Anno IX - N° 46

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Luglio/Agosto 2021

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Anno IX - N° 46

Luglio/Agosto 2021

Futuro a tempo determinato?

La presentazione del libro
“Il lavoro a tempo determinato in Italia”


di Fabio Pulvirenti [*]

Fabio Pulvirenti 46

Il mio intervento odierno non può iniziare senza aver prima ringraziato tutti gli organi della Fondazione, dall’Assemblea dei soci al Comitato direttivo, dal Consiglio di amministrazione fino all’inesauribile Direttore Esecutivo, per le attestazioni di stima nei miei confronti e per aver valorizzato nuovamente il mio contributo sul tema del lavoro a tempo determinato, all’interno di una cornice organizzativa che merita un calorosissimo plauso.

Napoli deve tanto al compianto Maestro, è suggestivo che il ventennale della Fondazione venga realizzato in questa città che ha segnato una tappa molto importante nella sua carriera accademica. Napoli ha assistito, peraltro, al suo ultimo convegno, l’8 maggio 1999, in occasione del cinquantenario della Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, con una relazione non solo di indiscutibile spessore ma soprattutto di intatta attualità quando si affronta il dibattito del dualismo stabilità/precarietà nel mondo del lavoro[1].

Pulvirenti 46 1Perché quello che fino all’altro ieri hanno dichiarato i Ministri del Lavoro del G20 sulla necessità di espandere la copertura dei sistemi di sicurezza sociale di base e di recuperare il ruolo centrale del lavoro come chiave per l’inserimento e la coesione degli individui[2], Massimo D’Antona lo affermava già ventidue anni fa nel definire il diritto del lavoro come la “garanzia costituzionale della persona sociale”, spostando l’accento dalla tutela della stabilità della prestazione lavorativa alla tutela dell’“impiegabilità”, intesa come presidio irrinunciabile “che assicuri a chi cerca, o cerca di conservare il lavoro, uguali punti di partenza”, in una prospettiva di fondo in cui “è lavoratore non solo chi attualmente ha un rapporto di lavoro di un qualche tipo, ma il cittadino che guarda al mercato del lavoro come ambito di chances di vita”, reddito e sicurezza.

Ma, ancor prima, nel 1990, in un volume da lui curato, intitolato “Politiche di flessibilità e mutamenti del diritto del lavoro in Italia e Spagna”, D’Antona commentava lo scenario di frantumazione degli ordinamenti del lavoro nazionali auspicando una “riorganizzazione delle garanzie” orientata verso l’“accrescimento lineare delle tutele” [3].

Questo auspicio, sorto in un periodo storico contraddistinto dal pluralismo delle discipline contrattuali e dallo straripamento delle forme di occupazione temporanea, si ripropone con ancora più vigore nell’attuale contesto emergenziale ove, accanto a quello sui decessi, si registra un altro drammatico bilancio sulla distruzione dei posti di lavoro e delle ore lavorate. Basti pensare che il terzetto formato da Italia, Francia e Spagna annovera da solo oltre il 50% delle perdite d’impiego verificatesi nel vecchio continente tra il 2020 e l’inizio del 2021 a causa di maggiore inattività e disoccupazione (l’Italia, in particolare, ha registrato un calo del 13,5%, la Spagna del 13,2%, la Francia 8,4%)[4]. La pandemia, come ha detto il Ministro Orlando, ha “ferito” il mercato del lavoro: tra i feriti, i contusi più gravi sono i lavoratori a tempo determinato, gli autonomi a basso reddito, i lavoratori migranti e quelli appartenenti al mondo dell’economia sommersa[5].

Ed ecco che la storia centocinquantenaria del contratto a termine, da sempre contraddistinta da un carattere spiccatamente immaginifico (il lavoro a termine in origine era emblema dello status libertatis, dell’affrancamento dai vincoli feudali; nel corso del XIX secolo ha subito molteplici mutazioni, passando da strumento per aggirare la disciplina sui licenziamenti a simbolo per eccellenza di flessibilità ed infine “trappola della precarietà”), si riempie di una nuova pagina e di una nuova, ennesima, regolamentazione.

Quella attuale, che è oggetto di analisi del mio lavoro, rappresenta il più classico esempio di una politica di compromesso fra l’esigenza di contenimento del ricorso al tempo determinato, in quanto fattispecie derogatoria rispetto alla forma comune di assunzione sine die, e l’interesse opposto ad incentivarne l’utilizzo quale strumento per la creazione di nuovi posti di lavoro.

Pulvirenti 46 2Accanto ai tradizionali vincoli, quantitativi (percentuale massima di attivazione, numero massimo di proroghe, intervalli minimi tra un rapporto e l’altro, durata massima complessiva della successione di contratti) e qualitativi (obbligo di giustificazione delle condizioni legittimanti il rapporto), la disciplina vigente è contraddistinta, infatti, dalla presenza di un’area di libera apposizione del termine, pari a dodici mesi, funzionale alla prova delle capacità professionali dei lavoratori.

