Massimo D’Antona e la Sua riforma della Pubblica Amministrazione

di Dario Messineo [*]

1. Prefazione; 2. La riforma della pubblica amministrazione: dalla legge al contratto; 3. La giurisdizione del giudice del lavoro; 4. Il contratto collettivo nel pubblico impiego; 5. Punti critici nel rapporto tra pubblico e privato; 6. Il ruolo della dirigenza; 7. La riforma dello sciopero nei servizi pubblici essenziali; 8. Conclusioni.

Messineo 2 11. Prefazione

Il professor Massimo D’Antona, seppur oggetto di numerose citazioni dei mass media per l’orrendo ed efferato omicidio, ingiustificato ed ingiustificabile, perpetrato da ignobili assassini, non è ancora sufficientemente conosciuto dai molti per la mole gigantesca di scritti di alto valore scientifico prodotta nel corso della sua vita, che costituiscono, senza ombra di dubbio una pietra miliare del pensiero giuslavorista italiano.

Il presente scritto non può che disvelare uno scorcio del ponderoso lavoro svolto da D’Antona e vuole raccontare alcune riflessioni dell’autore, ma non può che risultare parziale e lacunoso rispetto all’innumerevole quantità di argomenti trattati, e per questo me ne scuso anticipatamente.
Nell’ambito dello studio sulle problematiche giuslavoristiche assumono particolare rilievo nel campo scientifico gli scritti in tema di pubblico impiego, anche per la partecipazione convinta di D’Antona alla grande riforma della “contrattualizzazione” del pubblico impiego, in contrapposizione alla terminologia utilizzata di “privatizzazione”[1].

D’Antona riteneva che il giurista non fosse chiamato ad erigere “grattacieli o cattedrali”, bensì “ponti”.

Ma ci sono “ponti superbi che conducono nel deserto, o che crollano perché il progettista era un buon politico ma un cattivo ingegnere, e ponti di discutibile fattura sui quali tutti finiscono per passare perché fanno risparmiare strada”.

La consapevolezza di intraprendere un’impresa difficile e non priva di rischi (anche se di certo non poteva mai immaginare di sacrificare la propria vita per i propri pensieri!) lo portava anche a polemizzare con i tanti “gattopardi” che costituivano i poteri forti del dialogo. Si trattava, come egli ebbe più volte a precisare: dei giudici del Tar, del Consiglio di Stato, la Corte dei Conti, l’alta burocrazia dello Stato, che indicava come i meno disposti a mettere in discussione le proprie certezze.

La strategia di rinnovamento e di riforma di D’Antona del pubblico impiego, assai articolata e complessa, riguardava, a trecentosessanta gradi, alcuni dei settori cruciali della contrattazione collettiva, la sua efficacia soggettiva, l’organizzazione dei pubblici uffici contenuta nell’art. 97 Cost., la responsabilità della dirigenza amministrativa, la giurisdizione esclusiva del giudice del lavoro, la rappresentanza sindacale, lo sciopero nei servizi pubblici essenziali.

In particolare, il noto giuslavorista assunse un ruolo fondamentale nell’emanazione dei decreti attuativi della legge delega 59/1997, e, più specificatamente, dei d.lgs. 396/1997, 80/1998, e 387/1998.

In realtà, occorrerebbe oggi chiedersi cosa avrebbe detto D’Antona dopo l’approvazione del d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, attuativo della legge n. 15 del 2009. Cioè se il rapporto di lavoro dei dipendenti di cui all’art 2 c. 2 del d.lgs. n°165/01 sarebbe stato definito ancora di tipo “contrattualizzato”, dizione questa finalizzata ad evidenziare l’esistenza di una fonte di regolamentazione prevalentemente di tipo pattizio ed evincibile dalle norme della contrattazione collettiva e dai principi del codice civile. La riforma normativa, difatti, soprattutto in considerazione del nuovo sistema di contrattazione collettiva previsto nel nuovo titolo III° del d.lgs. n° 165/2001, sembra tracciare una “nuova” ripartizione tra materie riservate alla legge statale e alla contrattazione collettiva, prevedendo che alcuni istituti, fino ad oggi attribuiti, con riserva di legge, alla regolazione contrattata tra Aran e organizzazioni sindacali, debbano trovare definizione esclusiva, in mancanza di espressa delega alla contrattazione, nella norma di legge statale. A tal proposito l’art. 40 del d.lgs. n° 165 del 2001 così come riformulato, esplicitamente esclude dalla contrattazione collettiva, tra le altre, le materie relative alle sanzioni disciplinari, la valutazione delle prestazioni ai fini del trattamento economico accessorio, la mobilità, le progressioni economiche e (quanto alla dirigenza) la materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali. In realtà, con questa novella normativa pare si sia consumata una drammatica contrazione del ruolo del contratto collettivo. Questo scritto, attuale anche in questo periodo di riforme epocali, vuole, dunque, far emergere il pensiero di D’Antona evidenziando la sua scelta di campo, volta a alla tutela delle regole del lavoro e la sua capacità di trasformare le opposte posizioni in norme giuridiche di eccelsa qualità.

