavoro, facendolo corrispondere a 40 ore settimanali, con la facoltà, tuttavia, da parte dei contratti di categoria di stabilire una durata inferiore, ovvero di riferirlo alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno. Il D.Lgs. n. 66/2003 che non ha decretato una soglia all’orario massimo giornaliero, sebbene questo può essere ricavato indirettamente dalla prescrizione in base alla quale il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutive ogni ventiquattro ore.

L’articolo 3, comma 2, del D.Lgs. n. 66/2003 dispone che “i contratti collettivi possono stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore e riferire l’orario alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno”. Pertanto, l’autonomia collettiva può derogare al limite di 40 ore settimanali. Questo fa sì che detta soglia si consideri comunque rispettata, a patto che operi una successiva compensazione. E ciò sul presupposto che il conteggio delle ore non avviene su base settimanale, ma plurisettimanale o, addirittura, multiperiodale, regola che pone come unica condizione quella per cui la media delle ore lavorate nel periodo di riferimento sia, in ogni caso, di 40 ore. E’ chiaro che questo meccanismo conviene tanto alle imprese le cui esigenze mutano nel corso dell’anno. Questa eventualità, nella fase attuale non tocca solo le attività contrassegnate da periodi di alta e bassa stagionalità, dove la spiccata instabilità della domanda, causata dalla diffusa condizione di crisi, viene di frequente combattuta attraverso particolari variazioni dell’orario di lavoro.

Oppedisano Diana 4 7Le considerazioni finali sull’argomento mi portano a fare delle riflessioni sull’istituto della flessibilità sull’occupazione e sulla prestazione lavorativa. Negli anni della globalizzazione stiamo scoprendo la società flessibile, la persona flessibile, il lavoro flessibile, il tempo flessibile, tutte forme che possono dare vita, da un lato a fenomeni di precarietà e dall’altro ad eventi di opportunità.

Fino ad oggi, la flessibilità dell'occupazione si è presentata sotto varie tipologie di contratti lavorativi atipici che avrebbero dovuto avere il compito di facilitare o incentivare l'occupazione: lavori a tempo determinato, contratti a tempo parziale, contratti di lavoro in affitto o interinali o in somministrazione, contratti di lavoro a progetto - giuridicamente configurati come autonomi ma, a volte di fatto, indicati come parasubordinati, per distinguerli dal lavoro indipendente - contratti di lavoro ripartito, dove due persone si dividono un lavoro a tempo pieno nel giorno o nella settimana - contratti di lavoro intermittente o contratti a prestazione occasionale. La condizione sostanziale della flessibilità dell'occupazione è l'assoggettamento ai cicli produttivi e la sua più facile attuazione in sistemi in cui sia più facile licenziare o dove siano meno stringenti le norme di tutela della durata dell'occupazione, in ciò esprimendo il lavoro di erosione della politica alle regole delle vecchie tutele per reagire alle necessità dell'economia.

La flessibilità di prestazione, al contrario, riguarda l’opportunità dell'impresa di variare i parametri delle condizioni in cui i lavoratori prestano la propria attività lavorativa che può riguardare sia la differenziazione dei salari che la variazione degli orari, per ottimizzare l'impiego degli impianti produttivi o per rispondere convenientemente alle fasi della produzione. Necessariamente si ricorre a lavori a turni, orari di lavoro annualizzati dove la media delle quaranta ore settimanali viene ripartita nell'anno con settimane a orario più lungo e settimane a orario più corto in base alle esigenze produttive o commerciali. La regolazione di siffatto tipo di flessibilità è affidata ai contratti collettivi stipulati fra i sindacati e le imprese.

