Anno XI - n° 59

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Settembre/Ottobre 2023

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Anno XI - n° 59

Settembre/Ottobre 2023

Secondo la Corte d’Appello di Roma

Giurisprudenza del lavoro antidiscriminatoria

Step 2


di Gianna Elena De Filippis [*]

Gianna Elena De Filippis 43 44

Al mio amico Andrea Lucchetti.

In prosecuzione del precedente articolo, pubblicato sul numero 58/2023 di questa rivista, si porrà attenzione sulla seconda fattispecie giuridica sottoposta al vaglio della Corte d’Appello, Sez. Lavoro, di Roma e conclusa pochi mesi fa con esito favorevole per i lavoratori.

La prima fattispecie, esaminata nel precedente articolo, riguarda l’accertata discriminazione subita dai lavoratori part time nell’acquisizione del parametro superiore nel settore degli Autoferrotranvieri.

De Filippis 59 3La seconda fattispecie, invece, di analoga complessità ed innovazione, riguarda l’accertamento della natura discriminatoria del comportamento della società ATAC Spa consistente nel mancato computo delle assenze dovute a causa di assistenza ai familiari portatori di handicap nella determinazione degli elementi retributivi aggiuntivi introdotti con la contrattazione aziendale dal 2014. In sostanza, ai lavoratori assenti per permessi ex lege n. 104/92 non viene riconosciuto l’elemento retributivo aggiuntivo legato alla presenza; diversamente, a tale scopo, altri permessi, per voluntas degli stessi contratti aziendali, sono considerati presenze: ad esempio, i permessi sindacali ex art. 23, legge n. 300/1970.

Tale situazione di fatto ha alimentato molto malcontento tra i lavoratori al punto da farli approdare in tribunale e poi in Corte d’Appello a Roma.

La questione trova il suo nucleo nella disciplina antidiscriminatoria per motivi legati al fattore “handicap”. Gli accordi aziendali qualificano come effettiva presenza i giorni di permesso 104 fruiti per se stessi, coniuge e figli ma alla luce degli stessi accordi aziendali, i giorni di permesso 104 fruiti per assistere altre categorie di parenti ed affini, pur aventi diritto ad essere assistiti secondo l’elenco di cui all’art. 33, legge n. 104/92, sono considerati assenze (ai fini dell’erogazione delle voci retributive aggiuntive oggetto di lite).

Con ricorso ex art. 702-bis cpc, si è posta l’attenzione sull’accertamento della violazione del principio di parità di trattamento, limpidamente definito nel d.lgs. n. 216/2003, Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

In dettaglio, all’art. 2 del citato decreto, si definisce il principio di parità di trattamento quale assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite:

  1. discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga;
  2. discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.


In termini di valore assoluto, il trattamento di minor favore riservato ai lavoratori che utilizzano permessi per assistere familiari in condizioni di disabilità, secondo la definizione dell’art. 33, legge n. 104/92, è chiaramente un trattamento illegittimo, tenuto conto anche di tutto il ricco ed articolato complesso normativo italiano istituito ad hoc proprio per garantire assistenza, tutela e supporto ai disabili e, soprattutto, alle loro famiglie. L’esercizio di un diritto non dovrebbe in alcun modo penalizzare chi lo esercita e non può essere accolta la tesi secondo cui a codesti lavoratori è comunque riconosciuta la retribuzione minima tabellare come da CCNL.

De Filippis 59 1Ricollegandoci ai principi costituzionali di uguaglianza formale e sostanziale e richiamandoci, inoltre, al valore fondante del lavoro nella società (Artt. 2, 3, 4, 35, 36, 37 Cost.), riprendendo i capisaldi della regolazione di fonte eurounitaria (Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27.11.2000), le disposizioni contenute nella citata direttiva vanno ricondotte, secondo logica, al canone della cd. parificazione, essendo il principio di “non discriminazione” funzionale al sostegno della condizione di maggior debolezza contrattuale che caratterizza il lavoratore che assiste familiari disabili rispetto al lavoratore “standard”.

Le disposizioni “incriminate” dei contratti aziendali, in sostanza, apparentemente neutre e/o imparziali, applicandole, mettono i lavoratori che usufruiscono dei permessi 104 (e che si assentano perciò solo per motivi legati alla disabilità) in una palese posizione di particolare svantaggio rispetto ad altri lavoratori.

D’altronde, è irrilevante che tali effetti dipendano da disciplina di fonte collettiva. Ciò alla luce della portata imperativa del precetto antidiscriminatorio per cui le clausole dei contratti collettivi, anche se in astratto appaiono corrette, possono produrre effetti discriminatori con riferimento alla situazione concreta in cui versano i lavoratori nei singoli contesti aziendali.

