Il “lavoro” della casalinga nell'ottica della reingegnerizzazione del sistema familiare e sociale

di Isabella Spanò [*]

Isabella SpanoLa società moderna ha visto le donne affermarsi nei più svariati campi, come sappiamo, alla pari dell'uomo; e giustamente. Ha finito peraltro per imporsi in modo surrettizio la percezione per cui una donna senza un lavoro fuori casa debba essere considerata persona “di serie B”.
In che modo l'ordinamento italiano asseconda e favorisce una visione della società nella quale le donne – lungi dall'etichettarle con la locuzione “angeli del focolare”, per la sensibilità contemporanea melensa ed ipocrita – rappresentino la precondizione di un assetto fondato sul luogo principe del sano sviluppo umano, ovvero, per legge naturale, la famiglia monogamica ed eterosessuale? Ed in virtù di ciò, è lecito cullare il sogno di una società diversa, nel quale, lo status di casalinga sia non solo rispettato, ma anzi stimato e desiderato?

Di seguito, un excursus delle norme e della giurisprudenza che nel corso del tempo si sono orientate nel senso sopra descritto:

  • la legge n. 389 del 5 marzo 1963 introduce la tutela previdenziale per il lavoro casalingo mediante un'apposita gestione separata INPS, istitutiva della “mutualità pensioni” a favore della casalinghe tra i 15 e i 50 anni dedite esclusivamente all’attività domestica e di cura della famiglia;
  • con decreto del Presidente della Repubbblica 24 aprile 1964, n. 66, è emanato il regolamento per l'esecuzione della legge di cui sopra;
  • la sentenza della Corte Costituzionale del 1995 riconosce il lavoro della casalinga come un’attività lavorativa a tutti gli effetti, in quanto ha un elevato valore sociale ed economico e può quindi essere ricompreso nella norma costituzionale che tutela il lavoro in tutte le sue forme (art. 35);
  • con decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 565, è istituito il “Fondo di previdenza per le persone che svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità familiari” dell'INPS, ad iscrizione volontaria sebbene di previdenza pubblica e non complementare (cfr. in proposito A. Sgroi, “Tutela previdenziale delle persone che espletano lavori di cura non retribuiti verso famigliari” su www.diritto.net); il versamento contributivo minimo mensile – totalmente deducibile dal reddito familiare – è di 25,82 euro; l'importo finale della pensione è determinato secondo il sistema contributivo, ma la casalinga può restare al contempo titolare di pensione ai superstiti ed anche titolare di trattamento di previdenza complementare;
  • la legge n. 493 del 1999 introduce il fondo speciale INAIL per l’assicurazione – obbligatoria dal 1° marzo 2001 – delle casalinghe contro gli infortuni domestici che diano luogo ad invalidità permanente superiore al 33%, con un premio da versare di appena 12,91 euro all’anno per chi abbia un reddito personale complessivo lordo superiore a 4.648,11 euro o faccia parte di un nucleo familiare con reddito complessivo lordo superiore ai 9.296,22 euro annui;
  • la legge n. 448 del 23 dicembre 1998 introduce nell'ordinamento italiano l'assegno di maternità per le madri non lavoratrici, che non beneficiano del trattamento previdenziale dell’indennità di maternità; l'assegno, concesso dal Comune ma erogato dall'INPS, è di 338,21 euro per cinque mensilità;
  • la sentenza della Corte di Cassazione, sez. terza civ., 20324/2005, conclude che chi svolge attività domestica, tradizionalmente attribuita alla “casalinga”, pur non percependo reddito monetizzato, svolge un'attività suscettibile di valutazione economica;
  • la sentenza della Corte d’Appello di Roma 1462/2006 ribadisce il concetto espresso dalla Suprema Corte nel 2005;
  • la decisione del Consiglio di Stato 4293/2008 conferma una precedente sentenza del TAR Toscana di riconoscimento ad un padre del diritto di fruire delle due ore – massime – di riposo giornaliero per accudire uno o più figli di età inferiore all'anno in alternativa alla madre impegnata nell'attività di casalinga;
  • la sentenza della Corte di Cassazione n. 1343/2009 si esprime sulla falsariga della sentenza del 2005;
  • la sentenza della Corte di Cassazione, sez. terza civ., 16896/2010 conferma come “principio di diritto” quello per cui la casalinga svolge attività suscettibile di valutazione economica.


Vale la pena approfondire la più recente giurisprudenza sopra citata.

Per quanto concerne Cass. 20324/05, la menzionata sentenza aveva enunciato che il danno patito dalla casalinga in conseguenza della riduzione della propria capacità lavorativa – si verteva nel caso di un incidente stradale che aveva impedito ad una donna di continuare a svolgere l'attività domestica – deve essere considerato danno patrimoniale e quindi risarcito eventualmente anche come lucro cessante. Infatti, considera la Suprema Corte, ‹‹il fondamento di tale diritto […] è […] pur sempre di natura costituzionale […], riposa sui principi di cui agli artt. 4, 36 e 37 della Costituzione (che tutelano, rispettivamente, la scelta di qualsiasi forma di lavoro ed i diritti del lavoratore e della donna lavoratrice)››. Sulla scorta della giurisprudenza di legittimità, nell'interessantissima sentenza si arriva ad affermare – giustamente, a parere di chi scrive – che riconoscere i “diritti della famiglia” ai sensi della art. 39 Cost. dev'essere inteso in senso lato come modalità di realizzazione della vita dell'individuo; di modo che, se il fatto lesivo ha alterato l'assetto familiare dilatando bisogni e doveri e riducendo, o addirittura annullando, per converso, le positività del rapporto parentale, il danno non patrimoniale dev'essere ristorato ex art. 2059 c. c..

