Anno IX - N° 43-44

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Gennaio/Aprile 2021

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Anno IX - N° 43-44

Gennaio/Aprile 2021

La discussa fallibilità delle società in house

Tra elaborazione giurisprudenziale e previsioni normative


di Ida Giannetti [*]

Ida Giannetti 42

L’affidamento in house rappresenta un modello organizzatorio per mezzo del quale la Pubblica Amministrazione si avvale, al fine di reperire determinati beni e servizi ovvero per erogare alla collettività prestazioni di pubblico servizio, di un ente strumentale, di soggetti cioè sottoposti al suo penetrante controllo. Il modello dell’in house si presenta, quindi, quale alternativa all’applicazione della disciplina comunitaria in materia di appalti e servizi pubblici. L’assenza di effettiva terzietà del soggetto affidatario rispetto al soggetto affidante, nonché, la possibilità di considerare il primo quale parte integrante e prolungamento organizzativo del secondo, valgono ad escludere in radice l’applicazione della disciplina comunitaria in materia di appalti e servizi pubblici. Invero, l’istituto dell’in house providing [1] è stato elaborato dalla giurisprudenza comunitaria quale figura da contrapporre alle altre due figure contrattuali attraverso le quali si realizza l’opposto dell’in house la cd. esternalizzazione e cioè: il contratto d’appalto e il contratto di concessione [2]. È noto che le due forme contrattuali presentano tuttavia un dato in comune che presuppongono la diversità non soltanto formale ma anche sostanziale fra i contraenti. Pertanto, ciò esclude a priori l’affidamento diretto. Viceversa, le regole concorrenziali per la scelta del contraente non trovano applicazione nel caso dell’affidamento in house trovando applicazione in tal caso il cd. principio di autoorganizzazione, pure riconosciuto in ambito europeo in capo alla P.A.[3]. Ebbene, per effetto di tale principio l’amministrazione, anziché esternalizzare la realizzazione di ciò di cui ha bisogno, può attendervi in proprio, per esempio attraverso un ufficio, un servizio tecnico, una struttura organizzativa inserita all’interno dell’ente stesso. Il vero problema dell’in house nasce laddove la PA affidi la produzione di beni o di servizi di cui ha bisogno non ad un ufficio e dipartimento interno, bensì ad un soggetto societario formalmente distinto dall’ente pubblico, ciò nonostante controllato dall’ente in maniera così penetrante da potersi dire, tenuto conto della sussistenza o meno di un’autonomia decisionale da parte del soggetto societario, che si tratti di un tutt’uno, una parte integrante, una proiezione organizzativa dell’ente. Si pone l’interrogativo quindi dell’affidabilità diretta e senza gara di prestazioni a soggetti societari diversi dall’ente pubblico affidante.

Giannetti 43 44 1È con la sentenza Teckal del 18 novembre 1999, causa C-107/98 (Comune di Vaiano)[4] che la Corte di Giustizia contribuisce in modo significativo a delineare gli esatti contorni dell’istituto dell’in house providing escludendo l’avvio di una procedura ad evidenza pubblica per la scelta del contraente allorquando: a) l’amministrazione aggiudicatrice esercita un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, (elemento strutturale del rapporto in house); b) il soggetto aggiudicatario svolge la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di appartenenza (elemento funzionale del rapporto in house). Ricorrendo le suindicate condizioni, secondo la Corte di Giustizia, difetta una situazione di alterità tra i soggetti coinvolti, registrandosi solo un’ipotesi di delegazione interorganica. Sulla scorta degli indici elaborati dalla Corte di Giustizia, a partire dalla citata sentenza Teckal, l’istituto dell’in house providing è stato recepito dall’art. 12 della direttiva 2014/24/UE, per i settori ordinari, dall’art.17 della direttiva 2014/23/UE, per le concessioni, e dall’art. 28 della direttiva 2014/25/UE per i settori speciali. Successivamente, poi l’istituto delineato dalle direttive europee, è stato recepito nell’ordinamento interno dal Codice dei contratti pubblici e cioè con d.lgs. n. 50 del 2016 più volte rivisitato e dal Testo Unico sulle società a partecipazione pubblica. Più precisamente l’art. 193 del Codice dei Contratti Pubblici e l’art. 16 TUSPP, identificano le società in house quali organismi strumentali degli enti pubblici; questi ultimi, a seguito di un’attenta valutazione di congruità e di convenienza economico-finanziaria[5], possono affidare l’esercizio di servizi di interesse pubblico alle società in house.

