Anno XI - n° 56

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Marzo/Aprile 2023

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Anno XI - n° 56

Marzo/Aprile 2023

Il dibattito sulla riduzione dell’orario

Lavorare meno, lavorando tutti

… per vivere meglio…


di Stefano Olivieri Pennesi [*]

Olivieri Pennesi 28

Significativamente il trascorso periodo pandemico mondiale ha instillato, principalmente nelle economie occidentali, un consistente dibattito tra accademici, sindacalisti, giuslavoristi, lavoratori, manager, circa la necessità, per la nostra società, di veder impegnate le rispettive giornate lavorative, in modalità sempre più dinamica e modulare, ma anche numericamente inferiori, pur raggiungendo obiettivi produttivi soddisfacenti.

Pennesi 56 1Lo slogan “lavorare meno lavorare tutti”, ci riporta, con la mente, alle rivendicazioni sociali degli anni Settanta dove in un unicum: operai, braccianti, studenti, agognavano una società diversa. Oggi, tale motto, riscopre una rinnovata attualità anche rispetto alla crescente polarizzazione, tra sottoccupati e sovra occupati, tentando di contrastare l’attitudine a far lavorare sempre di più la categoria degli occupati a scapito, ad esempio, di possibili nuove assunzioni, magari di giovani e donne.

Partiamo quindi dal considerare dei dati reali. In Italia, contrariamente a diffusi luoghi comuni, si lavora in misura maggiore, che in diversi altri Paesi europei. Secondo i dati Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, rilevati nel 2022. un lavoratore italiano lavora di media 1.720 ore l’anno, con un pil pro capite di poco superiore ai 36.000 euro, e un’occupazione pari a circa il 60%, con una disoccupazione del circa 10%. In Germania, Francia e Spagna, specularmente, i lavoratori lavorano in media rispettivamente: 1.350, 1.510 e 1.640 ore annue.

Al riguardo è anche opportuno argomentare, però, che il nostro Paese non brilla rispetto alla “produttività” pro capite rilevata. La diretta conseguenza di questa evidenza è che laddove tale produttività risulta essere maggiore, nei diversi Paesi, ci si può permettere anche di lavorare meno, ad esempio 30/35 ore settimanali, mantenendo un salario comunque adeguato.

La sperimentazione della riduzione dell’orario di lavoro, garantendo la parità di salario, è già una realtà in alcuni Paesi Europei, e non solo in quelli cosiddetti “virtuosi” semplificando è stata indicata al riguardo la formula 100-80-100 che sta a significare: 100% di salario, 80% di lavoro, 100% di produttività.

In Gran Bretagna, ad esempio, si è avviata una sperimentazione in tal senso, basandosi su 4 giorni lavorativi. Infatti, un centinaio di aziende e circa 3.300 lavoratori sono stati oggetto di studio. I risultati si sono rivelati confortevoli. La produttività si è incrementata a tal punto che il 92% delle imprese si sono dichiarate favorevoli all’esperimento, cosa che ha prodotto un aumento dell’occupazione ma, cosa più significativa, ha migliorato (a parere del personale coinvolto) i livelli di qualità della vita, proprio dei lavoratori.


Per andare più nel dettaglio, su questa sperimentazione avvenuta in UK, secondo i dati raccolti da una equipe di studiosi di varie università di diversi Paesi: Cambridge, Brussel, Boston, osservando 61 imprese del Regno Unito, per un totale di circa 3.300 dipendenti, (selezionati e poi monitorati) che hanno lavorato una giornata in meno a settimana per un totale di 32 ore lavorative, riducendo del 20% l'orario di lavoro per 6 mesi, mantenendo lo stesso salario, è emerso che “Una settimana lavorativa di quattro giorni riduce significativamente lo stress e le malattie nella forza lavoro e aiuta a trattenere i lavoratori”. Al termine della ricerca è emerso che circa il 92% delle aziende che hanno preso parte al programma pilota del Regno Unito (56 su 61) afferma di voler continuare con la settimana lavorativa di 4 giorni.

I ricercatori hanno conversato con i dipendenti durante l’intero periodo dell’esperimento sociale per misurare gli effetti di avere un giorno in più a disposizione. È emerso quindi che “I livelli auto dichiarati di ansia e affaticamento sono diminuiti tra la forza lavoro, mentre la salute mentale e fisica è migliorata”. Il 62% dei lavoratori hanno affermato una oggettiva agevolazione nel conciliare meglio il lavoro con gli impegni familiari, responsabilità di cura e riattivazione della vita sociale.

Pennesi 56 2Esperimento similare è stato compiuto in Islanda (osservando lavoratori pubblici segnatamente dipendenti del comune di Reykjavik e del governo islandese), in Belgio e Finlandia. Anche fuori continente abbiamo il caso Giappone con l’esperimento pilota della Microsoft Japan, ma anche in Australia, Nuova Zelanda e USA.

In sostanza, soprattutto in Europa, la rimodulazione dell’orario di lavoro è un fatto che si sta imponendo e diffondendo come in Francia, Germania, Paesi Bassi, Danimarca, Norvegia e Svizzera, ma altri Paesi seguiranno.

