Fino all’entrata in vigore del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (nel seguito, per brevità C.C.I.I.)[1], mancava un approccio etico alla gestione della crisi, né vi era stata alcuna attenzione al tema della responsabilità sociale dell’impresa in crisi (cd. CSR) né tanto meno a quello della sicurezza del lavoro e dell’ambiente; trattasi di argomenti di estrema importanza nel contesto storico e sociale in cui viviamo che, però, non ci si può più permettere di ignorare. Il C.C.I.I. ha segnato dunque un cambiamento significativo, introducendo una prospettiva più etica nella gestione delle crisi aziendali. L’accento posto sulla prevenzione, l’emersione tempestiva della crisi e la continuità aziendale implica anche una maggiore attenzione agli aspetti di responsabilità sociale d’impresa (CSR). Le imprese non possono più trascurare la sicurezza sul lavoro, la tutela ambientale e il rispetto degli stakeholder, perché questi elementi non solo rafforzano la sostenibilità dell’azienda, ma sono anche indicatori chiave della sua capacità di superare eventuali difficoltà. Inoltre, la gestione etica della crisi, in linea con le direttive europee, risponde a un'esigenza sempre più sentita da parte di investitori, lavoratori e consumatori, che richiedono trasparenza e sostenibilità. Nasce così la curiosità che questo elaborato si propone di esplorare circa le possibili interconnessioni tra il diritto del lavoro e lo Sviluppo Sostenibile. In particolare, si analizzerà come una crisi d'impresa possa essere gestita senza sacrificare valori fondamentali del nostro ordinamento, quali “la sicurezza sul lavoro, la tutela dell’ambiente e la responsabilità sociale delle imprese”. Vigente la legge fallimentare[2] la crisi veniva affrontata prevalentemente con strumenti economico-finanziari, mentre oggi diventa imprescindibile considerare gli impatti sociali e ambientali delle scelte aziendali.
Da sempre nella società individui ed aggregazioni sociali avvertono l’esigenza di soddisfare i loro bisogni per definizione illimitati, utilizzando le risorse che tradizionalmente sono scarse. Appare evidente che il binomio bisogni/risorse viene a caratterizzare quelle attività che sono etichettate “economiche” e che si distinguono in attività di produzione di beni e servizi e in attività di consumo; la dualità di queste attività sposta il baricentro dal problema del rapporto bisogni illimitati e mezzi scarsi a quello ben più serio ed urgente, dell’impatto su ambiente e natura, provocato dalle attività di produzione e consumo delle risorse naturali. A partire dalla rivoluzione industriale e dall’affermarsi del modello tayloristico basato sulla razionale suddivisione del lavoro in funzioni specifiche e del modello fordistico, incentrato sul lavoro a catena, soprattutto operaio, si è assistito, ad un nuovo modo di fare impresa, produzioni più economiche a maggiori quantità e con prezzi più accessibili per un consumo più largo. Via via l’aumento demografico, la globalizzazione, il consumismo, hanno dato luogo ad un’alterazione del primigenio equilibrio uomo/natura. La devastazione ecologica che ne è derivata è visibile nei cambiamenti climatici[3], nell’aumento dei tumori provocati da sostanze cancerogene diffuse nell’ambiente, nell’inquinamento dei mari, dell’aria e, non di meno, nell’eccessiva produzione di rifiuti difficili da smaltire. L’affermarsi di una coscienza ecologica comincia a farsi strada tra individui, famiglie, operatori economici e istituzioni per ripristinare in modo armonico il rapporto tra natura, cultura e società. La logica del profitto e del tornaconto individuale che tradizionalmente era alla base delle decisioni economiche non può più essere avulsa da principi morali tra cui quelli del rispetto dell’ambiente in cui viviamo e del rispetto della salute delle generazioni presenti e future, ed ecco che si afferma timidamente nella letteratura scientifica e poi anche nel linguaggio comune il principio di sostenibilità e di sviluppo sostenibile[4].La definizione più comunemente proposta del termine è data dal Rapporto elaborato dalla Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite nel 1983 cd. Rapporto Brundtland dal nome del primo ministro norvegese[5].
Ebbene, in tale Rapporto si legge che lo sviluppo sostenibile
“soddisfa i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”. La nozione in esame fa riferimento all’esigenza di conciliare i bisogni delle generazioni presenti con quelle future con un approccio di lungo periodo nella gestione delle risorse economiche, ambientali, disponibili nel presente. Trattasi, quindi, di un concetto poliedrico ma anche elastico, capace di manifestarsi in relazione all’ambito specifico di riferimento, la sua interdisciplinarietà lo rende applicabile ad ogni campo, senza rischio di indebita appropriazione, sicché diventa “difficile rintracciare in dottrina una nozione univoca e condivisa”
[6].
