Lavorare con i detenuti: un esempio di civilta'
Intervista a Vania Carlot vice presidente della cooperativa Rio Terà dei Pensieri
di Dorina Cocca e Tiziano Argazzi [*]
In un precedente numero di questo periodico[1] si è parlato delle condizioni di lavoro nelle carceri italiane. Una situazione molto critica come emerge dal XII Rapporto dell’Associazione Antigone. Lavora appena il 29,73% dei detenuti. Di questi solo una piccola parte (circa il 15%) con datore di lavoro privato. Alla data del rapporto erano appena 612 i detenuti impiegati in attività di tipo manifatturiero, 208 in attività agricole. Ed oggi la situazione non è cambiata in meglio.
Infatti la maggior parte dei detenuti lavora per l’Amministrazione Penitenziaria in attività cosiddette domestiche che comportano impegni lavorativi molto limitati (anche per poche ore settimanali) con un guadagno medio mensile di 200 euro. Fra tali attività rientrano ad esempio quelle di cuoco ed aiuto cuoco, addetto alla lavanderia, porta vitto, magazziniere, scrivano (cioè addetto alla compilazione di istanze e alla distribuzione di moduli), piantone (che identifica l’assistente di un compagno ammalato o non autosufficiente) e spesino (cioè incaricato di raccogliere gli ordini di acquisti dei compagni e alla loro distribuzione).
La situazione cambia di pochissimo anche se a questi numeri si aggiungono quelli dei detenuti iscritti ai corsi professionali (4,55% dell’intera popolazione carceraria).
Carcere e lavoro una difficile convivenza
Il rapporto fra carcere e lavoro è da sempre un tema che fa discutere. Anche perché il lavoro è risorsa “rara” sia fuori (cioè nella società) e sia dentro (il carcere). E quindi ci si interroga se è corretto prevedere per i detenuti una strada d’accesso facilitata a quella risorsa, così scarsa, da essere per tutti così difficile da conquistare. Questo però non deve fare perdere di vista l’obiettivo primario che rimane quello di evitare il più possibile fenomeni di recidiva, e questo è possibile solo grazie ad un pieno reintegro del detenuto nella società, una volta che ha scontato la pena.
In carcere, ha scritto Ivo Lizzola, ordinario di Pedagogia Sociale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bergamo - si è inchiodati al passato[2]. È un passato che blocca la possibilità di “pensarsi altrimenti” e soprattutto di “pensare al futuro”. La riconquista di questo modo di ragionare positivo è difficile, a volte terribilmente complicato anche perché è facile che il carcere – sono sempre parole di Ivo Lizzola - apra a percorsi di regressione molto duri. Il motivo è presto detto: è difficile soprattutto oggi, in questo tempo di durezza e di estraneità reciproca, incontrare ed incontrarsi con le persone, rimettendo le colpe e allo stesso tempo non dimenticando.
E poi la mancanza di lavoro sottopone il condannato a condizioni di ozio forzato, con tantissimo “tempo vuoto”, che portano ad ulteriori elementi di frustrazione e sofferenza che, a lungo andare, potrebbero tradursi in una generale impossibilità di riscatto morale e sociale accompagnata dalla totale mancanza di quei mezzi minimi di sostentamento economico da destinare ai bisogni primari che non sempre possono venire adeguatamente soddisfatti dalle Amministrazioni penitenziarie[3].
Con buona pace del dettato costituzionale che all’art. 27 stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” ed alla sua risocializzazione. La difficoltà a dare piena attuazione a quanto previsto, con lungimiranza, dalla Carta costituzionale è sotto gli occhi di tutti.
Comunque l’orientamento che ha iniziato a delinearsi verso la fine degli anni novanta del secolo scorso, per fronteggiare la carenza di occasioni di lavoro, è stato quello di cercare di dare vita ad iniziative imprenditoriali mirate al reinserimento di persone detenute e la creazione di posti di lavoro per chi esce dal carcere per fine pena. In questo ambito grande importanza l’ha avuta e continua ad averla la cooperazione sociale come trait d’union, come elemento di connessione e collegamento, tra il carcere ed il mondo esterno.