Spano 6 1Precisando invece i contenuti della storica decisione del Consiglio di Stato, in premessa bisogna rammentare che l’art. 6-ter l. 903/77 (introdotto dalla legge 59/00) stabilisce che: ‹‹I periodi di riposo di cui all’art. 10 della legge 30 dicembre 1971 n. 1204 e successive modificazioni e i relativi trattamenti economici sono riconosciuti al padre lavoratore: a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre; b) in alternativa alla madre lavoratrice che non se ne avvalga; c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente [...]”. Orbene, secondo i giudici di Palazzo Spada, in forza del fatto che numerosi settori dell’ordinamento considerano la figura della casalinga come lavoratrice, il TAR aveva ritenuto correttamente che l’espressione sub b) ‹‹possa dirsi comprensiva della “lavoratrice” casalinga››. La decisione recita testualmente: ‹‹Posto, infatti, che la nozione di lavoratore assume diversi significati nell’ordinamento, ed in particolare nelle materie privatistiche ed in quelle pubblicistiche, è a quest’ultimo che occorre fare riferimento, trattandosi di una norma rivolta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità, in attuazione delle finalità generali, di tipo promozionale, scolpite dall’art. 31 della Costituzione./In tale prospettiva, essendo noto che numerosi settori dell’ordinamento considerano la figura della casalinga come lavoratrice [...], non può che valorizzarsi la ratio della norma, volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato››.

Per quel che riguarda la sentenza della Corte d’Appello, vi resta confermato che anche le casalinghe hanno diritto al risarcimento del cosiddetto "danno patrimoniale" se in conseguenza di un incidente abbiano subito un’invalidità permanente tale da costringerle ad assumere o a ricorrere all’assistenza di una colf; in essa si sottolinea che chi svolge lavori di cura ed assistenza domestica e familiare ‹‹in caso di invalidità permanenti subisce una perdita, economicamente valutabile, che la costringe a fare a meno delle sue capacità di lavoro in ambito domestico e a dover ricorrere a terzi per l'espletamento di quel lavoro necessario che rimane comunque necessario e non diversamente sostituibile››.

La sentenza della Corte di Cassazione del 2009, poi, ha ampliato ulteriormente il concetto di lucro cessante per la casalinga che in futuro terminerà anticipatamente l’attività domestica per l’usura delle proprie energie determinata da un sinistro.

Infine, in Cass. 1343/2009 si è precisato che ‹‹il principio che consente di risarcire un danno futuro ed incerto deve essere individuato nel diritto delle vittime al risarcimento totale dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, conseguenti alla lesione dei diritti umani fondamentali, tra cui la salute e il diritto al lavoro, che compete anche alla casalinga››.


Certo, la valorizzazione del lavoro domestico e di cura da parte della donna pare avere un quid d’anacronistico, oggi che i nuclei monoparentali si moltiplicano e che la crisi economica tende a stritolare le magre risorse delle primarie cellule sociali. Ma il discorso potrebbe senz’altro svilupparsi in relazione al dilemma che una donna può affrontare, ovvero se restare casalinga o mettersi a lavorare guadagnando sì, ma spendendo eventualmente altrettanto o di più in termini di trasporti, di vestiario imposto da un “dress code”, di baby sitter, di nidi d’infanzia, di scuole materne, di cure mediche dovute a surmenage e a volte a mobbing, e soprattutto di tempo – il tempo è denaro – sottratto a quella fonte di vita che è la cura degli affetti familiari. Ma non è questo il luogo di un tale genere di disamina.

Quello che chi scrive si sente di affermare in chiusura è che senz’altro gli stakeholder interessati davvero al tema del sostegno alla famiglia anche mediante il sostegno alla donna che lavora entro le mura domestiche dovrebbero svolgere una sempre maggiore attività di lobbying verso le istituzioni, sul modello efficace di associazioni quali il Movimento Italiano Casalinghe (MOICA), il Sindacato delle Famiglie, la Federcasalinghe. Quadrato Verde

[*] Dottore di ricerca in “Relazioni di lavoro internazionali e comparate” – Vincitrice 2009 del “Premio Massimo D’Antona” – Ispettore del Lavoro in servizio presso la Direzione Territoriale del Lavoro di Parma. Questo articolo è frutto esclusivo del proprio libero pensiero, espresso nel rispetto della normativa vigente e delle indicazioni fornite dal Ministero del lavoro e, comunque, non comporta impegni per l’Amministrazione stessa.


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