Anno XI - n° 56

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Marzo/Aprile 2023

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Anno XI - n° 56

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Il principio pluralistico e il modulo societario per l’esercizio di attività pubbliche


di Ida Giannetti [*]

Ida Giannetti 42

All’alba del ventesimo secolo l’amministrazione perseguiva l’interesse pubblico prevalentemente attraverso l’esercizio del potere autoritativo, destinato ad incidere unilateralmente sulla sfera giuridica dei singoli, rimanendo residuale l’attività privatistica della PA.

L’entrata in vigore del testo costituzionale fece emergere la necessità di variegare le modalità di perseguimento delle finalità pubbliche incrementando ove possibile la partecipazione privatistica, intesa quale modalità di perseguimento del principio del buon andamento, nonché quale legittimazione democratica dell’attività amministrativa, in rottura con i previgenti ideali autoritari; il tutto dismettendo, ove necessario e sempre più spesso, la veste autoritativa[1]. Ed invero, l’avvento delle democrazie partecipative e dello stato sociale aveva comportato un nuovo carico di doveri per lo Stato, finalizzati all’innalzamento del livello di benessere dei cittadini, anche l’organizzazione amministrativa si era implementata con nuovi schemi che hanno visto, accanto all’amministrazione statale propriamente detta, anche l’azione di enti pubblici strumentali, dipendenti e controllati dagli organi statali ma formalmente distinti e con un ambito di autonomia d’azione. La moltiplicazione dei compiti affidati allo Stato e la valorizzazione delle autonomie locali hanno determinato il cd. “pluralismo istituzionale” che trova le sue radici proprio nell’impianto costituzionale (art. 2–5-114-118 della Cost.). Per effetto del principio del pluralismo della PA, accanto allo Stato, che è l’ente pubblico per eccellenza, operano altri soggetti dotati di capacità giuridica di diritto pubblico e deputati al perseguimento di finalità di pubblico interesse.

In un contesto siffatto, la PA ha iniziato, con frequenza via via crescente, a perseguire i suoi scopi attraverso lo svolgimento di attività imprenditoriale e, dunque, attraverso l’utilizzo degli strumenti giuridici disciplinati dal diritto civile. D’altra parte, tale modalità operativa può dirsi, oggi, pienamente legittimata dal riconoscimento operato dall’art. 1, comma 1 bis, L. 241/1990. In tale ipotesi, dunque, l’amministrazione opera direttamente sul mercato, svolgendo “un’attività organizzata per la produzione di beni e servizi” riconducibile alla disciplina di cui all’art. 2082 c.c.

Le modalità attraverso le quali ciò è reso possibile sono riconducibili, inizialmente, alle forme dell’ente pubblico, dell’azienda autonoma e della società a partecipazione pubblica.

Giannetti 56 1Sono denominati “enti pubblici economici” quegli enti dotati di personalità giuridica che operano nel settore della produzione o scambio di beni e servizi, svolgendo attività prevalentemente o esclusivamente economiche. Se da un lato, in quanto costituiti dallo Stato o da altro ente pubblico, partecipano del carattere pubblico, dall’altro, operano in veste imprenditoriale, con gli strumenti del diritto privato. La giurisprudenza ha posto in risalto tale doppia anima allorché si è sostenuto che tutti gli atti relativi alla costituzione, all’organizzazione dell’ente e ai suoi rapporti con l’autorità pubblica hanno carattere pubblicistico, mentre tutte le attività propriamente imprenditoriali sono regolate dal diritto civile[2]. Lo scopo di lucro non è elemento essenziale di tale figura soggettiva, tuttavia si ritiene che la stessa sia assoggettata al criterio di economicità, che impone il pareggio nella gestione tra costi e ricavi.

Con il termine “azienda autonoma” si fa invece riferimento ad una partizione organizzativa facente parte dello Stato (o di altro ente pubblico) che, sebbene priva di personalità giuridica, è dotata di una spiccata autonomia funzionale, contabile e finanziaria, e si occupa dello svolgimento di attività di tipo essenzialmente produttivo.