Il legislatore del testo unico opera una scelta di campo precisa, infatti, l’art.14 del d.lgs. 175/2016, in ossequio ai principi direttivi contenuti nella legge delega[6], assoggetta alle procedure concorsuali le società a partecipazione pubblica. Orbene, l’art. 2 del TUSPP, rubricato “definizioni” , distingue le società a partecipazione pubblica dalle società in house; le prime sono certamente le società a controllo pubblico, nonché le altre società partecipate direttamente da amministrazioni pubbliche o da società a controllo pubblico (art. 2 co, 1, lett. n,), mentre le seconde sono «le società sulle quali un’amministrazione esercita il controllo analogo o più amministrazioni esercitano il controllo analogo congiunto» (art. 2, comma 1, lett. o). Non è escluso che possa sorgere il dubbio circa l’applicabilità o meno alle società in house delle norme sul fallimento, sul concordato preventivo e sull’amministrazione straordinaria; tuttavia così ragionando sarebbe vanificato l’intento chiarificatore del legislatore atteso che negli ultimi anni la querelle circa la fallibilità o meno si era concentrato proprio su di esse. La dottrina attenta al fenomeno delle società pubbliche ha messo in rilievo che tra “società a partecipazione pubblica” e “società in house” sussista, con riferimento all’intero T.U., un rapporto di genus a species, in forza del quale le seconde rappresentano una peculiare categoria di società a partecipazione pubblica[7]. Ne consegue che le previsioni contenute nel T.U. riguardanti le società a partecipazione pubblica devono intendersi riferite, salvo diversa disposizione, anche alle società in house. Si può, dunque, affermare che nonostante la nozione di società in house risulti stranamente assente nell’art. 14 del d.lgs. 175/2016, che disciplina la crisi d’impresa delle società a partecipazione pubblica, il legislatore del T.U. abbia, in modo definitivo ed in senso affermativo equiparato le società in house a tutte le altre forme di società ritenendo che le società a partecipazione pubblica devono correre i medesimi rischi imprenditoriali delle società normali[8]. È questo l’orientamento espresso anche dalla Suprema Corte favorevole all’applicazione della legge fallimentare anche per le società pubbliche affermato con la sent. 7 febbraio 2017, n. 3196 [9], della sez. I, orientamento già inaugurato con la sentenza del 10 gennaio n. 58 del 1979 e rafforzato con la decisione del 27 settembre n. 22209 del 2013 [10].

Giannetti 43 44 2La Corte di Cassazione ha evidenziato che la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità[11]. Tuttavia, la Cassazione già in una sentenza del 2012[12] aveva fissato, al riguardo, un importante principio e cioè che le società a partecipazione pubblica costituite nelle forma previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un’attività commerciale sono assoggettabili al fallimento, indipendentemente dall’effettivo esercizio di una siffatta attività, in quanto esse acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione, non anche dall’inizio del concreto esercizio dell’attività d’impresa, al contrario di quanto avviene per l’imprenditore commerciale individuale. Quasi ad evitare che gli enti locali eludano le procedure concorsuali per le società da essi partecipate, il comma 5 del medesimo art. 14 prevede che le P.A. socie non possano sottoscrivere aumenti di capitale, effettuare trasferimenti straordinari e aperture di credito, rilasciare garanzie a favore delle società partecipate, nel caso di società che abbiano fatto registrare per tre esercizi consecutivi perdite di esercizio ovvero che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento delle perdite, anche infrannuali. Pertanto, la fallibilità delle società in house rischiava di rimanere pura ipotesi anche alla luce del disposto dell’art.21, co.1, del T.U. circa la possibilità per gli enti pubblici controllanti di accantonare una quota proporzionale alla perdita conseguita. Il medesimo articolo 21 stabiliva che “nel caso in cui i soggetti partecipati ripianino in tutto o in parte le perdite conseguite negli esercizi precedenti o l’ente partecipante dismetta la partecipazione o ripiani le perdite o il soggetto partecipato sia posto in liquidazione, l’importo accantonato viene reso disponibile agli enti partecipanti in misura corrispondente e proporzionale alla quota di partecipazione.” A tal proposito il Consiglio di Stato, ha osservato che la previsione in parola, nei casi in cui l’ente locale non intendesse alienare la partecipazione ovvero porre in liquidazione la società, obbligava l’ente controllante a ripianare le perdite, negando in questo modo in “radice la possibilità per le società in house di fallire”[13].

