Anno XI - n° 56

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Marzo/Aprile 2023

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Anno XI - n° 56

Marzo/Aprile 2023

Nuove frontiere di performance

Riflessioni teoriche ed evidenze empiriche d’avanguardia


di Sandro Colombi [*]

Sandro Colombi 56

Se qualcuno chiedesse qual è l’ossessione del datore di lavoro pubblico c’è da indicare la valutazione dei pubblici dipendenti ai fini dell’erogazione dei premi di produttività. Un tema che negli ultimi vent’anni ha fatto la storia di riforme, norme, decreti, regolamenti, circolari, linee guida, interpretazioni e clausole contrattuali.

Il tutto corroborato dall’introduzione di complicati meccanismi tecnici per calcolare la produttività e determinare il collegamento fra obiettivi programmati, risultati raggiunti e quote individuali di retribuzione premiale ad essi collegata: ciò che nel lavoro privato si definisce banalmente “premio di risultato”. Con una differenza: nel privato i premi di risultato aziendali viaggiano su un importo medio tra i 1.500 e i 2.000 euro all’anno, anche grazie a una legislazione di sostegno che ne abbatte il carico fiscale, mentre nella P.A., dove la legislazione di sostegno non esiste, l’importo medio del premio di produttività annuale in un’amministrazione delle Funzioni Centrali è intorno ai 500 euro.

E allora va detto con chiarezza: c’è una subcultura che pesa come un macigno sul lavoro pubblico: considerarlo come se fosse qualcosa di diverso dal resto del mondo del lavoro. Una tipologia da gestire secondo regole autonome fissate per legge, come se si trattasse di un territorio esclusivo del potere politico e dell’alta burocrazia che di quel potere è la diretta espressione.

Esiste un’alternativa a questa subcultura e il Sindacato l’ha indicata da anni: l’unificazione delle regole pubblico-privato e la piena contrattualizzazione del rapporto di lavoro. Il che significa che al centro dell’organizzazione del lavoro non deve esserci una classe di burocrati tecnici consulenti ed esperti legati a filo doppio al decisore politico, ma un sistema di relazioni industriali strutturato, maturo e funzionale.

Colombi 56 1Il tema non ha perso affatto di attualità. Anzi, è ancor più vivo e urgente proprio alla luce delle nuove prospettive di riforma che stanno maturando intorno al mondo della P.A. Infatti, la previsione contenuta nel PNRR riguarda proprio la: “Riforma del sistema di valutazione delle prestazioni e rafforzamento del legame tra avanzamento di carriera e valutazione delle prestazioni”.

Non è dato ancora capire come l’attuale governo intende affrontare il problema. Però è chiaro per il bene della P.A. e del Paese bisognerebbe smetterla una buona volta di pensare alla performance dei dipendenti pubblici come a un procedimento amministrativo da istruire attraverso una serie di passaggi burocratici a scadenze temporali prefissate e in base a formule, parametri e tabelle definite con circolare ministeriale.

Le “Linee guida” per l’attuazione delle nuove regole sulla performance nei Ministeri” riportano un condensato tecnico di cosa si intende per performance e management nelle amministrazioni centrali dello Stato. In estrema sintesi: si è in presenza di una giungla di diagrammi, box esplicativi, incastri di documenti programmatici annuali e pluriennali, dotte citazioni farcite di inglesorum. In altre parole, niente di più lontano da una gestione degli strumenti produttivi orientata all’output grazie al supporto di una struttura organizzativa moderna e funzionale e con la collaborazione attiva del personale.

Il problema è che oggi il processo di performance management nella P.A. di fatto consiste nel mero perfezionamento formale di atti prescritti dalla legge. O almeno, questo è ciò che oggi per lo più avviene nelle nostre amministrazioni. La sostanziale inefficienza dell’attuale sistema di misurazione e valutazione della performance rappresenta l’inesorabile sbocco di quell’ossessione di cui parlavo all’inizio. E che affonda le sue radici soprattutto nella ricerca di una visibilità mediatica funzionale alle esigenze della politica.