Dal 1998 tali sodalizi hanno progressivamente allargato il loro raggio d’azione, accrescendo negli anni l’impegno nel reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, con attività all’interno ed all’esterno del carcere. Alla fine del 2014 si potevano contare circa 600 postazioni di lavoro remunerate all’interno degli Istituti di pena e diverse migliaia sono poi i posti di lavoro creati all’esterno, tanto per detenuti ammessi al lavoro esterno quanto per persone beneficiarie di misure alternative alla detenzione[4].
L’importanza di tali iniziative lo si rinviene anche nell’esame del fenomeno della recidiva, cioè la tendenza dopo avere scontato una pena a ripetere atti criminosi ed a tornare a delinquere. Si parla di punte del 90% di recidiva per carcerati non coinvolti in programmi rieducativi e di avviamento al lavoro, a fronte di una recidiva media dei soggetti beneficiari di tali percorsi intorno al 2%[5].
Infatti – come ha ben evidenziato Michele Tiraboschi ordinario di diritto del lavoro all’Università degli Studi Modena e Reggio – “riqualificare una persona reclusa significa far crescere le sue competenze lavorative e umane, utili al momento del ritorno nella società, una volta scontata la pena, per evitare di tornare a delinquere.
Per tali ragioni la cooperazione sociale deve contare di più nel sistema carcere. Infatti spesso il vero problema di chi esce non è avere o non avere un datore di lavoro, ma essere accompagnato da una rete sociale – e anche qui giocano un ruolo di primo piano le cooperative – che gli permetta di non sentirsi solo e di sentirsi utile e accettato nell’ambiente in cui vive”[6].
Il carcere infatti, spoglia l’individuo di qualsiasi ruolo ricoperto in precedenza e come ha scritto Erving Goffman[7], la privazione di ruoli importanti per l’individuo costituisce una prima causa che determina l’alterazione “del sé” e comporta in alcuni casi una grave mancanza di autostima.
Rio Terà dei Pensieri vent’anni di impegno a fianco dei detenuti
Una delle cooperative che si sta da anni adoperando nella creazione di questa importante rete sociale è sicuramente la Rio Terà dei Pensieri. Il nome presumibilmente non dice nulla a chi non è nato in Laguna[8]. In effetti è una via che costeggia il carcere maschile di Venezia. Rio Terà dei Pensieri è anche il nome di una cooperativa, nata per volontà di alcuni volontari, che da più di vent’anni opera all’interno degli Istituti di pena, maschile (Casa Circondariale maschile di Santa Maria Maggiore) e femminile (Casa di Reclusione femminile Giudecca) di Venezia.
Un sodalizio sorto per porre in essere misure alternative alla cella, per creare occasioni di lavoro ed in tal modo “fare da ponte” tra il dentro ed il fuori.
Un’attività che oltre ad essere un lavoro è anche una missione[9]. Infatti il vero problema, che da sempre alimenta dibattiti intensi, è cosa fare per recuperare alla società civile il detenuto una volta espiata la pena. Diceva Voltaire che la civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri: le nostre talvolta riflettono il peggio ma, lentamente, sta emergendo la volontà alla rieducazione e riabilitazione del carcerato.
E questa è proprio la “mission” della cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri che raccogliendo il monito di Voltaire, ha voluto dare una dimostrazione di civiltà proponendo formazione, lavoro e inclusione sociale alle persone detenute nel carcere femminile della Giudecca e in quello maschile di Santa Maria Maggiore. Per dare loro una nuova occasione, un tempo nuovo per ripartire. Ed i risultati fino ad oggi sono sicuramente positivi. Infatti simile ad un fiume carsico, che scorre sotterraneo e riemerge con forza in superficie, il sodalizio sta lavorando in modo concreto per togliere le persone dalla cella, per limitare al massimo il loro “tempo vuoto” ed impiegare quelle ore per insegnare loro una attività e proporre progetti di risocializzazione con gli altri compagni di lavoro, elementi essenziali per dare corpo a percorsi di “ritorno alla normalità”, lenti ma inarrestabili. Percorsi fatti di schemi giornalieri, orari da rispettare ed obiettivi da raggiungere con un occhio di riguardo all’aspetto economico, la retribuzione, che rende il tutto più gratificante.