Nell’epoca presente evocare il concetto di “sviluppo sostenibile” significa indagare le sue multiformi declinazioni in ambiti che spaziano dall’ambiente all’economia, dall’architettura alle scienze naturali, dalla filosofia alla medicina, dal diritto del lavoro alle scienze sociali, dalla tutela dell’ambiente a quella dei beni culturali. La compenetrazione tra sostenibilità ambientale[7], sociale, economica e soprattutto etica dà conferma della pluridimensionalità della sostenibilità.
Si può affermare, ancora, che fino alla prima metà degli anni ’90 lo sviluppo sostenibile era un concetto ancorato per lo più alla tutela dell’ambiente, negli ultimi anni il concetto ha conosciuto una connotazione più ampia e completa, declinandosi in una triplice dimensione: assumendo una valenza sia in termini di principio costituzionale sia di strumento di policy globale.
L’ingresso dello sviluppo sostenibile nelle sfere legislative ed istituzionali a livello europeo, così come a livello internazionale e nazionale, ne giustifica, addirittura l’applicazione nell’ambito del diritto del lavoro.
Tradizionalmente, il diritto del lavoro è stato considerato una branca del diritto privato[8] con particolare connotazione magmatica, un diritto cioè in continua evoluzione capace di recepire gli influssi dell’ambiente esterno. La mutazione iniziata a far data dalla fine del ventesimo secolo è stata descritta da molti giuslavoristi con un ampio ventaglio di espressioni del tipo “crisi del diritto del lavoro” o anche “crisi di identità” [9] proprio per sottolineare, come “l’innovazione tecnologica sta prepotentemente sconvolgendo il mondo del lavoro, inteso nelle sue categorie tradizionali costruite dopo anni di lotte sindacali per affermare i diritti della parte debole del rapporto, trasfusi prima nella Costituzione Repubblicana e, successivamente, nella Legge del 1970 n. 300, nota come Statuto dei lavoratori”[10]. Questa continua metamorfosi del diritto del lavoro, al fine di adattarsi al nuovo contesto storico, sociale e culturale che spingeva verso forme di lavoro più flessibili[11] per rispondere alle esigenze soprattutto della parte forte del rapporto di lavoro non è stata senza conseguenze. Infatti, si è assistito lentamente ad “uno sgretolamento irreversibile dei pilastri regolativi della materia” [12] ma anche ad un’inversione degli interessi da tutelare, le esigenze di protezione della parte debole del rapporto sono state posposte alla tutela degli interessi imprenditoriali quali quelli della flessibilità e della produttività e della economicità. Un’ulteriore lesione delle categorie tradizionali del diritto del lavoro è dovuta, infine, al cambiamento epocale avutosi con l’accelerazione del progresso tecnologico e all’impatto dell’intelligenza artificiale (cd. IA) che ha fatto emergere nuovi modelli produttivi ed organizzativi del lavoro, travolgendo il concetto di “luogo di lavoro”[13], di “lavoratore” e dello stesso “lavoro”.
Solo nel 1960 si afferma in modo definitivo la locuzione “Corporate Social Responsability” e, contemporaneamente, molti studiosi cercano di formalizzare tale concetto attraverso varie definizioni tutte accomunate dall’idea centrale che un’impresa ha responsabilità più ampie di quelle economiche e stabilite dalla legge, il termine “CSR”, però, compare per la prima volta nel 1953. Invero, agli inizi degli anni Cinquanta il tema vero e proprio di Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) comincia a prendere forma e a diffondersi; ciò è dovuto alla consapevolezza che le attività svolte dall’impresa non incidano soltanto sull’organizzazione interna ad essa, ma influenzano direttamente l’ambiente circostante, gli individui e la comunità[14]. È indispensabile, quindi, che le aziende siano consapevoli degli impatti che derivano dalla loro attività, le condizioni che devono rispettare, gli asset su cui puntare per il perseguimento di uno sviluppo sostenibile. In altri termini, si tratta di riconfigurare i processi decisionali aziendali, allargare gli orizzonti ad una visione di lungo periodo, introdurre pratiche e strumenti che, nel lungo termine, portano al raggiungimento dell’economicità, attraverso un utilizzo responsabile delle risorse disponibili siano esse materiali, immateriali, umane o naturali, considerate non solo sic et simpliciter
“meri strumenti di sopravvivenza” bensì “mezzi” su cui investire per assicurare la sopravvivenza dell’azienda nel lungo periodo. Appare evidente che il cambiamento è innanzitutto “culturale”, si tratta di cambiare gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone e dei gruppi sociali economicamente e politicamente organizzati e coinvolti a diverso titolo in questo processo.