Ma, paradossalmente, questa pulsione propagandista rispetto alla necessità di intervenire sulla presunta scarsa produttività del lavoro pubblico è sempre andata a braccetto con la tendenza a considerare la P.A. un costo da tagliare. E così siamo andati avanti per decenni cullandoci nell’illusione di poter migliorare il livello di performance riducendo il personale.

È un fatto che tutti i tentativi di promuovere nella P.A. una cultura manageriale nella gestione della performance è sempre stato stroncato sul nascere dal contenimento della spesa pubblica agendo sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti. Ecco qual è stato il corto circuito che ha mandato in tilt l’operazione performance nella P.A.

Si è preteso di introdurre ‘ope legis’ un sistema di misurazione e valutazione della produttività in un contesto organizzativo e progettuale dominato dal sacro dogma dei ‘compiti a casa’ assegnati da Bruxelles e delle ‘riforme a costo zero’. E così il tema della premialità e della meritocrazia nella P.A. è stato sottoposto a una torsione innaturale, sconosciuta nel mondo dell’impresa privata, così riassumibile: utilizzare le risorse dei fondi produttività – che sono risorse di tutti i lavoratori – per pagare meglio l’élite dei meritevoli e alleggerire la busta paga di tutti gli altri. Non funziona. Primo perché, è una leggenda che nei meandri ministeriali, esisterebbe un pungo di mostri di bravura che meriterebbero di guadagnare il doppio, ma che purtroppo non è possibile premiare, perché i sindacati vanno contro il merito individuale e impongono criteri livellanti di distribuzione dei premi che, in ultima analisi, avvantaggiano i fannulloni e i mediocri; secondo, perché il vero problema è la drammatica realtà condizioni in cui oggi versa l’organizzazione del lavoro in quasi tutte le pubbliche amministrazioni. La priorità è cambiare questa realtà. Il resto viene dopo.

In una moderna organizzazione del lavoro l’esaltazione delle cosiddette eccellenze è un controsenso. La qualità dei processi lavorativi e del risultato che ne deriva sono valori che emergono più in termini organizzativi che individuali. Ed è in termini organizzativi che ha senso misurarli. Perché allora non si prova a ragionare in termini di staff da organizzare, coordinare e valorizzare, piuttosto che di individualità da far emergere? Perché non intervenire sui fattori che impediscono di modificare le condizioni di svolgimento dell’attività lavorativa, invece di inseguire le solite ricette neoliberiste che oggi appaiono del tutto anacronistiche di fronte al disastro demografico e professionale in cui versa la pubblica amministrazione italiana?

L’ultimo rapporto semestrale ARAN sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti ha evidenziato un problema che va affrontato e risolto: negli ultimi dieci anni le retribuzioni medie annuali dei dipendenti pubblici sono cresciute molto meno di quelle del settore privato, malgrado siano stati chiusi due rinnovi contrattuali triennali nel 2018 e nel 2022. Allo stesso tempo, la Ragioneria Generale dello Stato nei suoi report annuali certifica il crollo occupazionale del settore pubblico è proseguito senza sosta. Per esempio, il comparto Funzioni Centrali alla fine del 2020 registrava una forza attiva di 214.335 dipendenti, circa 15mila in meno dell’anno precedente, mentre nel 2001 le stesse amministrazioni, nel loro insieme, potevano contare su 330.400 unità di personale in servizio. In 20 anni è stato perso più di un terzo del personale. È ovvio che il problema demografico si riflette nelle attuali carenze professionali. I dati relativi alla distribuzione dei dipendenti pubblici per classi di età sono impressionanti a tal punto che la stessa Ragioneria Generale dello Stato deve ammettere: “Nella classe 60-64 nel 2020 si trova molto più personale di quanto non sia mai accaduto, quasi un dipendente su sette si trova infatti in questa classe; di numerosità non trascurabile è diventata la classe 65-67, che ha superato quella 20-24.”