I cinque operatori soci (Liri Longo presidente, Vania Carlot vice, Elena Botter, Mattia Ferrari ed Emanuela Lucidi) si sono divisi i tanti compiti di responsabilità - operativi, gestionali ed amministrativi – che fanno parte della vita di ogni azienda. E poi lavorano a stretto contatto con i detenuti per buona parte della settimana.
“Da anni l'impegno della Cooperativa – dice con determinazione Vania Carlot nella sede sociale di Marghera, in via delle Industrie, in mezzo a ritagli di Pvc e macchine taglia e cuci- è finalizzato a favorire la formazione professionale e il lavoro all'interno delle carceri veneziane, e in un secondo tempo di indirizzarlo all'esterno verso società, enti pubblici o privati cittadini. Abbiamo avviato tre laboratori (serigrafia, riciclo di Pvc e cosmetica) e anche un orto biologico. I prodotti variano dai cosmetici ai profumi, dalla pelletteria e all'abbigliamento serigrafato”.
“La nascita della cooperativa nel 1994 – continua Carlot - è opera di Raffaele Levorato[10], storico dirigente del Porto e dell’Aeroporto di Venezia, che una volta in pensione si è rimesso in gioco. La molla è stata la visita in carcere ad un ex collega che gli ha rappresentato come fosse difficile far passare le giornate senza fare nulla: questo lo ha portato ad avvicinarsi alle problematiche del mondo carcerario. Fondò la cooperativa e chiese quasi subito un finanziamento alla Regione, integralmente concesso, per la formazione professionale rivolta alle persone detenute che in tal modo, una volta fuori dal carcere, avrebbero avuto più chance di rioccuparsi in attività produttive. Queste sono sempre state le basi dell’azione di Levorato: formare i detenuti al lavoro per aprire loro, una volta usciti, delle opportunità concrete nelle attività produttive”.
Con queste premesse è facile capire che il lavoro per il detenuto non è solo una occupazione ma è, prima di tutto, la soddisfazione di un suo bisogno, una ragione di vita, una opportunità a livello personale per rimettersi in gioco e per riscoprire risorse, abilità e potenzialità che molto spesso non sapeva nemmeno di possedere e che, all’interno di un sistema relazionale, gli consentono di riacquistare fiducia in se stesso.
“Infatti – evidenzia sempre la vicepresidente - spesso ci si dimentica che i detenuti sono anche soggetti di diritti e la loro realtà, o meglio il loro vivere quotidiano, non deve essere solo costituito da sbarre, cancelli, rumore di chiavi e guardie. Da parte nostra, giorno dopo giorno investiamo su di loro, nel loro potenziale e nella loro voglia di riscatto, perché crediamo che ognuno meriti una seconda opportunità, una nuova chance per ricominciare. È ovvio che per recuperare le persone detenute – continua Carlot - non servono lavoretti per far passare il tempo, ma un lavoro vero, spendibile all’esterno una volta terminata la pena. È altresì assodato che il lavoro porta ad un decisivo miglioramento delle condizioni fisiche e mentali delle persone carcerate; sono anche buoni i risultati del reinserimento sociale ed ottimi quelli in termini di contrasto alla recidiva”.
“Ogni nostra produzione è speciale – prosegue con forza Carlot - poiché porta con sé la storia delle mani che l’hanno lavorata, fatta di passati tortuosi, presenti di impegno e attese di futuri migliori. Per superare questi ostacoli abbiamo avviato una serie di attività: come ho detto in precedenza, nel carcere maschile sono attivi due laboratori, uno di Pvc recuperato con il marchio Malefatte, attivo dal 2009 (si producono borse, zaini, astucci, agende e quaderni, pochette, portachiavi e beautycase) ed uno per serigrafia dove vengono stampate a mano borse e T-shirt. In quello femminile, collocato nell’ex convento delle Convertite, invece abbiamo ripristinato l’antico orto conventuale (chiamato l’Orto delle meraviglie) di seimila metri quadri dove si coltivano frutta e verdura, secondo i principi dell’agricoltura biologica; tali prodotti sono poi rivenduti, tutte le settimane (il giovedì mattina) all’esterno del carcere in un banchetto curato da detenute, sempre seguite da personale della cooperativa”.
