L’evoluzione storica del Terzo Settore: nascita e progressiva affermazione - Seconda Parte

di Paola di Paolo [*]

Paola Di Paolo(La prima parte è stata pubblicata nel n. 15).

Durante la fase della prima industrializzazione, l’Italia Unita ereditava realtà economiche e sociali carenti in ambito scolastico, igienico-sanitario ed assistenziale. Si delineò un modello di assistenza sociale al cui interno si mantennero vive le libere iniziative promosse dalla società civile e da quella religiosa. L’azione sociale di queste istituzioni seguiva un orientamento culturale e sociale di tipo “assistenzialista”. Fra ’800 e ’900 le Opere sociali conobbero un notevole incremento rivolgendosi alle nuove povertà provocate dalla modernizzazione economica e dall’industrializzazione del Paese.

Nell’area Lombardo Veneta si registrò una significativa rinascita del volontariato ospedaliero e sociale. In numerose città riprese l’antica tradizione della “visita “ai malati e si diede vita ad una vasta rete di scuole popolari e di case di accoglienza. Si affermarono nuove congregazioni religiose maschili e femminili, spesso legate all’associazionismo laico, caso esemplare quello dei “Salesiani”, i cui campi di intervento riguardarono l’istruzione e la rieducazione nel suo complesso, dagli asili per l’infanzia alle scuole primarie per il popolo, dagli oratori per la gioventù ai primi pensionati per studenti e operai, in richiamo alla dimensione spirituale e morale della carità. Un esempio fu la “Società Umanitaria di Milano”, destinata ai diseredati, ai quali veniva offerta una formazione culturale, con il contributo di grandi figure della vita politica del tempo.

Un ruolo di grande rilevanza nel panorama associativo dell’Italia di fine ’800 è da attribuire alle “Società di Mutuo Soccorso”, regolamentate per la prima volta con la Legge 3818/1886. In campo assistenziale quest’ultime furono viste come forme di autotutela operaia di vastissima portata con una notevole incidenza sulle future relazioni di lavoro[1]. Il principio fondante era quello della condivisione del rischio lavorativo, distinguendosi dalle altre istituzioni assistenziali per il loro carattere associativo fra persone appartenenti allo stesso ceto sociale, al fine di migliorarne le condizioni di vita e garantirne la protezione contro alcuni rischi derivanti dall’attività lavorativa. Esse costituirono la prima forma associativa diffusa al Nord e nel Centro Italia, in cui, per la prima volta, era presente la classe operaia italiana, pur non potendosi ancora considerare come “organismo di classe”[2].

La prima società generale di mutuo soccorso italiana nasce nel 1848 in Piemonte, a Pinerolo. In seguito la crescita numerica di queste società fu impetuosa: dislocate soprattutto in Piemonte, Liguria, e Lombardia e dopo l’Unificazione arrivarono ad essere circa 6.587, sia pure con un forte squilibrio territoriale che penalizzava soprattutto il Mezzogiorno[3].

In tempi di rigida separazione dei ruoli di genere, quando il lavoro femminile spesso non era sinonimo di emancipazione, ma di subalternità e di duro sfruttamento, quasi coeva, delle prime società di mutuo soccorso per soli uomini, nasce, nel 1851, “l’Associazione Generale di Mutuo Soccorso delle Operaie di Torino” che in pochi anni arriva ad avere ben 1.800 socie. Numerose associazioni mutualistiche a base professionale (dai fabbri ai farmacisti, dai sarti, ai tipografi) derivavano da antiche corporazioni di mestiere. Detta funzione mutualistica trovò il suo complemento nell’azione di promozione e protezione del risparmio dei lavoratori ad opera delle “Casse di risparmio”.

Dipaolo 16 1Per regolamentare le società mutue venne approvata la legge Berti del 1886, preceduta da un animato dibattito scientifico, poiché la nascita di queste società accompagnavano una possibile evoluzione politica, in senso democratico del ceto operaio. Ai sensi dell’art.1 della legge Berti, i fini consentiti delle società erano “assicurare ai soci un sussidio nei casi di malattia, di impotenza al lavoro o di vecchiaia” e quello di “venire in aiuto alle famiglie dei soci defunti”, mentre l’art. 2 prevedeva “il divieto di distribuire denaro presente nelle casse mutue per fini diversi”. Le disposizioni successive dettavano la disciplina della costituzione della società ed il contenuto minimo dello statuto. La legge Berti non diede risposte del tutto esaurienti, avendo un applicazione limitata, e non risolse il problema relativo alla corresponsione delle pensioni di invalidità e vecchiaia, finendo per aggravare la diffidenza delle società stesse nei confronti dei pubblici poteri[4].

