Anno X - N° 49

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Gennaio/Febbraio 2022

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Anno X - N° 49

Gennaio/Febbraio 2022

Pensioni: cambiare il modello

Con l’introduzione delle flessibilità nel passaggio dal lavoro alla pensione


di Raffaele Bruni [*]

Raffaele Bruni

Il tema delle pensioni è approdato per l’ennesima volta sul tavolo della politica e del confronto governo-parti sociali. Nulla di nuovo sotto il sole: è, infatti, dal 1992 che si è aperta una stagione di interventi sul sistema previdenziale che sembra non avere mai un termine. Ogni modifica appare sufficiente per fissare una soluzione definitiva, cosa che però, alla prova dei fatti, viene messa in discussione nel giro di pochi anni.

Così si torna ogni volta al punto di partenza tanto che il Sole 24 Ore il 20 dicembre scorso ha sentito il bisogno di titolare “Pensioni, via al cantiere delle riforme”. Come se tutto quello che è stato deciso in questi anni non fosse servito a nulla e fosse necessario mettere in campo addirittura una vera e propria ennesima riforma.
 

Porsi la domanda corretta


A questo punto sorge spontanea una domanda. Come è possibile che malgrado i ripetuti interventi che sono stati realizzati in trent’anni, sentiamo oggi la necessità di una nuova trasformazione del sistema?

La risposta che mi sono dato rimanda all’ipotesi che vi sia qualcosa nell’impostazione generale che impedisce di adeguare il sistema previdenziale italiano a un mercato del lavoro e a un assetto sociale che è profondamente mutato rispetto a quello in cui è maturata la dinamica del sistema previdenziale. La conferma di questa ipotesi sta nel fatto che permane una costante in questo pluridecennale confronto, ed è la sistematica esclusione della configurazione e della gestione della transizione tra la vita attiva e il pensionamento.

In letteratura esistono molti materiali e molte riflessioni attorno alla prospettiva del prolungamento dell’attività lavorativa tra i sessanta e i settant’anni anche se, a voler seguire un sentire comune, la maggior parte dei lavoratori arriva a questo momento della propria vita non vedendo l’ora di collocarsi in quiescenza. Questa attesa del pensionamento appare riconducibile a molti fattori ma in gran parte è il risultato di un lavoro che – al di là dei casi in cui lo stesso risulta essere molto pesante o stressante – è soprattutto non appagante, oppure perché l’attività lavorativa si scontra con le difficoltà quotidiane degli spostamenti casa-lavoro, o altre volte è semplicemente motivata da esigenze di cura a un famigliare. Per un approfondimento delle problematiche anche di salute legate al lavoro nell’età avanzata si rimanda ad esempio a G. Costa e S. Sartori (2007), Ageing, working hours and work ability”, in Ergonomics.

Così solo in parte l’attesa del pensionamento è frutto di oggettiva “stanchezza”, e forse nella maggior parte dei casi questa stanchezza più che al lavoro in sé dipende dalle modalità con le quali si svolge l’attività lavorativa. Non a caso molte persone spendono comunque i primi anni del pensionamento per svolgere attività retribuite più o meno regolarizzate.
 

Una ricetta che si ripete


Bruni 49 1Da questa considerazione si può partire per affrontare un problema che considero determinante nella discussione dell’ennesima riforma delle pensioni. Sono infatti assolutamente convinto che la strada che viene continuamente riproposta per affrontare il problema sia inevitabilmente condannata a infilarsi in un vicolo cieco: innalzamento dell’età pensionabile associata a erosioni più o meno drastiche degli importi pensionistici. È un percorso che posto in questi termini è ineluttabile: si vive per un periodo molto più lungo mentre si è in pensione, mentre aumenta continuamente il rapporto pensionati attivi.

La domanda che dovremmo pertanto porci è pertanto come mai la ricetta che è stata applicata non stia funzionando al punto da essere costretti a ritornare continuamente sulla medesima questione.