Inoltre, accanto all'occupazione precaria e discontinua, quantunque sorretta dai contratti flessibili previsti dalla legge, esiste pure un mercato parallelo che è costituito dall'economia sommersa, dove molti lavoratori sono asserviti al potere incondizionato del datore di lavoro, il quale decide la durata delle prestazioni, varia l'entità del salario a sua discrezione e stabilisce anche se e quando assumere e licenziare. È del tutto evidente che in tale mercato i datori di lavoro rispettosi della legge subiscono un danno notevolissimo a causa della concorrenza sleale che subiscono ed i lavoratori, assoggettati a tale mercato, oltre a pagare il caro prezzo dello sfruttamento economico del rapporto di lavoro perché difforme alla legge, vengono ulteriormente penalizzati dall’assoluta mancanza di diritti.

Una risposta a tutto questo è contenuta in questa piccola frase: Il lavoro umano non è merce . Quadrato Azzurro

Note

[1] Antonio Moscato, Un secolo e mezzo di lotte per ridurre l'orario di lavoro, 1997.

[2] La legge 22 febbraio 1934, n. 370 all’articolo 1 prevedeva che il lavoratore aveva diritto, ogni settimana, ad un riposo di 24 ore consecutive e all’articolo 3 stabiliva che detto riposo doveva essere fruito di domenica, con eccezione che per i lavoratori operanti in particolari settori di attività.

[3] L’art. 2107 del c.c. prevede che “La durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro non può superare i limiti stabiliti dalle leggi speciali”.

[4] L’art. 2108 del c.c. si occupa del lavoro straordinario e notturno. Lo stesso prevede “In caso di prolungamento dell'orario normale, il prestatore di lavoro deve essere compensato per le ore straordinarie con un aumento di retribuzione rispetto a quella dovuta per il lavoro ordinario”.

Oppedisano Diana 4 8[5] L’art. 2109 del c.c. prevede il riposo settimanale. La norma stabilisce: “Il prestatore di lavoro ha diritto ad un giorno di riposo ogni settimana di regola in coincidenza con la domenica”.
Ha anche diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro. La durata di tale periodo è stabilita dalla legge [dalle norme corporative], dagli usi o secondo equità.
L'imprenditore deve preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie.
Non può essere computato nelle ferie il periodo di preavviso indicato nell'articolo 2118”
.

[6] L’art. 36 della Costituzione prevede: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”
.

[7] L’articolo 13 della legge 24 giugno 1997, n. 196 ha stabilito che l’orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali. La precedente disciplina prevedeva che l’orario di lavoro era fissato in 48 settimanali, comprensivo delle ore di lavoro straordinario.

[8] L’articolo 136 TCE prevede: “La Comunità e gli stati membri, tenuti presenti i diritti sociali fondamentali, quali quelli definiti nella Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, hanno come obiettivi la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazione elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione. A tal fine, la Comunità e gli stati membri mettono in atto misure che tengano conto della diversità delle prassi nazionali, in particolare nelle relazioni contrattuali, e della necessità di mantenere la competitività dell’economia della Comunità. Essi ritengono che una tale evoluzione risulterà sia dal funzionamento del mercato comune, che favorirà l’armonizzarsi dei sistemi sociali, sia dalle procedure previste dal presente Trattato e dal ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative”.

[9] Direttiva 99/63/CE del Consiglio del 21 giugno 1993 relativa all’accordo sull’organizzazione dell’orario di lavoro della gente di mare concluso dall’Associazione armatori della Comunità Europea (ECSA) e dalla Federazione dei sindacati dei trasportatori dell’Unione Europea (FST).

[10] Direttiva 2002/15/CE del Consiglio dell’11 marzo 2002 concernente l’organizzazione dell’orario di lavoro delle persone che effettuano operazioni mobili di autotrasporto.

[11] Direttiva 99/95/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 1999, concernente l'applicazione delle disposizioni relative all'orario di lavoro della gente di mare a bordo delle navi che fanno scalo nei porti della Comunità.

[12] Direttiva 2000/79/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, relativa all'attuazione dell'accordo europeo sull'organizzazione dell'orario di lavoro del personale di volo nell'aviazione civile concluso da Association of European Airlines (AEA), European Transport Workers'Federation (ETF), European Cockpit Association (ECA), European Regions Airline Association (ERA) e International Air Carrier Association (IACA) (Testo rilevante ai fini del SEE).

