Anno XII - n° 62

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Marzo/Aprile 2024

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Anno XII - n° 62

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Il reato di omicidio sul lavoro

Tra istanze securitarie, populismo penale e tutela dei diritti


di Mario Crispino [*]

Mario Crispino 62

Sull’onda emotiva della strage al cantiere Esselunga di Firenze si riapre il dibattito sulla possibile introduzione del reato di omicidio sul lavoro. Consumata l’ennesima tragedia, il mondo politico, mosso da una sorta di riflesso pavloviano, invoca l’intervento penale per fermare le cosiddette morti bianche.

Sono definite così le morti sul lavoro, “bianche”, per alludere alla mancanza di un diretto responsabile. Ma a ben vedere si tratta di un’espressione impropria, un eufemismo, utile solo a depotenziare la gravità di certi accadimenti. In realtà, un responsabile c’è sempre. Molto spesso ad uccidere è la spietata logica del profitto, che vede nella sicurezza solo un costo da ridurre.


Omicidio sul lavoro: le proposte di legge


Non è certo la prima volta che si parla del reato di omicidio sul lavoro in Italia. L’omicidio, specie quando avviene sul luogo di lavoro, è sempre in grado di suscitare un forte allarme sociale nonché l’indignazione della quasi totalità dell’opinione pubblica. Ciclicamente, infatti, dopo ogni tragico evento, la società sembra generare una domanda di repressione esemplare che la classe politica, tuttavia, non sa e non vuole mediare.

Numerose sono le proposte avanzate nel corso degli anni che hanno assunto a modello l’analoga introduzione – con la legge n. 41/2016 – di delitti specifici per morte o lesioni cagionate con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale. Sulla falsariga dell’omicidio stradale, quindi, l’intenzione è quella di rendere autonomo il reato ed inasprire la risposta sanzionatoria, attribuendo rilevanza penale ad una serie di condotte, graduando altresì la colpa a seconda delle norme violate in tema di sicurezza.

Già nel corso della XVII e XVIII legislatura sono stati presentati al Senato della Repubblica due disegni di legge molto simili, il cui iter di discussione non è mai iniziato, il primo DDL a firma dei Senatori Barozzino e Casson[1] ed il secondo a firma della Senatrice Valeria Valente[2]. In tempi più recenti, inoltre, è stata depositata alla Camera una nuova proposta di legge su iniziativa della deputata Braga[3]. Secondo quest’ultima proposta la pena prevista dalla nuova figura di reato resterebbe invariata rispetto a quella vigente, prevedendo un incremento di pena nel caso in cui la morte sia cagionata nell’esecuzione di un rapporto di lavoro irregolare ed escludendo espressamente gli istituti della messa alla prova e della non punibilità per particolare tenuità del fatto.

Sul fronte sindacale, invece, la UIL – promotrice della campagna “Zero morti sul lavoro” – da anni chiede al governo di introdurre nell’ordinamento il reato di omicidio sul lavoro, quale forma necessaria di deterrenza non più rimandabile, in grado di rafforzare la consapevolezza della gravità della volontaria disapplicazione delle regole e dei dispositivi di prevenzione.

La necessità di introdurre una nuova fattispecie di reato è altresì condivisa dall’USB che l’estate scorsa ha lanciato una campagna di raccolta firme per sostenere una legge di iniziativa popolare[4].

L’Unione Sindacale di Base è parte del comitato promotore insieme ad altre forze politiche e sociali, tra cui il movimento politico Potere al Popolo, la Rete Iside Onlus, realtà che da anni si occupa di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e Movimenta, associazione politico-culturale fondata da donne impegnate per la pace e la difesa dei diritti umani.

La proposta di legge di iniziativa popolare, oltre a prevedere l’introduzione del reato di omicidio e lesioni gravi o gravissime sul lavoro e un aumento rilevante delle pene, istituisce un percorso giudiziario rapido nonché la possibilità per il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) di rivolgersi alla magistratura con procedura di urgenza. Al fine di risolvere alcune criticità, si prospetta anche una nuova modalità di Valutazione dei Rischi e di elaborazione del relativo Documento (DVR), in modo da evitare che tale adempimento risulti facilmente aggirabile dal datore di lavoro.