Una definizione di responsabilità sociale d’impresa che può dirsi omnicomprensiva delle varie definizioni succedutesi nel tempo è quella contenuta nel Libro Verde [15] e proposta dalla Commissione delle Comunità Europee, ebbene “essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là investendo di più nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate”. La maggior parte degli studiosi riconosce in Howard Bowen [16] e nella sua opera “Social Responsibilities of the Businessmen” il padre della teorizzazione del concetto della “Corporate Social Responsibility” e del primo tentativo di un rapporto tra imprese e società. Alla base del pensiero di Bowen c’è la convinzione che le imprese di maggiori dimensioni rappresentano centri vitali di potere e che le loro decisioni e le loro azioni investono e condizionano la vita della società sotto diversi aspetti. L’analisi delle correlazioni esistenti tra CSR e prestazioni economiche e finanziarie evidenzia come essa non deve essere considerata come un costo, bensì come elemento in grado di condizionare positivamente la performance dell’impresa, migliorandone le prospettive di sviluppo.
In definitiva la CSR si basa sull’idea che le imprese abbiano una responsabilità non solo economica, ma anche sociale e ambientale. Il Codice della crisi promuove un approccio di prevenzione e gestione responsabile, incentivando gli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili (art. 2086, 2° co. c.c., modificato dal D. Lgs. 14/2019) con onere a carico dell’organo gestorio e di controllo, per garantire una gestione sostenibile.
Un’impresa in difficoltà deve adottare un approccio etico nella gestione della crisi, garantendo trasparenza e correttezza nelle relazioni con dipendenti, fornitori e stakeholder. Il CCII introduce strumenti per favorire l’emersione tempestiva della crisi, si pensi ad esempio alle misure stragiudiziali per la gestione della crisi come la composizione negoziata della crisi (artt. 12-25) che rappresenta una delle vere novità della riforma. Questo strumento unitamente ad altri strumenti stragiudiziali come il piano attestato, gli accordi di ristrutturazione dei debiti, la transazione fiscale, consentono di prevenire situazioni irreversibili e minimizzare gli impatti negativi su tutti gli attori coinvolti. L’etica e la solidarietà compaiono nell’art. 4 CCII
[17] rubricato “doveri delle parti”, là dove vengono declinati i doveri del debitore e dei creditori e di ogni altro soggetto interessato di comportarsi secondo buona fede e correttezza sia nella composizione negoziata, sia nel corso delle trattative e dei procedimenti per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza a dimostrazione del fatto che una ristretta visione puramente patrimonialista può dirsi superata.
Nei momenti di difficoltà economica, la sicurezza sul lavoro rischia di essere trascurata, soprattutto per abbattere i costi connessi al rispetto delle prescrizioni di legge, tipo i costi per l’assicurazione Inail del personale, spese per i Dpi, per il controllo dei macchinari, etc., con conseguenze gravi sia dal punto di vista umano che legale. Tuttavia, il D. Lgs. 81/2008 e ss. m. e i., impone obblighi stringenti in materia di salute e sicurezza, indipendentemente dalla situazione finanziaria dell’impresa. Il codice della crisi, soprattutto nella sua versione più aggiornata, mostra di voler intraprendere un percorso ispirato anche a questi valori: nel piano di concordato preventivo si prevede una specifica attenzione ai temi della sicurezza sul lavoro e della tutela dell’ambiente (art. 87, co. I, lett. f) CCII) laddove il legislatore, nel testo riformato, prevede che qualora sia prevista la “prosecuzione dell’attività d’impresa e in tutti i casi in cui le risorse per i creditori sono, in tutto o in parte, realizzate nel tempo attraverso la prosecuzione dell’attività in capo al cessionario dell’azienda, l’analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi”,… deve tener conto anche “dei costi necessari per assicurare il rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro e di tutela dell’ambiente”. Inoltre, la giurisprudenza ha chiarito che una crisi economica non giustifica il mancato rispetto delle normative sulla sicurezza (Cass. Pen. Sez. IV, Sent. n. 37766/2019). Le imprese devono quindi continuare a garantire condizioni di lavoro sicure, evitando tagli che possano compromettere la salute dei lavoratori.
La gestione della crisi d’impresa non può più prescindere da un approccio etico e responsabile. Il nuovo quadro normativo impone una visione integrata che consideri non solo la stabilità finanziaria, ma anche l’impatto sociale e ambientale delle decisioni aziendali. Le imprese che adottano strategie di CSR, trasparenza etica e sicurezza sul lavoro non solo rispettano la normativa vigente, ma aumentano anche le loro probabilità di superare con successo le difficoltà, rafforzando la fiducia di lavoratori, investitori e comunità, accrescendo la loro reputazione verso l’esterno.