Il problema non riguarda solo l’efficienza mostrata dal complesso di regole nel creare un sistema sostenibile, quanto più in generale la valutazione dell’impatto di queste misure rispetto sulla effettiva capacità del welfare nel soddisfare i bisogni di una società che cambia.

Sono infatti convinto che malgrado le misure assunte, e anzi proprio a causa di esse, si sia prodotta una divaricazione tra l’età legale di pensionamento, che sale, e l’età effettiva di uscita dal lavoro (il più delle volte involontaria) che rimane pressoché stabile o cresce in modo meno significativo. Questa divaricazione è conseguenza del fatto che tutte le riforme che sono state introdotte in questi anni abbiamo agito solamente sul lato del lavoratore, dimenticando completamente che il mercato del lavoro è fatto di domanda e di offerta e che la soluzione del problema debba necessariamente coinvolgere anche le imprese. Peraltro per effetto del collegamento dell’età pensionabile alla speranza di vita (articolo 22-ter, comma 2 del decreto legge n. 78 del 2009) e dei successivi interventi applicativi nel 2035 il requisito di età per uomini e donne sarà pari a 68 anni e quattro mesi, mentre quello di anzianità prevedrà 44 anni di contributi (XX rapporto INPS, 2021). Peraltro considerando l’evoluzione del mercato del lavoro, della diminuzione delle storie contributive regolari e dell’aumento dell’età di ingresso al lavoro, non è difficile immaginare che le pensioni prevalenti, al netto dei possibili interventi sociali saranno soprattutto quelle di vecchiaia.

Se guardiamo alla storia di questo paese dobbiamo, peraltro, convenire che le grandi ristrutturazioni dei settori produttivi sono passate proprio attraverso l’espulsione delle categorie di lavoratori a maggiore età. È stato così nel passato, pensiamo ai prepensionamenti della siderurgia negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, ma lo stesso fenomeno si è ripetuto più recentemente nel settore bancario dove ha operato il fondo di solidarietà che ha consentito di assorbire l’impatto occupazionali delle fusioni degli istituti di credito e al contempo di modificare profondamente la struttura del costo del lavoro nel settore. Per dare una misura del Fondo esuberi operante nel settore bancario si pensi che dal 2001 al 2018 lo strumento ha accompagnato alla pensione oltre 77.000 occupati a cui mancavano 5 anni al pensionamento, a cui si devono aggiungere le uscite incentivate di chi aveva già maturato i requisiti pensionistici. Nello stesso anno (2018) gli occupati nel settore erano secondo il rapporto ABI 297.700.

Insomma possiamo convenire che le misure di innalzamento dell’età pensionabile si scontrano con una incapacità strutturale della domanda del lavoro di adeguarsi alla nuova situazione normativa. Andando così le cose, e non si vedono i motivi per cui dovrebbe essere altrimenti nel prossimo futuro, continuiamo a scontrarci con un mercato del lavoro impreparato a offrire una continuità occupazionale per i lavoratori più anziani. Il risultato di tutto ciò è la creazione di un’enorme area di precarietà che, visti i nuovi limiti pensionabili, abbraccia un periodo temporale esteso. Basterebbe leggere gli ultimi rapporti sulla povertà della Caritas, per verificare quanto posto occupano queste fasce di età nell’esercito dei nuovi poveri.

Se non si esce da questo schema lo scenario futuro è tracciato. I vincoli di bilancio portano periodicamente a inasprire le regole di uscita e a limare il livello delle prestazioni. A seguire, la valutazione degli effetti sociali di queste misure, rende inevitabile l’introduzione di correttivi che mitighino questi effetti (si pensi a quota 100 o all’APE sociale), salvo ritrovarsi dopo poco tempo nella situazione di partenza. Il tutto senza che si formi una lettura strategica della realtà che consenta di interrompere questa spirale.

