Rischio amianto e responsabilità civile del datore di lavoro

di Tommaso Frendo [*]

Tommaso FrendoPremessa

Nello scorso numero della rivista, abbiamo analizzato nello specifico le misure di prevenzione da considerare ogni qual volta che c.d. rischio amianto (e le varie problematiche ad esso connesse) si presenta all’interno dei luoghi di lavoro.

A tal proposito, abbiamo osservato come il diritto prevenzionistico (d. lgs. 9 Aprile 2008, n. 81, integrato dal d.lgs. n. 106 del 2009) vada a disciplinare gli obblighi datoriali che sussistono all’interno dei vari settori produttivi, dettando le misure di cautela da osservare in caso di utilizzo di particolari sostanze dannose.
Tuttavia, la primaria importanza dell’obbligo di sicurezza in capo alla parte datoriale, volto a garantire l’esercizio delle misure necessarie per la tutela dell’integrità psico – fisica del lavoratore, non può essere affrontato se non parallelamente all’analisi dei profili di responsabilità insorgenti a seguito del mancato rispetto delle normative in vigore.

I profili di responsabilità:
Il danno alla persona del lavoratore e l’emersione del danno biologico

In materia, vige il principio dell’esonero da responsabilità (civile) del datore di lavoro, in considerazione dell’esistenza dell’obbligo di assicurare i lavoratori presso una pubblica istituzione (INAIL) per i danni conseguenti sia dagli infortuni sul lavoro che dall’insorgenza delle malattie professionali.

Nel caso in cui il lavoratore riscontri una malattia professionale, infatti, l’ente pubblico dovrà erogare al lavoratore sia le provvidenze di carattere sanitario che di natura economica.

Tuttavia, la responsabilità civile del datore di lavoro può risorgere nel caso in cui vi sia stata responsabilità (penale) per fatto costituente un reato perseguibile d’ufficio.

In tali situazioni, il datore di lavoro dovrà rispondere direttamente del risarcimento dei danni nei confronti del lavoratore trovandosi altresì esposto all’azione di regresso da parte dell’istituto assicuratore.

Sulla scia di una giurisprudenza per anni pacifica, il risarcimento doveva comprendere solo il danno patrimoniale, consistente in quel tipo di danno legato alla perdita della capacità lavorativa (oltre al danno morale da reato).

Sennonché, la Corte Costituzionale a partire dalla fine degli anno ottanta ha ritenuto che il datore di lavoro deve considerarsi obbligato al risarcimento non solo del danno patrimoniale ma anche del danno biologico.

Questo viene solitamente definito come la menomazione dell’integrità psico-fisica della persona, in se considerata, che è indipendente dai profili patrimoniali del danno ed allude (piuttosto) alla sofferenza che la lesione ha comportato nella sfera individuale del lavoratore, alla luce della direttiva sulla tutela del diritto alla salute di cui all’art. 32 della nostra Carta Costituzionale.

Secondo la giurisprudenza, la liquidazione di tale danno va effettuata sulla base di criteri equitativi riferibili ai singoli casi (valutati singolarmente).

L’obbligo di risarcire il danno biologico posto in capo al datore di lavoro cadeva con la prospettazione secondo cui l’INAIL doveva liquidare al lavoratore il solo danno patrimoniale conseguente alla perdita della capacità lavorativa.

Con riguardo a tale argomento, è successivamente intervenuto il legislatore (art. 13 del d.lgs. n.38/2000) che, nell’ambito della più generale riforma dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, ha esteso la tutela assicurativa anche al danno biologico, definito come la lesione all’integrità psico-fisica del lavoratore, suscettibile di valutazione medico legale.

Ne deve conseguire che, per tale porzione di danno, si riespande l’esonero da responsabilità in capo al datore di lavoro.

L’art. 2087 del cod. civ., negli ultimi anni, ha costituito il fulcro centrale di un sistema espansivo in relazione agli obblighi datoriali ed alle correlative fattispecie di danno risarcibile nei confronti della persona del lavoratore.

In tale ambito, va ricordata inoltre l’emersione della categoria del danno esistenziale, che consiste nella lesione dei diritti della personalità costituzionalmente garantiti, estranea alla sfera del puro danno biologico (e per questo differente), strettamente legato alla protezione del diritto alla salute.

Come si scorge, la tendenza è diretta ad identificare il danno nella mera lesione dell’interesse protetto, aprendo in questo modo la strada ad una proliferazione sia di fattispecie giustificative che di conseguenze risarcitorie.

La giurisprudenza maggioritaria, sembra aver escluso l’autonoma rilevanza di un danno “esistenziale”, optando per la risarcibilità del danno non patrimoniale ove siano enucleabili lesioni di diritti o interessi inviolabili di natura non patrimoniale riconosciuti dalla Costituzione, lesione di diritti riconosciuti dalla legislazione ordinaria ed inseriti nella causa di singole figure contrattuali, lesioni di diritti ricostruibili dall’interprete attraverso una valutazione della “causa concreta” di un negozio[1].

05 Frendo 1Fra responsabilità contrattuale e responsabilità per fatto illecito

La vittima avrà dunque diritto al risarcimento integrale di tutti i danni subiti.

Prima di tutto, a titolo di responsabilità contrattuale (secondo le disposizioni normative di cui agli artt. 1218, 1223 e 1453 c.c.) e poi, in via alternativa e residuale, a titolo di responsabilità per fatto illecito (ex art. 2043 c.c.) in relazione alle norme annoverate del codice penale, sempre in combinato disposto con la norma di cui all’art. 2087 c.c. e delle altre norme speciali che regolano la materia (il tutto nell’ambito di un indispensabile lettura costituzionalmente orientata).

L’entità del pregiudizio (differenziale e complementare, rispetto a quanto eventualmente liquidato dall’INAIL e/o da altri enti previdenziali e assistenziali) deve essere determinata con quantificazione equitativa secondo i parametri sanciti dalla giurisprudenza di legittimità[2], nell’ambito delle disposizioni normative di cui agli artt. 1226 c.c. (responsabilità contrattuale) e 2056 c.c. (responsabilità aquiliana)[3].
Successivamente, sempre la Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare il principio per cui la responsabilità penale nei confronti del datore di lavoro non viene meno neanche se l’esposizione alla sostanza nociva (nel caso dell’amianto alle polveri) è una semplice concausa della malattia, oppure se il decesso del lavoratore si è verificato a distanza di molto tempo dal periodo in cui ha assorbito l’amianto. Quadrato Verde

Note

[1] O. Mazzotta, Manuale di diritto del lavoro, Padova – Cedam, 2011, p. 455 ss.

[2] Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza 26972 del 2008; Cassazione Sezioni Unite, Sentenza 26973 del 2008.

[3] E.Bonanni, La storia dell’amianto nel mondo del lavoro, Cacucci Editore, 2012, p. 115.

[*] Dottore magistrale in Giurisprudenza presso l’Università degli studi di Pisa, specializzato in diritto internazionale e del lavoro. Già Coordinatore Provinciale dell’Osservatorio Nazionale Amianto, persegue scopi di rappresentanza e tutela legale dei lavoratori esposti ad amianto, ad altri patogeni e ad altri rischi professionali. Coltiva particolare interesse con riferimento alla tutela dei diritti costituzionalmente garantiti in ambito lavorativo. Oltre che alla pratica forense che lo vede specializzarsi in ambito giuslavoristico, svolge la funzione di consulente - esperto legale presso la Lega dei Consumatori ed in qualità di redattore - consulente giuridico collabora con l’Associazione Professionale / Testata Giornalistica LLpT. Autore di Pubblicazioni e Relatore Giuridico.


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