Premesso che l’art. 33, c.3, legge n. 104/92, stabilisce:

A condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa,

detto dispositivo risulta violato dagli accordi aziendali applicati in ATAC SpA sia nella parte in cui gli stessi accordi limitano le categorie di soggetti disabili assistiti secondo una gradazione differenziata di tutele (legata al grado di parentela/affinità) sia nella parte in cui – testualmente – l’art. 33 riconosce permessi mensili retribuiti e coperti da contribuzione figurativa.

In più casi finalmente in Italia inizia ad affermarsi un nuovo orientamento antidiscriminatorio su questo tema; per esempio, la Sezione Lavoro della Corte d’Appello di Torino, con sentenza n. 212/2022, ha giudicato discriminatorio il criterio di calcolo del premio di risultato previsto in un accordo sindacale aziendale poichè non considerava, ai fini della determinazione del predetto istituto retributivo, i permessi fruiti ai sensi dell’art. 33 L. n. 104/1992 come equivalenti alla presenza in servizio.

La sentenza n. 2217/2023 della Corte d’Appello, Sez. Lavoro, di Roma, nel nostro caso, è particolarmente importante per avere creato un precedente giurisprudenziale unico e nuovo contro ATAC Spa, dopo anni di inutili precedenti tentativi processuali.

Il percorso giuridico è molto articolato e di estremo interesse riportando le ricche argomentazioni contenute nel ricorso in appello, spaziando dal diritto eurounitario a quello internazionale e nazionale.

L’esito è l’accertamento della condotta discriminatoria aziendale a danno dei lavoratori fruitori dei permessi ex lege n. 104/92, con contestuale riconoscimento del risarcimento del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale in loro favore ed ordine di immediata cessazione del comportamento discriminatorio.

De Filippis 59 2D’altronde, lo scorso ottobre 2022, il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità ha rilevato che l’Italia non assicura un quadro giuridico adeguato di tutela e assistenza per i caregiver familiari, riscontrando che l’incapacità dell’ordinamento giuridico nazionale di fornire servizi di supporto individualizzati a una famiglia di persone con disabilità è discriminatoria e viola i loro diritti alla vita familiare a vivere in modo indipendente e ad avere adeguati standard di vita.

La pronuncia trae origine dalla richiesta di una cittadina italiana, caregiver familiare della figlia e del partner, entrambi persone disabili, la quale ha denunciato il mancato riconoscimento dello status legale e di una protezione specifica alle persone che assistono i propri familiari affetti da patologie invalidanti, individuato come fonte di pregiudizio per tutti i membri della famiglia.

Aldilà di pochi strumenti normativi adottati per i lavoratori dipendenti ed ancora poco efficaci (manca ancora una vera “cultura” protettiva nelle aziende), l’unica tutela riconosciuta dallo Stato è, infatti, una prestazione economica, di esiguo importo, a beneficio della sola persona con disabilità, mentre nessuna forma di sostegno è prevista direttamente a favore di chi la assiste.

Rimangono in vita, invece, ancora ridicoli sistemi di inserimento in “graduatoria” persino per la concessione delle ferie in base alle assenze avute nel corso dell’anno e tra queste assenze risultano menzionati i permessi ex lege n. 104/92 di tal guisa che usufruendone per 3 giorni ogni mese, in pratica, quasi sempre il caregiver è in posizione di svantaggio nella suddetta graduatoria.

Inutile giustificare tali prassi con frasi di circostanza poco credibili. Sebbene possano esserci elevati livelli di assenteismo cattivo e anche di abuso degli istituti in esame, il problema andrebbe affrontato e studiato a monte: innanzitutto, approntando seri sistemi di controllo su eventuali illegittimi abusi; in secondo luogo, verificando e studiando soluzioni concrete per abbattere soglie di assenteismo cattivo e per accrescere i generali livelli di soddisfazione sul posto di lavoro.

In generale, nel mondo del lavoro è inderogabile ed indifferibile ormai un ritorno al “pensare per valori”, un ritorno ai fini universali che riguardano la dignità e i bisogni vitali dell’individuo; il diritto del lavoro che è il principe del diritto “umano” quale fonte e strumento di emancipazione individuale non può più prescindere da certe profonde argomentazioni filosofico-politiche che pongono al centro degli interessi l’uomo. Quadrato Rosso

[*] Consulente del lavoro, svolge altresì attività legale in collaborazione con l’Avv. Prof. Fabrizio Proietti e con l’Avv. Luca Parisella. Docente in prestazione occasionale Università Sapienza. Vincitrice Premio Massimo D’Antona 2013. www.sibillaconsulting.com

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