Messineo 4 12. La riforma della pubblica amministrazione: dalla legge al contratto

La riforma della pubblica amministrazione attraversa un momento cruciale della contrattualizzazione nel periodo in cui Massimo D’Antona intensifica il proprio impegno giuslavoristico, in quanto si compie la cosiddetta delegificazione e la semplificazione dei procedimenti, la modifica della struttura dei bilanci e delle regole nonché delle tecniche della gestione finanziaria e contabile, la separazione fra compiti di indirizzo politico-amministrativo.

Il tema principale è quello della contrattazione collettiva, e gli obiettivi sono quelli del superamento della specialità del pubblico impiego, attraverso il riscorso ad una contrattazione collettiva privatistica sulla disciplina del rapporto di lavoro (con esclusione delle materie riservate ad atti normativi o amministrativi), nonché l’affidamento del compito ad un’Agenzia tecnica tramite la sottrazione della contrattazione collettiva ad una gestione immediatamente politica. Altro obiettivo è quello del mantenimento del controllo della spesa per il personale e del superamento di elementi di differenziazione e privilegio rispetto al settore privato nella disciplina delle garanzie e delle prerogative sindacali. Ulteriore scopo è quello della fissazione di criteri idonei ad accertare la rappresentatività dei sindacati. Le problematiche evidenziate da D’Antona preannunciano temi di rilevante interesse, che si ripropongono anche nei tempi moderni, e cioè la regolazione del rapporto di lavoro, la pubblica regolamentazione della rappresentanza negoziale della pubblica amministrazione, oppure, in ultimo, ma non per ultimo, il passaggio della giurisdizione del TAR al giudice ordinario per le controversie instaurate dai pubblici dipendenti.

La regolamentazione del rapporto di lavoro doveva escludere il potere unilaterale della legge a favore delle regole contrattuali, e conseguentemente privatizzare il potere direttivo, organizzativo e disciplinare della dirigenza. Gli unici valori “pubblicistici” rimasti dovevano concretarsi nell’imparzialità e nell’indipendenza della funzione che potevano dar vita a codici di comportamento relativi all’etica del funzionario pubblico.

Messineo 4 3Invero, corre l’obbligo di precisare, che questo potere di natura privatistica nella legge 15/2009 risulta considerevolmente attenuato, come si evince da alcune previsioni distoniche alla ratio ispiratrice della contrattualizzazione del pubblico impiego, quali la previsione legislativa unilaterale delle sanzioni disciplinari, la modifica di alcune regole privatistiche stabilite dall’art. 7 della l. 300/1970 (ad esempio in tema di affissione del codice disciplinare[2] che per il settore privato deve essere obbligatoriamente pubblicato a pena di nullità della sanzione[3]).
In proposito si registra, a margine, nei tempi moderni l’alto tasso di “rilegificazione” su una materia tradizionalmente affidata alla contrattazione sindacale anche dall’art. 2106 c.c., pure esso richiamato dall’art. 55 del d.lgs. 165/2001[4].

Anche la problematica dell’Aran risultava di forte attualità, al punto che D’Antona riteneva che il Governo dovesse giocare una partita decisiva sul tavolo della contrattazione, determinando, come effetto, un irrigidimento della distinzione tra comparti e una drastica limitazione degli spazi della contrattazione collettiva decentrata.