Allo stato attuale, tuttavia, l’utilizzo di tali strutture organizzative da parte della PA risulta recessivo. Invero, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso l’amministrazione ha dato il via ad un imponente processo di privatizzazione degli enti e delle holding pubbliche, con l’obiettivo di trasformare il ruolo espletato dallo Stato nell’economia: da Stato interventista e imprenditore a Stato arbitro e regolatore[3]. Ne è derivata la nascita delle cd. “società in mano pubblica”.

Le “cd. Società in mano pubblica” sono da intendersi quali strutture societarie partecipate dallo Stato che, pur operando in ambito privatistico, perseguono sostanzialmente finalità pubblicistiche (es. Poste Italiane S.p.A., Patrimonio dello Stato S.p.A., Ferrovie dello Stato S.p.A., etc.). In tal modo, si valorizza la duttilità operativa degli strumenti predisposti dal diritto civile e l’esperienza imprenditoriale dei privati, orientandola verso obiettivi di natura superindividuale.

Ciò pone naturalmente un problema di qualificazione e cioè se alla veste societaria così assunta dagli Enti corrisponda una natura privata o pubblica di questi, questione che è destinata ad acquisire rilievo pratico in ordine al regime giuridico applicabile agli stessi.

Secondo un indirizzo giurisprudenziale minoritario: sono ontologicamente enti di natura privata perché lo scopo lucrativo non viene mai meno, in assenza di un intervento legislativo espresso che lo rinneghi.

Secondo un indirizzo giurisprudenziale che può dirsi maggioritario: lo schema societario rappresenta un modello neutrale. La natura delle società oggetto di esame può essere individuata analizzando il regime giuridico predisposto dal legislatore per ciascuna di esse e verificando se comporti consistenti deviazioni rispetto al modello privatistico tipico. Affinché possa affermarsi la natura pubblica è necessario che la società rinvenga la sua origine nella legge (art. 4 Legge sul parastato), che ne determina la denominazione, lo scopo, e la pertinenza di più della metà delle relative azioni ad un soggetto pubblico. È inoltre necessario che il regime giuridico si caratterizzi per regole di organizzazione e funzionamento tali da costituire una completa attrazione nell’orbita pubblicistica del modello societario (in tal senso Cons. di Stato sent. n. 1206/2001).

Ne deriva una diversificazione del concetto di ente pubblico non più ipostatizzabile in senso solo formale (cfr. il criterio legislativo di individuazione degli enti pubblici introdotto dall’ art. 4 L. 1975 n. 70 c. d. legge sul parastato)[4] in forza del quale sono “pubbliche” le persone giuridiche che un atto legislativo qualifica come tali, ma legato a parametri sostanziali concernenti l’organizzazione e l’attività, quali il finanziamento stabile da parte di un ente pubblico, lo scopo pubblicistico, la competenza di altro ente pubblico per l’esercizio di altro potere di controllo, la possibilità di esercitare l’autotutela. Il riconoscimento della natura pubblicistica, inoltre, acquista un notevole rilievo concreto al fine del regime giuridico applicabile e, per converso, comporta anche una serie di limitazioni:

  1. Perdita della capacità di disporre di se stesso: l’ente pubblico non può sciogliersi come una qualsiasi persona giuridica privata
  2. Si applicano delle norme particolari relative all’assunzione del personale ed alla redazione del bilancio
  3. Le persone fisiche legate da un rapporto di servizio sono soggette a particolare regime di responsabilità
  4. L’utilizzo degli strumenti di diritto privato è disciplinato tendenzialmente da regole speciali
  5. I beni degli enti pubblici sono sottoposti ad un regime speciale
  6. La necessità di applicare le disposizioni di cui al D. Lgs. del 2013 n.33 sulla trasparenza e di altre disposizioni speciali.


Il riconoscimento della natura pubblicistica comporta, però, anche una serie di privilegi:

  1. Sottrazione al regime fallimentare
  2. Limitazioni relative al sindacato giurisdizionale che non può sindacare il merito amministrativo
  3. Una serie di norme limitano poi l’esecuzione e l’aggredibilità del patrimonio della PA, basti pensare all’art. 159 del TUEL
  4. La cessione dei crediti nei confronti della PA è sottoposta a normativa peculiare (art. 114 Codice Appalti)
  5. I debiti della PA sono pagati presso gli uffici di Tesoreria, quindi non al domicilio del creditore.