“A questo – sono sempre parole di Carlot – è stato affiancato il laboratorio di cosmetica, caratterizzato da produzioni di altissima qualità che mirano a tenere viva l’antica tradizione degli “speziali” veneziani in cui la cura artigianale si combina con la più moderna tecnologia cosmetica. Nel laboratorio vengono anche utilizzate le piante officinali coltivate nell’orto biologico”.
La linea a marchio “Rio Terà dei Pensieri”, propone tre linee di prodotti, la prima tradizionale a base di saponette e sali profumati, la seconda naturale ed infine la terza biologica certificata. Per gli alberghi, soprattutto di Venezia e del Veneto, invece vengono prodotte confezioni di cortesia per i clienti (saponette, bagnoschiuma, shampoo, creme per viso e corpo) fatte di amabili fragranze ed ingredienti naturali, con il marchio “Santa Maria degli Angeli”.
“Attualmente la cooperativa – riferisce la vicepresidente - dà lavoro a 26 persone (7 nell’orto, 3 nel laboratorio di cosmesi ed altrettante in quello di serigrafia, 2 nella pelletteria interna e 3 nel laboratorio esterno ed 8 sono impegnate con la società multiservizi Veritas nella pulizia di strade e verde pubblico) oltre ai cinque soci operatori, ad un chimico con mansioni di direttore del laboratorio di cosmetologia ed un agronomo impegnato nell’orto del carcere femminile”.
“Non tutti i detenuti assunti dalla cooperativa hanno fatto domanda per diventare soci – ci tiene a precisare Vania Carlot – perché anche questo fa parte di un percorso di crescita personale e di acquisizione di responsabilità. Inoltre per essere inseriti nelle varie attività è il più delle volte indispensabile possedere delle abilità di base. Per esempio nel laboratorio di cosmesi chi entra deve, tra l’altro, avere almeno una alfabetizzazione di base e non essere tossicodipendente dal momento che si lavora con la chimica e reagenti di vario tipo. Invece per quanto riguarda l’orto non vengono richieste specifiche competenze e si riesce in tal modo ad inserire anche i detenuti più complessi che sono i tossicodipendenti e quelli con problemi psichiatrici”.
Quindi carcere non più pensato come solo contenitore ma una struttura laboratorio per consentire un recupero della dignità e tanta formazione per fare in modo che il futuro non costituisca più una incognita ma sia la naturale continuità dei percorsi di recupero intrapresi. Per tale motivo da tre anni la cooperativa ha deciso di proseguire l’attività di pelletteria con Pvc riciclato anche in un laboratorio esterno al carcere e precisamente collocato nella sede sociale del sodalizio.
“C’era l’esigenza – è sempre Vania Carlot a parlare – di incrementare la capacità produttiva del settore e si è ritenuto di svilupparla all’esterno del carcere per poter dare continuità ai percorsi di inserimento lavorativo e sociale che intraprendono i detenuti che lavorano con noi. Attualmente ci lavorano tre ragazzi di cui due assunti a tempo indeterminato, uno è un ex detenuto ed uno sta finendo di scontare la pena”.
Il primo incontro con Vania Carlot l’anno scorso al Sana Bologna, il Salone internazionale del biologico e del naturale che si svolge nella città felsinea ai primi di settembre di ogni anno. “La nostra presenza a Bologna è avvenuta nell’ambito della rete Freedhome – Creativi dentro, un network di imprese cooperative sociali, di cui Rio Terà dei Pensieri fa parte, che lavorano all’interno di vari penitenziari sparsi per l’intero stivale e portano dentro alla mura del carcere lavoro, valore e professionalità e portano fuori prodotti di alta qualità. Ad esempio al Sana oltre alla nostra linea cosmetica c’erano produzioni alimentari di alta qualità fra cui pane e biscotti, pasticceria, torroni e tante altre squisitezze delle varie cooperative aderenti al progetto”.
Il secondo incontro invece, iniziato in un pomeriggio freddo, umido e nebbioso di fine novembre è terminato con la calda convinzione che fare del proprio lavoro una missione è possibile. E ciò avviene quotidianamente per gli operatori della cooperativa Rio Terà dei Pensieri: una bella realtà produttiva, anche attrattiva per tutti quegli imprenditori che volessero seguirne le orme dopo aver superato talvolta le umane diffidenze di lavorare fianco a fianco con le persone detenute. Per non rischiare di essere, questa volta, noi i prigionieri. Prigionieri dei nostri pregiudizi, abituati come siamo a ragionare attraverso stereotipi che, molto spesso, anestetizzano i pensieri.