L’attuale impianto normativo


Eppure, il codice penale, all’art. 589 comma 2, già prevede il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. La norma prevede una circostanza aggravante c.d. ad effetto speciale, che comporta cioè un aggravamento superiore ad un terzo della pena base prevista per l’omicidio colposo.

Crispino 62 1Attualmente, la fattispecie di delitto circostanziata è punita con la pena della reclusione da due a sette anni; in presenza di una pluralità di vittime, tuttavia, l’ultimo comma del citato articolo prevede l’applicazione della pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, con la previsione di un tetto massimo di quindici anni di reclusione.

Il riferimento alla normativa antinfortunistica, non contemplato nella formulazione originaria della norma, fu introdotto con la legge n. 296/1966: l’inasprimento delle sanzioni, come si legge nei lavori preparatori, doveva fungere da impulso all'ottemperanza delle disposizioni prevenzionistiche innanzitutto nei confronti di quei datori di lavoro poco scrupolosi per i quali i motivi di lucro prevalgono sulla salvaguardia della vita umana. La cornice edittale ha subito un ulteriore innalzamento ad opera della l. 102/2006 e, successivamente, del d.l. n. 92/2008, convertito nella l. 1252/2008. La c.d. aggravante prevenzionistica di cui all’art. 589 comma 2 c.p. costituisce inoltre elemento costitutivo dell’illecito amministrativo dipendente da reato dell’ente ai sensi dell’articolo 25-septies d.lgs. 231/2001.

Per una chiara perimetrazione dell’ambito applicativo della fattispecie di reato in parola è necessario, in primo luogo, comprendere quali siano le disposizioni normative la cui inosservanza può integrare una violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. A tal riguardo, si consideri che gli obblighi gravanti sul datore di lavoro di fornire un’adeguata informazione, formazione e addestramento dei lavoratori dipendenti, nonché gli obblighi inerenti alla valutazione e documentazione dei rischi rivestono natura cautelare rispetto all’ evento lesivo della vita del lavoratore. In altri termini, la violazione dei predetti obblighi, oltre a integrare autonomi reati contravvenzionali ai sensi del D.lgs. n. 81/2008 (Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro), costituisce al contempo il fondamento normativo su cui ancorare la colpa specifica del datore di lavoro nel caso in cui sopraggiunga la morte del lavoratore[5].

Occorre, altresì, tenere presente che la portata applicativa del delitto colposo di cui all’art.589 comma 2 c.p. ha subito nel tempo una progressiva dilatazione per effetto dell’interpretazione giurisprudenziale[6]. La Corte di Cassazione, infatti, ha in più occasioni avuto modo di chiarire che la responsabilità del datore di lavoro per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità psico-fisica del lavoratore, sussiste non solo quando sia contestata la violazione di specifiche norme per la prevenzione degli infortuni ma può altresì fondarsi sulla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 del codice civile, che pone in capo al datore di lavoro, rectius imprenditore, l’obbligo di evitare ogni situazione di pericolo dalla quale possa verificarsi un evento dannoso[7].

L’art. 2087 c.c. sembra quindi essere considerata una norma di chiusura del sistema antinfortunistico, estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore.

Sul punto, inoltre, la nota pronuncia della Cassazione relativa al c.d. disastro di Viareggio[8] ha evidenziato che ai fini dell’applicazione dell’aggravante prevenzionistica, rilevano anche le norme che, direttamente o indirettamente, perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro o malattie professionali nonché, più in generale, quelle che tendono a garantire la sicurezza del lavoro, cosicché «il dato meramente nominalistico e topografico non assume rilievo dirimente».

Prestando attenzione, dunque, si comprende come il nostro legislatore non sia rimasto inerte di fronte al fenomeno, fornendo già un’adeguata risposta sanzionatoria. La figura di reato in esame, infatti – pur non configurando una fattispecie autonoma – vanta un ampio raggio d’azione ed è sanzionata con pene che appaiono già proporzionate al disvalore oggettivo del fatto e al bene giuridico tutelato, ossia la vita e l’incolumità fisica delle lavoratrici e dei lavoratori.