In relazione, poi, al rapporto legge e contratto D’Antona sosteneva che la cornice legale del d.lgs. 396/1997, che definiva i soggetti e le procedure dei contratti collettivi pubblici, aveva funzione conformativa, e non permissiva, della contrattazione collettiva “e come tale doveva essere sempre interpretata”. In questo senso la contrattazione collettiva delle pubbliche amministrazioni doveva essere espressione di libertà negoziale e non di un potere normativo. L’autonomia organizzativa delle pubbliche amministrazioni doveva esercitarsi anche attraverso la capacità di diritto privato, senza alcuna coincidenza tra capacità di diritto privato e contrattazione collettiva. Detta capacità doveva comprendere anche i poteri di gestione che competono ai dirigenti, attraverso l’uso di atti unilaterali e definitivi. La contrattualizzazione dei rapporti di lavoro e l’unificazione normativa dei poteri datoriali sotto il regime del diritto privato avrebbero dovuto comportare un assetto diametralmente opposto: la pubblica amministrazione esercita la capacità di diritto privato sia quando determina unilateralmente, mediante i poteri di gestione dei dirigenti, il funzionamento degli apparati, sia quando si vincola attraverso contratti collettivi, o partecipando alla formazione della volontà negoziale.

Messineo 4 2La negoziazione, dunque, e la sottoscrizione di contratti collettivi, rappresentano, esattamente come avviene per i datori di lavoro privati, un mezzo per esercitare l’autonomia organizzativa attraverso la capacità di diritto privato. D’Antona, difatti, credeva fermamente nella fonte pattizia, tanto da considerarla insostituibile in quanto unica via per introdurre nell’assetto normativo dei rapporti di lavoro quelle modificazioni, richieste dall’innovazione organizzativa, che non possono essere determinate senza il consenso dell’altra parte, perché formano il contenuto obbligatorio dei contratti individuali (ad esempio, modificazioni della composizione delle retribuzioni o dell’inquadramento professionale). Attraverso i contratti collettivi si ottiene il consenso preventivo dei sindacati su quelle innovazioni organizzative che, rientrando nel potere gestionale dell’amministrazione, possono essere attuate unilateralmente, ma che, se non condivise dai lavoratori interessati, possono essere anche contrastate attraverso il conflitto sindacale. In questo secondo senso, la contrattazione collettiva viene considerata uno strumento delicato da maneggiare ma, sicuramente, efficiente per la gestione consensuale dei “riflessi collettivi” nei processi di innovazione organizzativa.
In realtà, oggi, la legge 15/2009, modificando l’art. 2 c. 2 del d.lgs. 165/2001, ha trasformato il rapporto tra legge e contratto collettivo, nel senso che solo nel caso in cui sia espressamente previsto dalla legge eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi. La previgente disciplina individuava, invece, il contratto come fonte inderogabile proprio al fine di evitare vantaggi discriminatori per alcune categorie di lavoratori pubblici. Il rischio enorme odierno è proprio quello del ritorno alle “leggine” che favoriscano questa o quella categoria di soggetti non più accomunati dalla supremazia della contrattazione, nonché del definitivo superamento del regime pattizio che aveva ispirato la stagione della cd. “privatizzazione”.

Continua nel prossimo numero… Quadrato Verde

Note

[1] Intesa nel senso dell’art. 2, comma 2, del d.lgs. 29/1993 come riconduzione dei rapporti di impiego con le pubbliche amministrazioni al generale fondamento contrattuale dei rapporti di lavoro. V. La neolingua del pubblico impiego riformato, in Lavoro e diritto, X, 2, 1996, pp. 237-251.

[2] In tal senso, l’art. 69, comma 2, della l. 15/2009 recita testualmente: “La pubblicazione sul sito istituzionale dell'amministrazione del codice disciplinare, recante l'indicazione delle predette infrazioni e relative sanzioni, equivale a tutti gli effetti alla sua affissione all'ingresso della sede di lavoro”.

[3] L’affissione è indispensabile per assicurare il diritto di difesa del lavoratore e spetta al datore provare l’avvenuta ed ininterrotta affissione. In questo senso, tra le altre, Cass. 19 febbraio 1987, n. 1800.

[4] Si veda sul punto, C. Russo e G. Faverin, Il lavoro pubblico dopo il d.lgs. n. 150 del 27 ottobre 2009, Union tool-box, pp.60 e 82.

[*] L’Avv. Dario Messineo è Dottore di ricerca in diritto del lavoro e previdenza sociale presso l’Università di Pavia, componente del Centro studi attività ispettiva presso la Direzione generale attività ispettiva del Ministero del lavoro, funzionario coordinatore amministrativo, responsabile del Servizio politiche del lavoro e U.O. affari legali e contenzioso e responsabile dell’U.O. conflitti di lavoro della Direzione provinciale del lavoro di Cuneo.
Ogni considerazione è frutto esclusivo del proprio libero pensiero e non impegna in alcun modo l’amministrazione di appartenenza ai sensi della circolare del Ministero del lavoro del 18 marzo 2004.


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