Limiti alla costituzione: affermarsi di una normativa di limitazione e riduzione delle società a partecipazione pubblica


Giannetti 56 2Originariamente concepiti quale “panacea per tutti i mali”, la costituzione di un elevatissimo numero di organismi societari a partecipazione pubblica, ha rappresentato un volano di sperpero di risorse pubbliche[5]. Di qui la volontà ripetutamente manifestata dal legislatore di ridimensionare sul piano anche quantitativo il fenomeno; lo stesso è intervenuto con misure tese a limitare il dilagarsi a dismisura del fenomeno. Basti pensare ai limiti alla costituzione posti in essere dall’art. 3, comma 27, della Legge 24 dicembre 2007 n. 244 (cd. Legge finanziaria per il 2008). Ebbene, tale disposizione, al dichiarato scopo di tutelare la concorrenza e di contenere gli sprechi di risorse pubbliche ha vietato alle PA, nell’accezione di cui all’art. 1, comma 2, D. Lgs. 165/2001, la costituzione di società aventi ad oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, nonché di assumere partecipazioni in società già costituite. Emerge dunque la netta distinzione tra “società strumentali”, la cui facoltà di costituzione può essere limitata, e “società che svolgono servizi pubblici”, cui la limitazione non trova applicazione, in quanto enti che non si inseriscono nel gioco dei soggetti privati alterando la concorrenza (in tal senso V. Cons. di Stato sent. n. 5241/2010). Tale volontà di ridimensionare, anche sul piano quantitativo il fenomeno, è stata di recente confermata dal D. Lgs. 175/2016, che in attuazione dei principi contenuti negli artt. 16 e 18 della legge delega 124/2015 è intervenuto a semplificare e razionalizzare il quadro delle regole vigenti in materia di società partecipate. Recita, infatti, l’art. 4, co. 1, del T.U. partecipate che: “Le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni anche di minoranza, in tali società”. È indubbio che la ratio della disposizione in esame è quella di ridurre il numero delle società partecipate attualmente esistenti e operanti. Questa necessità è da riconnettersi a due ordini di ragioni: sia alle conseguenze negative comunque legate a tale fenomeno che hanno portato ad una grossa sfiducia nei confronti dello stesso[6], sia anche alla volontà di perseguire un possibile risparmio di spesa pubblica.

Non si tratta, a ben vedere, di un divieto assoluto tanto vero che il comma 2 del medesimo articolo elenca una serie di casi nei quali, possono, nei limiti del divieto di cui al 1° comma, direttamente o indirettamente, costituire società e acquisire o mantenere partecipazioni in società, esclusivamente per lo svolgimento di attività ivi elencate. Ma c’è di più! Le Amministrazioni pubbliche, anche in deroga al divieto di cui al 1° comma dello stesso articolo, possono acquisire partecipazioni in società aventi per oggetto sociale esclusivo la valorizzazione del patrimonio delle Amministrazioni stesse, la ratio di tale acquisizione si rinviene nella realizzazione di un proficuo investimento (al pari di un operatore di mercato) attraverso il conferimento di beni immobili (in tal senso, art. 4, co. 3). L’art. 4 del TUSPP delinea, quindi, quelli che sono i limiti e le condizioni da rispettare affinché una Pubblica Amministrazione possa acquisire e mantenere la partecipazione all’interno di una società che svolga determinate attività espressamente individuate. La disposizione, tuttavia, non impone che tali attività siano erogate per mezzo di società partecipate, ben potendo le Amministrazioni decidere di prestarle direttamente, quando è possibile, oppure in altri casi, affidarle a soggetti privati non partecipati. Quadrato Rosso

Note

[1] Ciò trova, recentemente, conferma anche nell’art. 1, comma 1 -bis, L. 241/90 da cui si faceva discendere la possibilità per le amministrazioni pubbliche di costituire società ovvero di entrare a far parte, in posizione maggioritaria o minoritaria, di società già costituite ed aventi ad oggetto la produzione di beni e servizi di interesse generale.

[2] Cass. civ., Sez. Un., 15 luglio 1993 n. 7841; Id. 28 gennaio 1988, n. 747. V. anche, Di Nunzio A. e De Carlo E., in “Le Società Partecipate dopo il correttivo” , Dike Editore, 2017, p. 8, gli autori sostengono che gli EPE “sono caratterizzati dal fatto di essere soggetti formalmente pubblici, che operano in regime di diritto privato”.