Vecchi problemi, nuovi reati


Alla luce dell’attuale assetto normativo, allora, occorre chiedersi se l’introduzione di un nuovo reato nell’ordinamento sia funzionale a soddisfare reali esigenze di sicurezza oppure – più verosimilmente – se sia strumentale al perseguimento di obiettivi simbolici e alla salvaguardia di interessi ulteriori.

Sono anni ormai, infatti, che il nostro legislatore fa un uso demagogico e strumentale del diritto penale, ricorrendo sempre più spesso alla criminalizzazione per sedare le paure collettive.

Il fenomeno non è nuovo e non stupisce affatto: la pena è da sempre chiamata in qualche modo ad assolvere a una funzione rassicurante per il corpo sociale. Ciò che spaventa, invece, è il pericolo che la sanzione penale da extrema ratio diventi un mero strumento di propaganda per riscuotere consenso elettorale, senza produrre alcun effetto reale in termini di deterrenza.

D’altronde, le evidenze statistiche dimostrano che non sussiste alcuna relazione univoca tra inasprimento delle pene e significativa diminuzione dei reati. La stessa giurisprudenza di legittimità, da tempo ormai, sostiene che la gravità della sanzione non assicura sempre un effetto di deterrenza. Paradigmatico è quanto avvenuto con l’approvazione della legge n. 49/2006, c.d. Fini-Giovanardi, che non ha prodotto alcuna contrazione dei reati in materia di stupefacenti.

Ancora più eclatante è quanto si è registrato in seguito all’introduzione del reato di omicidio stradale. Osservando i dati, infatti, si comprende come la legge n.41/2016 – a cui si ispirano le recenti proposte in tema di omicidio sul lavoro – non abbia in alcun modo contribuito a ridurre la mortalità sulle strade, fallendo nel suo dichiarato intento. Al contrario, dalle rilevazioni ISTAT emerge come nei primi anni di vigenza il numero di incidenti mortali sia addirittura aumentato, producendo un risultato diametralmente opposto a quello perseguito[9].

Del resto, risulta a dir poco arduo pretendere – sul piano logico ancor prima che giuridico – considerevoli effetti deterrenti dalla previsione di pene che, seppur severe, sono destinate a trovare applicazione solo in presenza di un evento tendenzialmente inatteso come un incidente mortale.

Crispino 62 2Ulteriore dato che dovrebbe indurre a riflettere sull’efficacia dello strumento penale, deriva dal fatto che un calo significato del numero di incidenti stradali si è manifestato solo in seguito a riforme aventi sostanzialmente carattere amministrativo, ossia l’introduzione della patente a punti, nel 2003, e la riforma del Codice della Strada, nel 2010. Insomma, quello dell’omicidio stradale non rappresenta certo un esempio virtuoso da seguire.

Tracciato questo quadro, emerge, quindi, come questa deriva panpenalistica – tristemente bipartisan – sembri nascondere l’incapacità dei governi di affrontare in maniera radicale il problema della sicurezza sui luoghi di lavoro. Pertanto, sorge spontanea un’altra domanda: l’introduzione di nuovi reati o l’inasprimento del regime sanzionatorio esistente è utile? A chi?

L’impressione, a parere di chi scrive, è che dietro le proposte finalizzate ad introdurre il reato di omicidio sul lavoro nel nostro ordinamento si celino istanze essenzialmente simboliche, proprie di un diritto penale di matrice populista. La classe politica sembra preferire comode scorciatoie piuttosto che interrogarsi sulle soluzioni più efficaci. E non risulta difficile capire la ragione: una seria politica di prevenzione, infatti, richiederebbe un impegno di gran lunga superiore che non è possibile rivendicare nel breve periodo.


Le strade alternative


In realtà, numerosi sono i temi che meriterebbero di essere affrontati prioritariamente per migliorare la vigilanza sul lavoro e la prevenzione degli infortuni. Primo fra tutti il sistema dei subappalti a cascata, che allo stato attuale rappresenta una minaccia per i diritti e la sicurezza dei lavoratori.