Il Consiglio di Stato ha, dunque, raccomandato al Governo di chiarire la portata della disposizione di cui all’art. 21, d.lgs. 175/2016, al fine di stabilire che dall’accantonamento di cui al comma 1 non deriva necessariamente un obbligo di ripiano delle perdite conseguite dalla società in house, lasciando, pertanto, la PA controllante libera di accettare la fallibilità della società stessa. La raccomandazione di cui al parere del Consiglio di Stato è stata accolta nel d.lgs. n. 100/2017, il cui art. 14 ha introdotto il co. 3 bis nell’art. 21, d. lgs. n. 175/2016. La novella prevede ora che “le pubbliche amministrazioni partecipanti possono procedere al ripiano delle perdite subite dalla società partecipata con le somme accantonate ai sensi del comma 1, nei limiti della quota di partecipazione” [14]. Infine, il co. 6 dell’art. 14 detta una disposizione valevole anche per la fallibilità delle società in house[15] (come definita dall’art. 16), «nei cinque anni successivi alla dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti, le pubbliche amministrazioni controllanti non possono costituire nuove società, né acquisire o mantenere partecipazioni in società, qualora le stesse gestiscano i medesimi servizi di quella dichiarata fallita». L’esperienza degli ultimi anni ha mostrato da parte delle amministrazioni pubbliche, una certa indifferenza rispetto alle dichiarazioni di fallimento delle società partecipate, ed in particolare delle società in house. Seconda autorevole dottrina[16], la norma è stata introdotta proprio per ovviare alla prassi per cui le PP.AA. procedevano, dopo il fallimento di società in house, a ricostituire altra società, in favore della quale disponeva l’affidamento diretto degli stessi servizi esercitati dalla prima, con riassorbimento del personale della società fallita nonché delle attrezzature e mezzi già di titolarità della prima. Poteva accadere, quindi, che il fallimento della società in house diventava per le amministrazioni pubbliche controllanti un mezzo per poter proseguire la stessa attività con una diversa “società clone” [17], liberandosi dal peso dei debiti pregressi[18]. Da un’interpretazione letterale della disposizione, si evince che la norma collega l’insorgere del divieto alla dichiarazione di fallimento della società a controllo pubblico che sia titolare di affidamenti diretti, è da domandarsi quindi, se esso scatti anche in caso di procedure concorsuali diverse quali il concordato preventivo e l’amministrazione straordinaria. Tenuto conto della “ratio” del divieto e cioè quella di evitare che le amministrazioni pubbliche possano “abusare” dello strumento societario in danno dei creditori della società controllata, sembrerebbe giustificata un’applicazione estensiva del divieto[19].

Da quanto fin qui argomentato, si può dedurre che con il co. 6 dell’art. 14, il legislatore del T.U., vuole introdurre una sanzione per la pubblica amministrazione, limitandola nella sua capacità d’azione a causa del fatto che il fallimento di una società da essa controllata abbia arrecato danni ai creditori sociali.

L’estensione del regime concorsuale di diritto comune alle società a partecipazione pubblica, comprese le società in house può rappresentare un deterrente finalizzato ad incentivare e responsabilizzare i soci pubblici, soprattutto nei casi in cui abbiano il controllo totale della partecipata, verso una gestione più efficiente e prudente. Va ugualmente accolta con favore la previsione di cui all’art. 6, comma 2, del TUSPP, di misure per la prevenzione e gestione della crisi con l’espresso obbligo di predisporre «specifici programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale» basandosi sulle best practices internazionali che hanno ispirato anche la disciplina delle società quotate e delle società vigilate; vanno, viceversa, debellate le pratiche rappresentate da interventi sporadici di “soccorso finanziario” che avevano avuto come risultato il rinvio sine die del problema con continuo deflusso di fondi dalle casse pubbliche che si è rivelato improduttivo. Quindi, pur accogliendo con favore la disciplina innovativa risultante dall’entrata in vigore del d.lgs. 19 agosto 2016 n. 175, non possono essere sottaciuti dei punti dolenti che la nuova normativa presenta, primo fra tutti quello del limiti genetici connotanti le società pubbliche, in specie quelle deputate all’erogazione di un servizio essenziale, di cui il legislatore pare non abbia tenuto sufficientemente conto nell’assoggettarle sic et simpliciter ad un regime iure privatorum.