[13] La Corte di giustizia (Quarta Sezione) con sentenza del 28 aprile 2005, causa C-410/03, avente ad oggetto un ricorso per inadempimento ai sensi dell’articolo 226 del TCE, ha condannato lo stato italiano per la mancata attuazione della direttiva comunitaria.

[14] L. Galatino, Diritto comunitario del lavoro, Torino, G. Giappichelli editore, 2006, pag. 184.

[15] L’articolo 18, paragrafo 3, della direttiva 93/104/CE del Consiglio, del 23 novembre 1993 prevede: “Fatto salvo il diritto degli Stati membri di fissare, alla luce dell’evoluzione della situazione, disposizioni legislative, regolamentari, amministrative e convenzionali diverse nel campo dell’orario di lavoro, a condizione che i requisiti minimi previsti dalla presente direttiva siano rispettati, l’attuazione di quest’ultima non costituisce una giustificazione per il regresso del livello generale di protezione dei lavoratori”.

[16] Il comma 2 dell’articolo 19 del D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, come modificato dall’articolo 1 del decreto legislativo 19 luglio 2004, n. 213, dispone: “dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo sono abrogate tutte le disposizioni legislative e regolamentari nella materia disciplinata dal decreto legislativo medesimo, salve le disposizioni espressamente richiamate”.

[17] La definizione del concetto di “orario di lavoro” è data dall’articolo 1, comma 2, lett. a) del D.Lgs. 66/2003.

[18] Massimo Viceconte, La nuova organizzazione dell’orario di lavoro, in Diritto del lavoro, 11/01/2007.

[19] Corte di Giustizia Europea, sentenza 9 settembre 2003, causa C-151/02.

Oppedisano Diana 4 9[20] L’art. 4 del D.Lgs n. 66/2003 prevede:
1. I contratti collettivi di lavoro stabiliscono la durata massima settimanale dell'orario di lavoro.
2. La durata media dell'orario di lavoro non può in ogni caso superare, per ogni periodo di sette giorni, le quarantotto ore, comprese le ore di lavoro straordinario.
3. Ai fini della disposizione di cui al comma 2, la durata media dell'orario di lavoro deve essere calcolata con riferimento a un periodo non superiore a quattro mesi.

[21] M. Tirabischi – A. Russo, Prime osservazioni sull’attuazione della direttiva n. 93/104/Ce, Guida al Lavoro, n. 17 del 25 aprile 2003. 

[22] MLPS – circolare 3 marzo 2005, n. 8.

[23] L’articolo 3, comma 2, del D.Lgs. n. 66/2003 stabilisce: I contratti collettivi di lavoro possono stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore e riferire l'orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno.

[24] L’articolo 1, co.2, della legge 17 ottobre 1967, n. 977, modificata dal D.Lgs 4 agosto 1999, n. 345, recita: ai fini della presente legge si intende per: a) bambino il minore che non ha compiuto i 15 anni di età o che è ancora soggetto all’obbligo scolastico; b) adolescente il minore di età tra i 15 e i 18 anni di età e che non è più soggetto all’obbligo scolastico.

[25] MLPS – Circolare 4 marzo 2014, n. 5.

[26] L’articolo 16 della legge 689/1981 prevede: “E' ammesso il pagamento di una somma in misura ridotta pari alla terza parte del massimo della sanzione prevista per la violazione commessa o, se più favorevole e qualora sia stabilito il minimo della sanzione edittale, pari al doppio del relativo importo, oltre alle spese del procedimento, entro il termine di sessanta giorni dalla contestazione immediata o, se questa non vi è stata, dalla notificazione degli estremi della violazione”.

[*] Il dott. Luigi OPPEDISANO e la dott.ssa Erminia DIANA sono funzionari del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in servizio presso la DTL di Cosenza. Le considerazioni sono frutto esclusivo del libero pensiero degli autori e, ai sensi della vigente disciplina, non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l`Amministrazione di appartenenza.


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