La combinazione delle due sotto-tipologie di contratto a tempo determinato, causale e non, richiama alla memoria la tecnica normativa già sperimentata dal nostro legislatore dal 2012 al 2014. L’allineamento rispetto alla c.d. Riforma Fornero si è perfezionato di recente in sede di conversione del decreto-legge 25 maggio 2021, n. 73 (meglio noto come decreto “sostegni-bis”), con l’importante recupero della funzione regolatrice delle condizioni giustificatrici del termine da parte delle organizzazioni sindacali[6], anche se, ad onor del vero, dalla prassi delle relazioni industriali era già emersa un’attitudine espansiva da parte della contrattazione collettiva in occasione della specificazione del dettato normativo[7] se non addirittura derogatoria, tramite il meccanismo degli accordi di prossimità di cui all’art. 8, d.l. 138/2011[8].

Il ruolo di “patto di prova lungo” che ha acquisito nel nostro ordinamento il rapporto a tempo determinato è evidenziato a livello empirico dalle statistiche riguardanti la durata dei rapporti di lavoro oggetto di trasformazione a tempo indeterminato. Nel 2020, infatti, più del 54% (54,7%) delle trasformazioni (60,4% nel 2019) è avvenuta nei confronti di contratti a termine inferiori all’anno, con percentuale notevolmente più bassa al superamento dei dodici mesi (30,2% nel 2020 e 27,6% nel 2019). Visto da questa prospettiva, il lavoro temporaneo più che una “trappola della precarietà” sembrerebbe un “trampolino” verso la stabilità. Le cose non stanno però esattamente così: i dati del triennio 2018-2020 dimostrano che l’80% dei nuovi contratti di lavoro (esattamente l’83% nel 2018 e 2019 e l’80,6% nel 2020) ha per oggetto rapporti di durata non superiore ad un anno, per cui la novella legislativa del 2018 non ha inciso affatto sui fenomeni di rotazione di lavoratori a copertura di posizioni lavorative illegittimamente spacciate come temporanee. Inoltre, non è mai stato sovvertito il primato del contratto a termine rispetto al tempo indeterminato ed alle altre forme contrattuali: nel 2020 si è attestato al 68,4% del totale delle attivazioni dell’anno (con un leggero aumento, pari a 0,3 punti percentuali, rispetto al 2019), di poco inferiore rispetto al periodo ante-riforma, perché nel 2017 il contratto a tempo determinato rappresentava il 70% del totale delle nuove attivazioni[9].

In questo contesto, un eventuale allentamento permanente dei vincoli di natura causale (attualmente le causali giustificatrici sono sterilizzate in sede di proroga e rinnovo[10]), che sono stati prospettati da più voci come insostenibili nella fase di ripresa delle attività produttive[11], non farebbe che ampliare la supremazia dei rapporti temporanei, con effetti negativi (non necessariamente da etichettare come precarietà o assenza di dignità) ricadenti sul “lavoratore-persona”, che dentro il mercato del lavoro costruisce progetti di vita, identità e senso.

Pulvirenti 46 4Anche in Francia e Spagna, i due Paesi oggetto di comparazione nel volume che oggi viene presentato, la gestione dei contratti a termine post-pandemia è oggetto di acceso dibattito, ma in senso opposto, ossia su quali e quanti incentivi mettere in campo per incrementare l’occupazione stabile. La Ministra del Lavoro iberica Yolanda Diaz ha addirittura manifestato nei giorni scorsi la volontà di riformare la durata massima di tutte le tipologie di contratti a tempo determinato, riducendola a solo dodici mesi[12].

Il raffronto con gli altri due ordinamenti dimostra anche che l’obiettivo di rilancio dell’occupazione può essere perseguito senza la necessaria abolizione del principio di causalità, affiancando al modello tradizionale alcune fattispecie specifiche, sganciate dal requisito delle ragioni giustificatrici in quanto calibrate sui soggetti che maggiormente necessitano di aiuto nell’accesso o nel re-inserimento nel mondo del lavoro (disabili, giovani sprovvisti di competenze professionali o in cerca di primo impiego e lavoratori più anziani).

Dall’analisi comparata emerge un notevole pregio del nostro sistema sanzionatorio, quanto meno nel settore privato. Rispetto a Spagna e Francia, infatti, risulta essere il più garantista, in quanto è l’unico a sancire l’automaticità della tutela reale nei confronti dei lavoratori illegittimamente assunti a tempo determinato, a differenza degli altri due ordinamenti, dove la riammissione in servizio rappresenta un’eccezione ed il sistema rimediale ordinario affida al datore di lavoro la scelta in ordine alla prosecuzione del rapporto. Non solo. Nel nostro ordinamento, inoltre, alla declaratoria giudiziale di indeterminatezza della relazione lavorativa si aggiunge sempre un risarcimento minimo forfettario di almeno 2,5 mensilità che prescinde, al contrario degli altri due Stati, dall’anzianità di servizio, tutelando più efficacemente i contratti di breve durata.