Giannetti 43 44 3Invero, molte di esse, svolgono servizi in settori nevralgici occupandosi della fornitura di prestazioni inerenti aspetti fondamentali della vita collettiva (i cd. servizi pubblici essenziali) ed una loro sospensione, anche temporanea, potrebbe arrecare danni considerevoli agli utenti. La loro importanza è tale che, alcuni di questi vengono svolti per la loro essenzialità ma non per la loro remuneratività, anzi, sovente si verificano situazioni contrarie al principio di economicità. Orbene, assoggettando tutte le partecipate, indistintamente, al regime fallimentare di diritto comune, non può non far riflettere circa la comparazione tra due interessi altrettanti importanti ma contrapposti: da un lato quello generale della collettività alla continuità aziendale sia pure attraverso l’esercizio provvisorio dell’attività della società anche se dichiarata fallita, e dall’altro l’interesse dei creditori a non veder aggravate le loro aspettative. Chiaramente il giudizio di bilanciamento tende a favore dell’interesse creditorum [20], anche per il principio della tutela del legittimo affidamento dei terzi che entrano in rapporto con tali società.

Altro punto dolente è il pericolo di un ulteriore restringimento nel garantire, una continua fornitura dei servizi ancorché ritenuti essenziali, non potendolo assicurare neppure attraverso altre partecipate atteso il disposto congiunto dei commi 1 e 6 dell’art. 14 del TUSPP con una lesione dei diritti fondamentali. Invero, la scelta del legislatore è stata quella di lasciare immutata la disciplina di diritto comune, senza attribuire alcun rilievo ai peculiari interessi coinvolti nella crisi della società a partecipazione pubblica. Conseguentemente, per le società a partecipazione pubblica, si applicheranno le medesime regole previste per la procedura fallimentare delle società totalmente private. Il pericolo, tutt’altro che infondato, è che “la cessazione dell’attività d’impresa, conseguenza del fallimento della società in mano pubblica che svolge un servizio di pubblico interesse, pregiudicano l’interesse pubblico alla prosecuzione continuativa e regolare del servizio pubblico e possono determinare gravi pericoli per la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico o la sanità” [21]. È pur vero che la giurisprudenza di legittimità[22] ha ritenuto di poter rimediare all’effetto dell’interruzione dell’attività d’impresa e dello svolgimento del pubblico servizio, attraverso un uso “alternativo” dell’istituto dell’esercizio provvisorio dell’impresa ex art. 104 l. f.. Ebbene, i giudici di legittimità hanno ritenuto che «nel valutare il danno grave, in presenza del quale autorizzare l’esercizio provvisorio, il tribunale può tenere conto non solo dell’interesse del ceto creditorio, ma anche della generalità dei terzi, fra i quali possono essere annoverati i cittadini che usufruiscono del servizio erogato dall’impresa fallita». A tale apprezzabile orientamento si può obiettare che la nozione di “danno grave” può comprendere al suo interno l’interesse della collettività all’espletamento del servizio, rimane comunque il limite esterno dell’interesse dei creditori, potendosi, infatti, disporre l’esercizio provvisorio solo «purché non arrechi pregiudizio ai creditori» (art. 104 l.fall.).

Giannetti 43 44 4Altra criticità è stata ravvisata nella constatazione che, per effetto della sentenza di fallimento, si determina l’attribuzione all’autorità giudiziaria del potere di decidere in ordine all’eventuale prosecuzione dell’attività d’impresa da parte della società nonché in ordine al possibile affidamento a terzi, attraverso lo strumento dell’affitto d’azienda, della stessa gestione del servizio pubblico essenziale, determinandosi in tal modo seri dubbi di compatibilità con i principi costituzionali che regolano l’agire amministrativo e, in particolare, con la riserva in favore degli enti pubblici della titolarità delle funzioni amministrative ai sensi dell’art. 118 Cost.. In tal modo il fallimento delle società a partecipazione pubblica diventerebbe strumento per caricare sull’autorità giudiziaria scelte che competerebbero all’autorità amministrativa.

La scelta di sottoporre indiscriminatamente tutte le società pubbliche alla procedura fallimentare, certamente risponde all’esigenza di eliminare dal mercato le imprese insolventi e all’esigenza della par condicio creditorum [23] ma comporterà inevitabilmente problemi applicativi.