[3] In tal senso vedi Garofoli R. – Ferrari G., Manuale di diritto amministrativo, x Edizione, 2016/2017, Nel Diritto Editore, 108 e ss.; l’autore osserva che tale “mutamento di ruolo dello Stato non più giocatore in economia, ha reso necessario l’istituzione di soggettività pubbliche indipendenti, le Authorities, cui si è affidato principalmente il compito di evitare che le privatizzazioni di precedenti enti pubblici economici recasse con sé la mera sostituzione al monopolista pubblico di quello privato, non certo meno pericoloso del primo se si guarda al rischio di inefficienza nella gestione dei servizi e di onerosità delle tariffe per l’accesso alle relative prestazioni”. In effetti, la presenza pubblica non è necessaria che venga meno, salva l’osservanza del principio per cui quando l’ente pubblico agisce come imprenditore, non deve avere vantaggi. V. anche Petrucci A., “Intervento pubblico, saldi di Finanza pubblica e debito pubblico”, per il quale: “l’intervento pubblico trova giustificazioni sul piano dell’equità e dell’efficienza allocativa, ma anche della stabilizzazione ciclica”.

[4] L’art. 4 della citata legge recita che “nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge” istituendo in tal modo una riserva di legge in materia.

[5] In tal senso V. Morbidelli G., Codice delle Società a partecipazione pubblica, Giuffré Editore, 2018. L’autore sostiene che la ragione del diffondersi a raggera della formula delle società per azioni di proprietà pubblica è rappresentata non solo dall’interesse di avvalersi di strutture organizzative più snelle e che consentono, laddove il controllo non è totalitario, l’apporto di risorse da parte del privato, ma anche quello di poter disporre di strutture affrancate dalle regole del diritto amministrativo e dunque in primis dalla regole del concorso per le assunzioni di dipendenti e dalle procedure che la legge di contabilità dello Stato prevede per i contratti (si noti che l’affrancazione alle regole di evidenza pubblica per l’affidamento dei contratti, è ora invece preclusa o comunque fortemente limitata dalla normativa europea che ha introdotto la figura di “organismo di diritto pubblico” e ha disciplinato le procedure contrattuali delle imprese pubbliche operanti nei settori speciali quali: acqua, energia, trasporti e servizi postali). V. anche Di Nunzio A. e De Carlo E., in “Le Società partecipate” dopo il correttivo 2017, Dike editore, 2017; gli autori notano che si è passati “da un sistema in cui il ricorso al modulo societario era estremamente frequente, con la partecipazione azionaria dello Stato, che aveva giustificato, anche l’istituzione di un Ministero ad hoc (quello delle Partecipazioni Statali), ad un tendenziale sfavore verso il sistema delle società partecipate anche in ragione delle preminenti e non più differibili esigenze di contenimento della spesa pubblica”. Il ricorso sfrenato al modulo societario aveva giustificato, sul piano organizzativo, anche l’istituzione di un Ministero ad hoc, il Ministero delle Partecipazioni Statali, poi abrogato in esito al referendum del 1993.

[6] In tal senso v. Goisis F., La strumentalità pubblicistica delle società a partecipazione pubblica: profili critici di diritto nazionale e comunitario e implicazioni di riparto di giurisdizione, in Dir. Proc. Amm., 2011, fasc. 4, p. 1366. L’Autore afferma che le norme che pongono limiti alle società partecipate sono espressione “di principi generali”, a loro volta riassumibili “nella tutela della concorrenza tramite la restrizione delle attività delle società in mano pubblica prive di specifici riconoscimenti legislativi alle competenze dell’ente partecipante”. In senso analogo, cfr. anche Calcagnile M., Principi e norme amministrative sui limiti di azione delle società a partecipazione pubblica locale , in Foro Amm. - TAR, 2012, fasc. 11, p. 3716.

[*] Docente Coni Campania e cultore della materia in economia aziendale presso l’Università degli Studi di Napoli Parthenope. Funzionario Ispettivo dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro, in servizio presso la Sede dell'ITL di Napoli. Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autrice e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.

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