Note
[1] Tiziano Argazzi “Lavoro in carcere, caposaldo della redenzione e del reinserimento sociale” n. 17 (Settembre Ottobre 2016);
[2] Ivo Lizzola tratto dall’articolo “In carcere si è inchiodati al passato”: ’esperienza della colpa è molto difficile, dunque, ma allo stesso tempo in carcere si è inchiodati al reato di cui si è colpevoli. Si è inchiodati al passato, più o meno prossimo, che continua a bloccare la possibilità di pensarsi altrimenti. Così é nella vulnerabilità, così è nella malattia, specie quella incurabile. L’unica porta stretta è quella per la quale si può passare dall’essere inchiodati nel passato al viversi nel futuro anteriore, cioè ad un capacità di poter raccontare di nuovo di sé secondo il tempo del “futuro anteriore”. Io “sarò stato”, voglio poter dire che non “sono stato”, ma che “sarò stato” altro e oltre. Io sarò stato questo: mi sono ripreso dentro un racconto di riscatto. Io “sarò stato” l’uomo del reato e della pena ma voglio poter dire ai miei figli e a mio padre, voglio poter dire di me, che “sarò stato” protagonista del percorso di una nuova nascita;
[3] Tratto dal sito www.carceretorino.it/lavoro e scritto da due persone detenute nello stesso Istituto penitenziario;
[4] Andrea Fora “Carcere e lavoro: il ruolo della cooperazione sociale”. Bollettino Adapt.it;
[5] Giulio Pasi “Le cooperative che lavorano in carcere possono essere un caso studio per la finanza sociale?”. Sito www.secondowelfare.it;
[6] Il noto giuslavorista e docente universitario così si è espresso dopo aver incontrato con 25 studenti i detenuti del carcere di Padova e le coop che lavorano negli Istituti di pena – tratto dal sito www.vita.it;
[7] Erving Goffman, sociologo canadese autore tra l’altro di “Asylums” [Edizioni Einaudi 2003] dove viene trattato il problema delle istituzioni sociali in generale, e degli ospedali psichiatrici in particolare, con lo scopo precipuo di mettere a fuoco il mondo dell'internato e gli effetti negativi della reclusione. Non solo con riguardo alla salute fisica ma anche e soprattutto in relazione agli aspetti psicologici, affettivi, sociali e personali, molto importanti nella vita di ciascuno di noi;
[8] Rio Terà (letteralmente in italiano canale interrato) è un elemento peculiare della viabilità di Venezia. Si tratta di una strada pedonale ricavata per interramento di un canale preesistente;
[9] In effetti il carcere è la parte invisibile della nostra quotidianità, rappresenta la barriera invalicabile posta tra la “società perbene” e quella “di chi delinque”. L’opinione pubblica non riesce a discostarsi dall’idea di carcere come spazio fisico in cui allontanare e punire i soggetti devianti. Accanto a questo ovviamente bisogna però interrogarsi sugli strumenti da porre in essere per recuperare questi soggetti in modo permanente alla società civile una volta espiata la pena;
[10] Raffaele Levorato fondatore ed anima della cooperativa per oltre vent’anni fino alla sua morte avvenuta il 30 novembre dell’anno scorso all’età di 82 anni. Tre anni fa ha ricevuto il riconoscimento di “Giusto tra le nazioni” in memoria dei suoi genitori Stella e Giulio i quali, tra il 1943 e il '45, nella loro casa nascosero due famiglie ebraiche, salvandole dalle deportazioni naziste. Le sue memorie sono ancora vive nel libro “La Grazia del Fare”, pubblicato nel 2014 in occasione dei venti anni della cooperativa.
Le foto pubblicate sono state fornite dalla Cooperativa Rio Terà dei Pensieri alcune con Credits Umberto Ferro 2012
[*] Dorina Cocca e Tiziano Argazzi in servizio presso la sede di Rovigo dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Ferrara Rovigo.
Le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero personale degli Autori e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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