Forse il legislatore avrebbe potuto pensare alla sottoposizione, almeno per le società in house, ad una procedura concorsuale ad hoc, tale da incentivare l’efficienza senza mettere a repentaglio l’erogazione minima dei servizi pubblici essenziali. Quadrato Rosso

Note

[1] Il modello di affidamento diretto dei servizi di interesse generale a società a totale partecipazione pubblica è apparso per la prima volta nel Libro Bianco sugli appalti pubblici del 1998.

[2] Come è noto con il contratto di appalto la P.A. affida al terzo la produzione di beni o la prestazione di servizi necessari perché l’amministrazione possa svolgere le sue funzioni istituzionali, e lo fa dietro corrispettivo di un prezzo. Con la concessione, invece, l’amministrazione affida l’espletamento di attività al concessionario, il quale assume il conseguente rischio economico. Il concessionario è remunerato almeno in parte con i proventi rinvenienti dalla gestione dell’opera o del servizio.

[3] Il principio della libera organizzazione delle amministrazioni pubbliche è ora enunciato in termini generali dall’art. 2 della Direttiva 2014/23/UE (cd. Direttiva concessioni).

[4] Cfr. sent. Teckal in nota n. 26, cap. I, par. 1.

[5] L’art. 6 del d.lgs. n. 100/2017 ha novellato l’art. 5 del TUSPP, fa cadere l’obbligo per la PA di motivazione analitica per fare ricorso allo strumento societario purtuttavia, rimane ferma “la necessità per gli enti locali che intendano costituire o partecipare ad una società pubblica, di motivare la scelta in relazione al perseguimento delle finalità dell’ente pubblico, evidenziando le ragioni che giustificano l’opzione prescelta, anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria, nonché di gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato. Inoltre, resta fermo che la motivazione dell’atto deve dare conto della compatibilità della scelta con i principi di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa”.

[6] Il riferimento è all’art. 18, comma 1 della legge delega n. 124/2015 (cd. Riforma Madia) che ha individuato i principi cui i decreti legislativi dovevano attenersi: i) individuazione della disciplina applicabile alle società a partecipazione pubblica, anche in base al principio di proporzionalità delle deroghe rispetto alla disciplina privatistica, ivi compresa quella in materia di organizzazione e crisi d’impresa (lett a); ii) possibilità di piani di rientro per le società con bilanci in disavanzo con eventuale commissariamento (lett. i).

[7] V. D’Attorre G., La crisi d’impresa nelle società a partecipazione pubblica , in Fimmanò F. – Catricalà A. (a cura di), op.cit., p.675.

[8] V. Cass. Civ., sent. dell’11 febbraio 2014 n. 3037 per il Supremo Consesso, la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali comporta, “anche che queste assumano i rischi connessi all’insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto, attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza.”

[9] Per un commento alla cit. sentenza, v. Screpanti S., “Crisi e insolvenza delle società pubbliche” in Giornale di diritto amministrativo 5/2017 nonché Sciarra E. “Le società pubbliche e le crisi d’impresa: caratteri, limiti e incertezze di una riforma provvisoria” in Rivista di diritto pubblico italiano, comparato, europeo.

[10] La sent. Cass., SU, n. 26283/2013, invece, in virtù del carattere settoriale di tale pronuncia, che riguarda esclusivamente la giurisdizione della Corte dei Conti sull’azione di responsabilità erariale nei confronti degli amministratori e dei dipendenti delle società in house, non può essere richiamata per affermare l’esenzione dal fallimento delle società pubbliche. V. anche Cass., SU, 25 novembre 2013, n. 26283 con nota di Fimmanò, La giurisdizione sulle “società in house providing” in Società, 2014, p.55 ss.

[11] Per un commento alla sent. Cass. Civ., sez. I, 7 febbraio 2017 n. 3196 si rinvia a Screpanti S., Crisi e insolvenza delle società pubbliche, in Giornale di diritto amministrativo 5/2017 nonché Sciarra E., “Le Società pubbliche e le crisi d’impresa: caratteri, limiti e incertezze di una riforma provvisoria”, in Riv. di dir. pubb. italiano, comparato, europeo, 2018.

Giannetti 43 44 5[12] Cfr. Cass., 6 dicembre 2012, n. 21991, in Fallimento, 2013, p.1273 con nota di Balestra, Concordato di società a partecipazione pubblica e profili di inammissibilità della domanda.