Chiudo, segnalando un ambito in cui la comparazione non può offrire soluzioni confortanti. Alludo al settore del pubblico impiego, settore caratterizzato anche in Francia ed Spagna dal perdurare di sacche endemiche di precariato (scuola e sanità, in primis) la cui tutela si rivela ancor oggi scarsamente dissuasiva nei confronti del datore di lavoro pubblico. Anche le cause sono comuni ai tre ordinamenti, nei quali alla mancanza di adeguati percorsi di stabilizzazione si è aggiunta l’incapacità dei rispettivi legislatori di introdurre criteri normativi di quantificazione del risarcimento dei pregiudizi subiti dai lavoratori illegittimamente assunti a termine, a discapito della garanzia di uniformità di trattamento in sede giurisdizionale e dell’opportunità di mitigare le conseguenze dannose di una situazione di precarietà che inevitabilmente viene a “scaricarsi” sulla parte contrattualmente più debole a cui è preclusa per i noti vincoli costituzionali la possibilità di trasformazione del rapporto a tempo indeterminato. Quadrato Rosso

Note

[1] La Relazione è stata pubblicata in un supplemento della Rivista giuridica del Lavoro (suppl. n. 3, pag. 15 e ss) ed è altresì contenuta nel volume contenente alcuni degli scritti di D’Antona intitolato Lavoro, diritti, democrazia. In difesa della Costituzione (a cura di F. Serra), ediz. Ediesse, Roma, 2010, pag. 111 e ss.

[2] Cfr. la Sintesi della Dichiarazione finale del 23 giugno 2021, consultata sul sito del Ministero del Lavoro.

[3] Dall’Introduzione, curata dal Prof. D’Antona, a Politiche di flessibilità e mutamenti del diritto del lavoro in Italia e Spagna, Ediz. Scientifiche Italiane, Napoli, 1990, pag. 13.

[4] Fonte: banca dati del Dipartimento di statistica dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILOSTAT).

[5] Si v. la Conferenza stampa del G20 sul Lavoro tenutosi a Catania il 23 giugno 2021, riportata dal sito web www.cataniatoday.it.

Pulvirenti 46 3[6] A seguito degli emendamenti di PD, LEGA, FDI e FI, approvati dalla V^ Commissione permanente della Camera dei Deputati il 7 luglio 2021 (il resoconto della seduta è pubblicato sul sito istituzionale della Camera), all’interno del decreto-legge oggetto di conversione (in legge n. 106 del 23 luglio 2021) è stato aggiunto l’articolo 41-bis, che introduce nel corpo dell’art. 19, comma 1, del D. lgs. n. 81/2015, la lettera b-bis ed il comma 1.1., in base ai quali fino al 30.09.2022 i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono individuare nuove causali giustificatrici connesse a “specifiche esigenze”.

[7] Alcuni accordi collettivi hanno già individuato fattispecie aggiuntive di apposizione del termine, come ad esempio il CCNL delle cooperative sociali del 21.05.2019, che ha dilatato il concetto di “stagionalità” agli incrementi della domanda “per ragioni collegate ad esigenze cicliche e alle variazioni climatiche” (art. 25), o quello delle industrie del cemento del 29.05.2019, che introduce ulteriori causali rispetto a quelle previste dall’art. 19, D. lgs. n. 81/2015, ossia le “punte di più intensa attività” dovute a richieste di mercato o “particolari commesse” e le “fasi di avvio di nuove attività, intendendo per tali anche l’avvio di nuovi impianti e/o nuove linee/sistemi di produzione definite e predeterminate nel tempo” (art. 27).

[8] V. l’accordo aziendale ex art. 8, d.l. n. 138/2011, siglato da Philip Morris e Femca Cisl, con cui, allo scopo di favorire la crescita occupazionale e l’avvio di una nuova attività di commercializzazione, la società datrice di lavoro è facoltizzata a stipulare contratti a tempo determinato senza alcuna giustificazione obiettiva, di durata massima complessiva pari a trentasei mesi (il testo dell’intesa è reperibile sul sito internet www.bollettinoadapt.it.

[9] I dati statistici sull’andamento del mercato del lavoro sono tratti dai Rapporti annuali sulle comunicazioni obbligatorie curati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e pubblicati sul sito web del Dicastero.

[10] In base a quanto stabilito dall’art. 17 del decreto-legge 22 marzo 2021, n. 41, conv. in legge 21 maggio 2021, n. 69, «in conseguenza dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, in deroga all’articolo 21 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 e fino al 31 dicembre 2021, ferma restando la durata massima complessiva di ventiquattro mesi, è possibile rinnovare o prorogare per un periodo massimo di dodici mesi e per una sola volta i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, anche in assenza delle condizioni di cui all'articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81».

[11] Si v. quanto riportato dagli organi di stampa in data 9 marzo 2021 sulle ipotesi di riforma: https://www.linkiesta.it/2021/03/deroghe-contratti-a-termine-decreto-dignita/.

[12] Notizia tratta l’8 giugno 2021 dal sito web della testata giornalistica Noticiastrabajo.es.

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