Una citazione a parte meritano i nostri cugini Spagnoli, che nella classifica europea dei lavoratori poveri si trova in una posizione peggiore in rapporto all’Italia. Il governo di Madrid ha quindi deciso di sperimentare, per almeno un triennio, la settimana con 4 giorni lavorativi, e un totale di 32 ore, mantenendo la medesima retribuzione. A questo è stato implementato un contributo straordinario, a favore delle imprese coinvolte, pari a 50 milioni di euro.

Secondo molti studi prodotti, in tale ambito, quindi, quando le persone trovano un maggiore equilibrio tra il lavoro e la loro vita privata sono più produttive, creative e felici. Esempio concreto in Europa, dove si è potuto migliorare il rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita, è sicuramente l’Olanda, ove si lavora meno, all’incirca 30 ore medie settimanali, suddivise principalmente in 4 giornate lavorative e dove i livelli retributivi sono in sostanza adeguati.

Si gode di più tempo libero da poter dedicare a sé stessi, per la famiglia e per gli altri, senza vedere penalizzati i propri stipendi, in media 35mila euro di reddito medio all’anno.

Osservando ciò che accade in Italia menzioniamo una recentissima indagine, condotta dal centro ricerche dell'Aidp - Associazione italiana per la direzione del personale, che ha lanciato un sondaggio tra 1.000 dei propri iscritti ossia, direttori del personale e professionisti delle risorse umane, ne è emerso che il 93% si dichiara in sostanza d'accordo, totalmente (per il 53%) o parzialmente (in questo caso il 40%) sull'introduzione della settimana corta con 4 giorni lavorativi, a fronte di un ridottissimo 6% totalmente contrario.

Tra i favorevoli, il 79% pensa che la settimana corta possa migliorare la conciliazione vita-lavoro, il 49% possa aumentare il benessere psicofisico dei lavoratori e il 27% ritiene possano incrementarsi le motivazioni al lavoro dei dipendenti.

Tra le criticità, emergono le individuazioni delle soglie di produttività basate sulle singole performance lavorative, la sostenibilità economica, le formule da contrattazione nazionale o aziendale, l’implementazione organizzativa. Ad ogni modo ciò impatterebbe, certamente, su un diverso approccio culturale da parte delle nostre imprese o Amministrazioni dir si voglia, probabilmente una soluzione univoca valevole per il settore pubblico o privato, come per contesti lavorativi piccoli, medi o grandi, non risulterebbe facilmente realizzabile, pertanto, sarebbe necessaria una fase di “sperimentazione” multicentrica e per adeguati periodi temporali, prima di concepire una trasformazione così radicale del “fare lavoro”.

Ciò detto, anche in Italia si discute, in maniera crescente, di proposte legislative, come quella ad esempio del giurista Piergiovanni Alleva, come pure di possibili e innovativi CCNL che, attraverso i contratti od accordi cosiddetti di “espansione” ovvero “solidarietà espansiva”, andrebbero incontro a provvedimenti realmente a favore dell’occupazione o di più, per una piena occupazione e una maggiore produttività. Nel nostro Paese merita quindi una specifica menzione il processo realizzato, in tale ottica, da Banca Intesa e dall’Azienda Lavazza.


Il lavoro al centro di tutto?


Pennesi 56 3Bisogna indagare più a fondo sulla filosofia ispiratrice di un lavoro veramente a “misura dell’uomo” e per farlo dobbiamo interrogarci cosa possa essere la suggestione se così possiamo dire rispetto al “Quiet Quitting” che non significa solamente “lavorare meno”, ma evidentemente “lavorare meglio”.

Il concetto che è alla radice del Quiet Quitting, termine con il quale si descrive la nuova tendenza dei lavoratori di dare più peso alla qualità della vita privata rispetto alla crescita lavorativa, ritengo rivesta anche una concezione filosofica-esistenziale della vita moderna e comunque proiettata al futuro. Ad ogni modo una vera rivoluzione di atteggiamento propugnata soprattutto dalla generazione Z e dai Millennial. In questo cambio di direzione ha inciso molto la pandemia che, complice lo smart working, ci ha fatto passare per normalità il lavoro da casa senza alcun orario, limite o articolazione temporale.

Tutto questo porta automaticamente ad un altro risultato: quello di sentirsi emotivamente meno coinvolti negli obiettivi aziendali o delle proprie Amministrazioni di appartenenza

Non secondario è stato anche affrontare, con la giusta consapevolezza, il problema del “Burnout” al tempo dell'iper connessione e del lavoro senza limiti. Conseguentemente la volontà espressa, principalmente dalle nuove generazioni, di riprendersi in mano la vita, è stata la risposta ad una condizione lavorativa che in molti casi è sfociata in malattia, appunto la sindrome da Burnout, ossia la manifestazione fisiologica che induce una sensazione di sfinimento, distacco mentale e calo dell’efficienza fisica e lavorativa. Cosa che ha prodotto sovraccarico lavorativo e ha influito negativamente nelle relazioni familiari, nelle amicizie e nella qualità del tempo libero.