[13] V. Cons. Stato, Adunanza della Commissione speciale dell’8 marzo 2017, Numero Affare 00335/2017, avente ad oggetto “Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per la semplificazione e la pubblica amministrazione- Schema di decreto legislativo concernente “Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 19 agosto 2016 n. 175, recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica”.

[14] Il testo normativo (art. 21 co. 3bis, del d.lgs.175/2016), si riferisce ai soli enti pubblici locali “partecipanti” e alle società “partecipate”, locuzione che, in forza di una integrazione logico-sistematica, deve considerarsi applicabile anche alle società in house, organismi “partecipati” al 100% dalle PP.AA. Una interpretazione diversa o contraria a questa prospettata comporterebbe l’annullamento degli effetti che il d.lgs. 175/2016 ha inteso produrre ossia la fallibilità delle società in house.

[15] V. Stanghellini L., “Crisi d’impresa in società a partecipazione pubblica” , in “Le Società a partecipazione pubblica”, Editore Zanichelli, 2018, p. 34. L’autore in un commento al co.6 dell’art. 21 circa i destinatari del divieto ritiene che: laddove la società sia partecipata da più soci pubblici, il divieto sembrerebbe colpirli tutti indistintamente, quale che sia la loro concreta partecipazione (in ipotesi anche minima) e la loro effettiva influenza sulle scelte gestionali della fallita.

[16] D’Attorre G., La crisi d’impresa nelle società a partecipazione pubblica , a cura di Fimmanò F. - Catricalà A., 2016, p. 684-685.

[17] L’espressione è di Fimmanò F. “Insolvenza delle società pubbliche” in Le Società Pubbliche, (a cura di) Fimmanò F. Catricalà, 2016, 716, II Tomo.

[18] V. D’Attorre G., p. 684, op. cit. il quale sostiene che un simile modus operandi comporta “un evidente pregiudizio per i creditori sociali e lasciando agli organi della procedura la sola, complessa ed incerta strada delle azioni di responsabilità ex art. 2932 c.c. (per concorso con gli amministratori) e art. 2497 c.c. per chiamare le amministrazioni pubbliche controllanti a risarcire l’eventuale pregiudizio cagionato al patrimonio sociale.”

[19] È in re ipsa che, accogliendo tale impostazione, non solo il fallimento, ma anche l’apertura della procedura di concordato preventivo, sia di tipo liquidatorio sia con continuità aziendale o addirittura della procedura di amministrazione straordinaria a carico di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti, determina che le pubbliche amministrazioni controllanti non potranno costituire nuove società, né acquisire o mantenere partecipazioni in società che gestiscano i medesimi servizi di quella soggetta a procedura concorsuale. In tal senso, D’Attorre G., op cit., p. 685, Contra, Stanghellini L. op cit., p. 354 e ss., che nutre qualche dubbio su un’estensione generalizzata del divieto; nonché Fimmanò F., op. ult cit., l’autore ritiene che il co. 6 dell’art.14 t. u. collega espressamente questo limite al fallimento e che quindi va escluso per le altre procedure concorsuali, in particolare, concordato preventivo ed amministrazione straordinaria.

[20] Cfr. Screpanti S. “Crisi e insolvenza delle società pubbliche” , in Giorn. Di dir. Amm. 5/2017, p. 678 . L’autrice sostiene che “il fallimento non costituisce, tuttavia, uno strumento sempre efficace e tempestivo per la tutela dei creditori sociali, soprattutto a causa dei tempi lunghi e della bassa efficienza delle procedure di insolvenza italiane”. In Italia occorrono in media sei o sette anni per giungere a una pronuncia definitiva se la causa riguarda una procedura fallimentare e non sono rare procedure che durano oltre dieci-quindici anni.

[21] Paventa questo pericolo D’Attorre G., La crisi d’impresa nelle società a partecipazione pubblica , cit. 676.

[22] Cfr. Cass. sent. 27 settembre 2013 n. 22209.

[23] Esigenze queste sacrificate nel caso di esenzione dal fallimento delle società a partecipazione pubblica.

[*] Docente Coni Campania e cultore della materia in economia aziendale presso l’Università degli Studi di Napoli Parthenope. Funzionario Ispettivo dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro, in servizio presso la Sede dell'ITL di Napoli. Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autrice e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.

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