Nel corso dei decenni l’esperienza delle “società mutue” sarebbe entrata ben presto in crisi, per le loro stesse caratteristiche intrinseche, tanto da rallentarne la diffusione sul territorio. Le associazioni di mutuo soccorso essendo costituite dalle categorie più abbienti, coinvolgevano un numero ristretto di soggetti e tale inevitabile limitazione, impediva a sua volta, la creazione di risorse finanziarie adeguate. C’erano anche limiti dovuti all’ingenuità, all’approssimazione nell’applicazione del metodo attuariale, e all’invecchiamento dei soci, con la conseguente convenienza dei giovani a creare proprie strutture associative, senza entrare in quelle già costituite e pregiudicate[5].

Contemporaneamente alla nascita delle prime società di mutuo soccorso nacque in Italia il fenomeno della Cooperazione, dalla quale germinerà, decenni dopo, quella che tuttora è una delle famiglie più vitali all’interno del Terzo Settore, ossia quella delle “cooperative sociali”. In Italia la prima cooperativa di consumo sorse a Torino nel 1854 per iniziativa dell’Associazione Generale degli Operai, anche se la vera e propria diffusione si registra solo dopo il 1880, con la nascita delle cooperative promosse da ferrovieri e con lo sviluppo di forme di cooperazione tra i braccianti delle zone di bonifica. Le cooperative potevano essere ricondotte a sei distinte tipologie: “Cooperative che vendevano generi alimentari al pubblico” in cui gli utili venivano ripartiti tra i consumatori in base ai loro acquisti ed investiti in opere sociali; “Cooperative nate dal mutuo soccorso”, con funzione economica e filantropica; “Cooperative che riunivano la duplice funzione di consumo e lavoro”; “Cooperative di categoria”, diffusa soprattutto tra i Ferrovieri; “Cooperative nate da sodalizi cattolici”, i cui utili venivano destinati a scopi di beneficenza, per funzioni funebri ed assistenza per poveri e malati; “Cooperative rurali”, nate come centri di ritrovo e poi trasformate in piccole rivendite di generi alimentari.

Tra il 1904 ed il 1911 furono approvate leggi di grande importanza che permisero la formazione di “consorzi fra cooperative” allo scopo di concorrere per appalti di opere pubbliche, mentre a livello nazionale si registrò nel 1913 la costituzione dell’Istituto nazionale di credito per la cooperazione, ad opera di Luigi Luzzatti, sostenitore del credito cooperativo fin dalla fondazione della prima banca popolare. Egli prefigurava l’unione fra individui per ottenere il fine di accrescere il proprio benessere e quello della società, con un'armonia tra solidarismo sociale e scienza economica. Luzzatti si fece anche promotore di vari progetti legislativi per lo sviluppo della cooperazione in Italia. In questi anni si rafforzava la consapevolezza dei lavoratori di costituire cooperative per combattere la disoccupazione e l’usura, fenomeno allora profondamente radicato nella società dell’epoca [6]. Nascono in questi anni società cooperative destinate ad avere un rilievo nazionale come “l’Associazione Generale Operai Braccianti di Ravenna”, fondata da 300 braccianti agricoli a rischio disoccupazione con la sola alternativa dell’emigrazione, “la “Tipografia Operaia di Milano” e la “Società Cooperativa di Bologna”, “il Magazzino Cooperativo di Produzione dei Calzolai di Pisa”, “la Fonderia di Sampierdarena”, “l’Associazione fra gli Operai Braccianti del mandamento di Budrio”. Nel Ravennate si diffusero le fabbriche cooperative di maioliche e stoviglie sull’esempio della gloriosa “Cooperativa Ceramica d’Imola”.