All’interno di grandi aziende, in ambito privato, si tende ormai con maggior consapevolezza verso la direzione del lavoro sostenibile, della settimana corta, del lavoro a progetto, con orari maggiormente flessibili. Questo in quanto differenti studi, come di anzi riportato, hanno dimostrato che lavorare meno, e meglio, significa molto spesso ottenere risultati migliori per le imprese, come pure per la propria crescita personale (oltre a migliorare di fatto la vita privata). Ricercare il giusto bilanciamento tra vita privata e carriera risulta essere un obiettivo legittimamente perseguibile per manager e lavoratori. Non è un caso che si inizi a pensare al lavoro come strumento non dirimente e quindi anche per migliorare l’impiego del nostro tempo libero e non viceversa.

La domanda da porsi, alla base della diffusione del fenomeno Quiet Quitting è: lavorare tanto, comprimendo la propria vita privata, per ottenere il massimo dal proprio lavoro, o lavorare il giusto rinunciando a qualche promozione, ma beneficiando rispetto al miglioramento della qualità di vita?

Tale interrogativo, in maniera conscia o inconscia, tormenta tutti sin dal primo giorno di lavoro, anche se probabilmente, per la cosiddetta generazione Z, non sembrano esserci dubbi, o forse, su tale dilemma i convincimenti appaiono essere più chiari rispetto, ad esempio, a coloro che, viceversa, appartengono alla generazione boomer.


Conclusioni


Pennesi 56 4Una serie di domande, in conclusione, dobbiamo pur porci… ossia: quanto è inevitabile il processo di liberazione e di affrancamento sociale dell’uomo, e quindi il suo riscatto dal lavoro, almeno per come lo conosciamo oggi?
Alla riduzione della fatica per i singoli, si può accompagnare una distribuzione del reddito più giusta, equilibrata e sostenibile, dal punto di vista sociale?

E ancora: è realistico pensare ad una riorganizzazione più imparziale della società che getti le basi per una distribuzione solidale dei frutti della crescita economica, supportata dalla tecnologia, con un occhio alla qualità del lavoro?

È altrettanto perseguibile una consistente diminuzione dell'impatto ambientale per tali scelte di politica economica?

Lasciamo questi interrogativi a future e necessarie riflessioni sul tema.

Osserviamo però, al contempo, che quello che sta succedendo è diverso: l’aumento di produttività del lavoro, almeno quella perseguita, che potrebbe portare alla riduzione delle ore di lavoro di ciascuno, viene utilizzata, con troppa frequenza, per ridurre, invece, le unità di personale che lavorano a tempo pieno.

L’uomo non è un mistero, da sempre rincorre l’anelito di creare strumenti e metodi di lavoro capaci di consentirgli di faticare meno, o di fare le stesse cose con minor sforzo e minor tempo. Negli ultimi secoli la velocità dell’innovazione è andata progressivamente accelerando, arrivando, in questi anni, ai ritmi esasperati che hanno indirizzato specifici studi dei nostri più attenti studiosi, come il sociologo-economico Zygmunt Bauman, che tanto si è impegnato ad indagare e sviluppare un concetto di assoluta modernità ossia quello della cosiddetta “società liquida”.

In definitiva, la crisi dell’occupazione può considerarsi ormai strutturale, dovuta anche al “cambiamento” endogeno del mondo del lavoro, dall’avvento di nuove tecnologie, dalla crisi di sovrapproduzione del sistema capitalistico e dall’evoluzione dello scacchiere geopolitico internazionale. Ripensare il sistema socioeconomico sarà d’obbligo e sicuramente richiederà molto tempo.

Frattanto, sarebbe importante cominciare a ridare “dignità umana” alle persone e pensare ad avviare un percorso che conduca, progressivamente e ponderatamente, alla settimana corta, a parità di salario. Questo evidentemente per migliorare, per quanto possibile, la qualità della vita e al contempo promuovere un incremento della cosiddetta piena occupazione.

Rammentiamo quindi, per concludere, un vecchio adagio: “Lavorare per vivere o vivere per lavorare…”. Qui si racchiude, evidentemente, la distanza e l’idea tra due modelli di società postfordiste, a questo abbiniamo il fatto che molti giovani della generazione Z come dei millennial, ma non solo, ritengono che il lavoro non debba più essere al primo posto nella vita, con tutto quello che ne consegue… Menzioniamo, altresì, un’affermazione illuminata del compianto Ezio Tarantelli, assassinato nel lontano 1984, “lavorare di meno per occupare di più”. In futuro, pertanto, si potrebbe promuovere questo adagio: “vivere è vivere, lavorare per lavorare.” Quadrato Rosso

[*] Dirigente dell’INL, Direttore Ispettorato territoriale del lavoro di Prato e Pistoia - Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro” nonché della cattedra di “Diritto del Lavoro”. Il presente contributo è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna l’Amministrazione di appartenenza.

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