Bruni 49 2Per uscire dal circolo vizioso è necessario cambiare il paradigma e in questo caso specifico significa affrontare il nodo di quello che potremmo chiamare “ponte al pensionamento”, cioè, in altri termini, la transizione lavoro pensione. L’obiettivo non si può peraltro risolvere, come è stato tentato in passato, introducendo dei semplici incentivi a posticipare il pensionamento ma deve essere affrontato con un disegno complessivo che affronti in modo organico le diverse componenti della questione. L’OCSE nel suo Pensions at a glance (2017) ha scritto «le differenze tra le diverse storie lavorative hanno portato a definire soluzioni pensionistiche flessibili che consentano alle persone di scegliere quando e come andare in pensione. Nella sua accezione più comune, il termine “pensionamento flessibile” si riferisce alla possibilità di percepire una pensione – totale o parziale – pur continuando un'attività lavorativa retribuita, spesso con orario di lavoro ridotto. Questo è anche noto come pensionamento "graduale" o "parziale"».

Dal punto di vista operativo questa rivoluzione culturale si dovrebbe fondare sulla introduzione di un sistema misto di pensioni e lavoro part time: ad esempio 2/3 di lavoro e 1/3 di pensioni, poi metà e metà e così via. Ovviamente la soluzione tecnica sul piano strettamente previdenziale costituisce solo la minima parte, e forse la più semplice, della proposta. Per poter aver successo questo progetto deve essere inserito in un modello concertativo in cui tutte le parti sono chiamate a svolgere un compito ben preciso. In particolare, è necessario affrontare in modo efficiente il lato della domanda di lavoro. Il coinvolgimento degli attori sociali è essenziale per assicurare l’efficacia di queste misure. Senza un ripensamento complessivo del sistema di transizione, infatti, la riforma è destinata a non produrre i suoi effetti, come è successo, ad esempio, nell’esperimento delle pensioni part time in Finlandia.

Per compiere questa svolta è necessario condividere alcuni passaggi preliminari arrivando a assumere sul piano culturale l’idea che il lavoratore che ha raggiunto una certa età non costituisca un peso o un costo eccessivo, ma possa rappresentare una risorsa in termini di conoscenze e di esperienze acquisite. Da questa acquisizione nasce la possibilità di utilizzare le competenze acquisite in una vita di lavoro come punto di partenza formativo e di trasferimento delle stesse alle nuove generazioni di assunti. In modo da accompagnare il tutto con un impegno a rimpiazzare la forza lavoro parzialmente in uscita.

Questo riconoscimento deve essere affiancato in primo luogo con un accompagnamento incentivante del trattamento tributario e contributivo, nonché dall’utilizzo delle risorse che sono messe a disposizione della formazione.
Anche la parte sindacale deve riconoscere un impegno contrattuale a ripensare la struttura salariale e del lavoro negli anni dell’uscita del lavoro. È evidente come un meccanismo salariale basato sulla seniority si sia dimostrato disincentivante sul piano della stabilità del rapporto di lavoro per gli anziani.

Un ruolo importante dovrebbero giocarlo anche le istituzioni locali nel facilitare e agevolare la composizione dei tempi casa-lavoro, che in questo caso assumono il connotato di tempo libero-lavoro.

La definizione dei paletti di questa intesa deve necessariamente avvenire sul piano contrattuale, nell’ambito di un grande progetto per il lavoro e per le pensioni. Un ruolo importante dovrà essere giocato dal secondo livello contrattuale laddove gli accordi collettivi sono chiamati a realizzare le condizioni di contesto perché questo progetto possa operare.

Non è detto che questa sia l’unica ricetta possibile ma al tempo stesso la costruzione di un ponte al pensionamento rimane l’unica strada per uscire dal buco senza fine in cui ci siamo cacciati. Quadrato Rosso

[*] Dal 1988 si occupa di previdenza obbligatoria e complementare. Attualmente svolge attività di controllo dei rischi finanziario e geopolitico per conto di investitori istituzionali sociali. Ha ricoperto e ricopre incarichi in Organi di amministrazione del settore bancario.

© 2013-2022 - Fondazione Prof. Massimo D'Antona