Dipaolo 16 3Il fascismo, però, colpì duramente la cooperazione democratica di ispirazione socialista, cattolica e repubblicana. Lo squadrismo fascista individuò, infatti, nelle Case del Popolo, nelle Camere del Lavoro, nelle Cooperative e nei Circoli Operai i principali obiettivi per le sue violente incursioni. I fascisti da una parte cercarono di imporre alle cooperative alcuni principi economici “meno solidaristici” e dall’altro, vi infiltrarono, a diversi livelli, propri esponenti, in modo da acquisire, con un certo consenso, la gestione delle cooperative stesse. Nei riguardi dei grandi Consorzi e delle più affermate cooperative, il fascismo agì attraverso la “gestione straordinaria” imponendo, al loro interno, dirigenti di sicura fede politica. Il fascismo sciolse nel 1925 “la Lega” e nel 1927 “la Confederazione” obbligando i capi del movimento cooperativo ad abbandonare ogni attività pubblica.

Durante il ventennio fascista le funzioni previdenziali e assistenziali, così come le grandi cooperative mutualistiche, furono poste sotto il rigido controllo dell’apparato statale. Il mutualismo associativo venne progressivamente ridimensionato sia per il consolidarsi di forme di previdenza basate sugli schemi assicurativi, sia per il fatto che il fascismo sottrasse la gestione della previdenza sociale per concentrarla nell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale. Così lo Stato totalitario cercò di riempire di sé lo spazio tra le Istituzioni e i cittadini, a scapito di tutti gli altri soggetti che si ponevano in rapporto con il singolo individuo come gli enti territoriali, le organizzazioni sindacali e l’associazionismo politico e privato.

Così la libertà di associazione subì una forte repressione e la società fu irreggimentata nel partito unico e nel sistema delle corporazioni. La repressione fu attuata oltre che con le violenze e i soprusi perpetrati verso gli oppositori, anche con gli strumenti della legge mediante l’approvazione di una legislazione penale severissima e la normativa di pubblica sicurezza. Già nel 1924 le associazioni furono sottoposte a forti poteri governativi di vigilanza, con revoca e annullamento degli atti, liquidazione e scioglimento con il pretesto di colpire la massoneria italiana. Si intervenne con l’obbligo di un sistema di pubblicità e con la facoltà dei Prefetti di sciogliere e confiscare il patrimonio sociale di tutte le associazioni che agissero contro gli ordinamenti politici costituiti nello Stato. L’associazionismo privato veniva visto con sfavore dal regime, sia perché andava contro l’ideologia del totalitarismo, e sia perché rappresentava una potenziale terreno di opposizione politica. Le libere organizzazioni della società civile furono rimpiazzate da Enti, opere nazionali e altre organizzazioni quali: “Figli della lupa”, “l’Opera Nazionale Balilla”. Nel 1939 vennero così emanate severe disposizioni contro le società di mutuo soccorso volontarie, considerate anacronistiche e sprovviste del carattere e dell’etica fascista. Lo stato fascista costituì degli ordini periferici, oltre alle Prefetture, per curare le nuove attività che l’apparato centrale andava assumendo. Gli organi del Parastato rappresentarono gli aspetti del soffocamento delle autonomie locali attuato dal fascismo, iniziato con le violenze squadriste che colpirono numerose sedi e giunte comunali, togliendo agli enti locali la prerogativa istituzionale della libera rappresentanza. Venne prevista la soppressione delle associazioni private non riconosciute attive nel settore assistenziale con il trasferimento delle relative attività patrimoniali alla Croce Rossa. Nei confronti delle Opere Pie e della Chiesa Cattolica, dopo un iniziale atteggiamento anticlericale, il regime seguì una politica più morbida, restituendo al Clero alcuni spazi di autonomia che gli erano stati sottratti dalla legge Crispi.

Ai Prefetti venne affidato il compito di coordinare le varie forme di assistenza e beneficenza nei singoli Comuni, di vigilare sulla gestione delle Congregazioni di carità, di ordinare inchieste sugli uffici e atti amministrativi delle IPAB e persino di promuovere d’ufficio la fondazione di nuove Istituzioni. Con la legge n. 1187/1926, la cosiddetta “Legge Federzoni”, si ebbe un inversione della politica anticlericale con un atteggiamento più conciliante del regime nei confronti della Chiesa cattolica. Venne infatti soppressa l’obbligatorietà del concentramento degli Istituti di beneficenza, lasciandoli facoltativi, e si restituì agli ecclesiastici la possibilità di essere eletti nelle Congregazioni di Carità.