La polverizzazione della filiera degli appalti, infatti, ostacola i controlli, favorisce una sostanziale deregolamentazione e alimenta un vortice di lavoro precario. Non è un caso che i lavoratori scomparsi negli ultimi tragici eventi – a Firenze nel cantiere Esselunga, sulla pista di Nardò della Porsche e nello stabilimento Stellantis di Pratola – sono tutti accomunati dal fatto di essere dipendenti di ditte in appalto.

Altro punto critico è rappresentato dalla carenza di organico dell’Ispettorato nazionale del lavoro: l’attuale numero di ispettori, non risulta affatto sufficiente a garantire un monitoraggio approfondito e capillare, anche a seguito delle recenti assunzioni.

Ancora: anziché introdurre nuovi reati, andrebbe intrapreso un percorso di responsabilizzazione delle imprese, anche attraverso l’adozione di meccanismi premiali in favore delle aziende che rispettano le regole e che assicurano le tutele per la prevenzione degli infortuni. In questa prospettiva, occorre monitorare con attenzione l’attuazione della c.d. patente a punti, verificando la concreta adeguatezza del nuovo sistema di qualificazione delle imprese edilizie.

A prescindere poi dagli obblighi formali derivanti dalla legge, sarebbe altresì opportuno incentivare una formazione mirata e specifica dei dipendenti, la quale, come è noto, costituisce una delle misure di prevenzione più efficaci per evitare o ridurre gli infortuni.

Più in generale – condividendo il recente monito del presidente della Repubblica – è sempre più sentita l’urgenza di avviare un processo di sensibilizzazione per diffondere una vera e propria cultura della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, a partire dai banchi di scuola.


In conclusione


Le considerazioni che precedono non hanno alcuna pretesa di completezza o sistematicità ma mirano a offrire spunti di riflessione sull’inadeguatezza dello strumento penale a fronteggiare il problema della sicurezza sui luoghi di lavoro e – di conseguenza – sulla necessità di adottare più concrete soluzioni sul piano politico e normativo.

L’odierno populismo penale reca in sé la pericolosa illusione che la politica non debba svolgere alcuna funzione di mediazione dei conflitti sociali, limitandosi a replicare alle istanze emergenti dalla comunità[10]. Ciò, tuttavia, conduce a quello che la dottrina penalistica ha definito un cortocircuito democratico: il diritto rischia così di restare intrappolato nel giudizio dell’opinione pubblica ma a pagarne gli effetti sono sempre le lavoratrici e i lavoratori, giacché – usando le parole del professore Luigi Ferrajoli – il populismo non conosce cittadini ma solo amici e nemici[11]. Quadrato Rosso

Note

[1] https://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/47822.htm

[2] https://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/49889.htm

[3] https://www.camera.it/leg19/126?tab=&leg=19&idDocumento=613&sede=&tipo=

[4] https://leggeomicidiosullavoro.it/

[5] M.T. Filindeu, La violazione di obblighi anti-infortunistici tra illecito permanente e colpa specifica del datore di lavoro: un quadro di sintesi in una recente sentenza della Cassazione, in Sistema penale, 01 dicembre 2020.

[6] M. Riccardi, Aggravante prevenzionistica, rischio extralavorativo e tutela “estesa” dei terzi, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 4.

[7] Si veda tra le più significative decisioni: Cass., Sez. IV, 7 marzo 1978, n. 5327; Cass., sez. VI, 8 febbraio 1979, n. 3431; Cass., sez. IV, 11 febbraio 2010, n. 8641; Cass., sez. IV, 2 luglio 2004, n. 37666; Cass., sez. IV, 30 novembre 1984, n. 1146; Cass., sez. IV, 17 aprile 2019, n. 33244.

[8] Cass., Sez. IV, 6 settembre 2021, n. 32899.

[9] https://www.istat.it/it/files/2022/07/REPORT_INCIDENTI_STRADALI_2021.pdf

[10] AA.VV., La società punitiva. Populismo, diritto penale simbolico e ruolo del penalista, dibattito promosso nell’ambito della AIPDP, i cui atti sono pubblicati, in Diritto penale contemporaneo, 21 dicembre 2016.

[11] L. Ferrajoli, Il populismo penale nell’età dei populismi politici, in Questione giustizia, 2019,1.

[*] Funzionario dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro – Direzione Centrale. Il presente contributo è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna l’Amministrazione di appartenenza.

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