Colombi 56 2Atteso che si è dinanzi a una continua emorragia professionale, come si può pensare di costruire una macchina amministrativa pubblica efficace ed efficiente? Nel pubblico come nel privato, le competenze che generano buona performance non si improvvisano. La professionalità è il risultato di una lunga esperienza acquisita sul campo, di un percorso di crescita e di aggiornamento. Ma deriva anche da un processo di trasmissione delle competenze da una generazione all’altra che nel settore pubblico si sta perdendo con gravi conseguenze sul piano organizzativo in molte strutture pubbliche che svolgono compiti particolarmente delicati.

Del resto, persino la matrigna Europa si è accorta che negli ultimi vent’anni l’andamento della spesa reale per il pubblico impiego in Italia, al netto dell’inflazione, è scesa quasi del 15%, mentre negli altri Paesi dell’Unione è cresciuta in media del 12%. Ciò vuol dire che tutte le innovazioni legislative introdotte nello stesso arco di tempo in termini di performance management erano pure astrazioni. La realtà dei fatti indica invece un progetto di politica economica finalizzato a smontare il settore pubblico un pezzo alla volta, per trasferire funzioni e servizi nelle mani dei privati. Si sta facendo così da anni con risultati disastrosi col pretesto della scarsa produttività e dell’incapacità di adottare metodi di gestione manageriale realmente efficienti.

Il fatto nuovo e per certi aspetti paradossale è che i distruttori della macchina amministrativa dello Stato italiano, Bruxelles in testa, ci spiegano oggi che l’inefficienza della nostra P.A è dipesa non dalla mancata misurazione della performance o dalla poca selettività dei premi incentivanti, ma dai tagli selvaggi imposti dall’austerità e dal fatto che gli altri Paesi europei hanno investito nel settore pubblico mentre noi tagliavamo le risorse.

Questa ammissione lascerebbe sperare che siamo di fronte a un ripensamento delle politiche di austerity. Purtroppo no, a giudicare dai contenuti dell’ultima legge di bilancio non mi pare proprio. Anzi, direi che siamo ancora pienamente immersi nella logica dei tagli lineari, dei compiti a casa assegnatici dall’Europa e della compressione della spesa pubblica. Solo per quanto riguarda i ministeri sono stati infatti decisi 800 milioni di euro di tagli per il 2023, che saliranno a 1,2 miliardi nel 2024 e a 1,5 miliardi nel 2025. In tutto, 3 miliardi e mezzo di tagli di spesa in un triennio. Che andranno ovviamente a incidere sulla capacità delle amministrazioni di svolgere i loro compiti istituzionali e di svolgere servizi adeguati alle attese della collettività.

Non usciremo dalla frustrazione di non aver dato alla P.A. un sistema realmente efficace di misurazione e valorizzazione della performance dei propri dipendenti se prima non risolveremo i problemi economico-organizzativi in cui versano le strutture della Pubblica Amministrazione italiana al tempo del PNRR.

Una sana politica di performance management della P.A. italiana deve puntare innanzitutto alla riorganizzazione delle linee di lavoro interne delle amministrazioni, con il drastico alleggerimento di tutte le ridondanze operative che non hanno riflesso sulla qualità dei servizi. A cominciare dall’abnorme dispendio di risorse organizzative necessarie a garantire gli adempimenti amministrativi connessi al “ciclo” della performance. Continuare a specchiarsi in sterili virtuosismi di matrice amministrativista in nome di un concetto di produttività fine a sé stesso sarebbe l’errore più grave che la P.A. italiana può commettere, mancando l’occasione di realizzare finalmente la svolta in grado di riportarla sulla strada dell’innovazione e della partecipazione attiva di tutti i suoi protagonisti in ogni fase del processo produttivo. Quadrato Rosso

[*] Segretario Generale UILPA

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