Dipaolo 16 2Nel Concordato del 1929 si ebbe, infine, il riconoscimento dell’autonomia dallo Stato per gli Enti assistenziali che avessero esclusivo scopo di culto che venivano così assoggettati all’autorità ecclesiastica per il funzionamento e l’amministrazione. Si realizzava, dunque, una sorta di divisione dei compiti assistenziali tra Stato e Chiesa: lo Stato fascista, con i grandi enti nazionali assistenziali, si sarebbe occupato della tutela dei settori produttivi, e delle fasce della popolazione che potevano contribuire alla realizzazione degli obiettivi del regime e rafforzarne il consenso, mentre alla Chiesa si lasciava la possibilità di continuare ad occuparsi delle attività di assistenza agli anziani, agli inabili, agli indigenti con le Opere Pie che proseguirono l’attività di beneficenza per le fasce marginali della popolazione che, come tali, non venivano ritenute più utili al perseguimento degli scopi del regime.

Sulla volontà di chiudere l’esperienza dello Stato Fascista si fondano le scelte dell’Assemblea Costituente, chiamata negli anni 1946-47 ad elaborare il testo della nuova Costituzione. Il principio del “pluralismo sociale” viene posto tra i principi fondamentali e rappresentò, così come affermò uno dei suoi padri Giorgio La Pira “la pietra angolare” della nuova Costituzione. Si affermò la piena autonomia delle “formazioni sociali” riconoscendone la funzione sussidiaria nella tutela di alcuni diritti fondamentali, come l’assistenza sociale, all’art. 38 Cost. Quest’ultima disposizione, peraltro, è stata ritenuta la norma previdenziale per eccellenza in quanto con essa il sistema costituzionale di protezione, antecedente la riforma del Titolo V° della Costituzione, ha voluto realizzare proprio la tutela della persona umana, nell’ottica della liberazione dal bisogno, concretizzata nel concetto di sicurezza sociale[7]. Era presente nei Costituenti un atteggiamento di grande rispetto dell’autonomia privata, tanto che ci si preoccupava che un intervento legislativo potesse limitarne la stessa autonomia, per cui c’era l’orientamento comune ad astenersi da ogni forma di regolamentazione, così da favorire il pluralismo sociale e la libertà di organizzazione secondo regole non imposte dall’esterno. Anche se nel testo costituzionale non erano presenti chiari riferimenti a ciò che si sarebbe sviluppato nel Terzo settore, c’erano importanti principi posti alle basi dell’affermarsi della solidarietà organizzata, come quello di cui all’art. 2 Cost. che favorisce e tutela le formazioni sociali come luoghi in cui si sviluppa la personalità dell’individuo. È in questa disposizione che è sancita la netta supremazia della persona rispetto all’ordinamento statale, che esiste solo in funzione della persona, ma anche l’importanza dell’uomo uti socius [8]. Quadrato Verde

Bibliografia

[1] Silei G., “Lo Stato sociale in Italia. Storia e documenti”, vol. 2003, Roma.

[2] Merli S., “Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano 1880-1900.”, La Nuova Italia, Firenze.

[3] Cherubini A., “Beneficienza e solidarietà. Assistenza pubblica e mutualismo operaio 1860-1900”, F. Angeli, Milano.

[4] Tomassini L., “Il mutualismo nell’Italia liberale” in “Le società di mutuo soccorso italiane e i loro archivi”, 1999.

[5] Hernandez S., “Lezioni di storia della previdenza sociale”, Giappichelli, Padova, 1972.

[6] M. Fornasari – V. Zamagni, “Il movimento cooperativo in Italia. Un profilo storico-economico”, Vallecchi, Firenze, 1997.

[7] De Siervo U., “Libertà di associazione” in “Digesto delle discipline pubblicistiche”, Utet, Torino, 1987.

[8] Rossi E., “Commentario alla Costituzione” I° Utet, Torino, 2006.

[*] Funzionario Area Amministrativa e Giuridico – Contenzioso in servizio presso la Direzione Territoriale del Lavoro di Teramo. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per la relativa Amministrazione di appartenenza.

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