[1] È noto che il Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza è stato emanato con il D. Lgs.14/2019, in attuazione della Legge delega 177/2015 (cd. Legge Madia) ed entrato in vigore definitivamente dopo una lunga gestazione e cioè il 22 luglio 2022, salvo poche norme, in genere quelli che hanno modificato gli articoli del cod. civ. entrati in vigore il 16.03.2019.
[2] Il riferimento è al r.d. 267/1942.
[3] È da notare che, nonostante il cambiamento climatico costituisce un gravissimo problema che affligge l’umanità, la sensazione è che i politici di molte parti del mondo non riconoscano adeguato peso. Secondo alcuni scienziati del Consiglio Nazionale delle Ricerche, in mancanza di misure adeguate, in tempi brevi, è in pericolo non solo la salubrità dell’ambiente o la salute nostra e dei posteri, ma la stessa sopravvivenza della specie umana.
[4] Cfr. Pillitu P.A., 2007, “Il principio dello sviluppo sostenibile nel diritto ambientale dell’Unione europea, in P. Fois (a cura di), Il principio dello sviluppo sostenibile nel diritto internazionale ed europeo dell’ambiente, XI Convegno Alghero, 16-17 giugno 2006, Napoli. Marzanati A., 2003, “Lo sviluppo sostenibile, in A. Lucarelli – Patroni Griffi A., (a cura di), Studi sulla Costituzione europea. Percorsi e ipotesi”, Napoli.
[5] Rapporto Brundtland, Our Common Future, elaborato dalla Commissione Mondiale sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite, riunitasi nel 1983, presieduta da Madame Gro Harlem Brundtland, primo ministro norvegese, dal quale ha preso nome il Rapporto.
[6] In tal senso Cagnin V., “Diritto del Lavoro e sviluppo sostenibile”, Wolters Kluwer Italia, Cedam, 2018.
[7] Per approfondimenti V. Magatti M., 2017, “Cambio di paradigma, uscire dalla crisi pensando al futuro”, Milano.
[8] Infatti, regola il rapporto tra datori di lavoro e lavoratori. Tuttavia, poiché spesso intervengono norme e principi che tutelano i lavoratori (considerati la parte più debole del contratto del lavoro) non mancano impatti di carattere pubblico che vedono lo Stato intervenire per garantire i diritti minimi dei lavoratori.
[9] In tal senso, cfr. D’Antona M., “Diritto del lavoro di fine secolo, una crisi d’identità”? In Riv. giur. lav., 1998, 1.
[10] In tal senso v. Giannetti I., Metallo C., Lepore L., Sorrentino M. e Alvino F., “Metaverso: sfide e opportunità emergenti” in Rivista Elettronica di Diritto, Economia, Management, CLIOEDU n. 5/2024. In senso contrario, e cioè “dell’incapacità del diritto del lavoro di adeguare le proprie strutture cognitive e valutative, in una parola la propria razionalità, ad un contesto economico, sociale e culturale profondamente trasformato”, cfr. Perulli A., “Efficient break, valori del mercato e tutela della stabilità. Il controllo del giudice sui licenziamenti economici in Italia, Francia e Spagna”, in Riv. giur. lav., 2012, I.
[11] Il riferimento è ai contratti a termine, la somministrazione, il lavoro accessorio, le co.co.co. etc.
[12] L’espressione è coniata da Cagnin V., “Diritto del Lavoro e sviluppo sostenibile”, Wolters Kluwer Italia, Cedam, 2018. Cfr. anche D’Antona M., op.cit. che individuava quattro pilastri del diritto del lavoro: lo Stato-nazione, la grande fabbrica, la piena occupazione e la rappresentanza generale del lavoro attraverso il sindacato.
[13] Si pensi ad es. all’organizzazione del lavoro per il tramite di piattaforme che ha enormemente cambiato il concetto di lavoratore e di luogo di lavoro, per approfondimenti v. Giannetti I.-Migliaccio S., “I lavoratori della Gig Economy e le tutele sul lavoro” in Rivista Lavoro@Confronto n. 65/2024, o anche alle nuove prospettive di lavoro nel Metaverso, v. Giannetti I., Metallo C., Lepore L., Sorrentino M. e Alvino F., op.cit.
[14] V. Carroll A.B., 1998, The four faces of corporate citizenship, in Business and Society Review, Vol. 100, n. 1, Wartick S.L. Cochran P. L., 1985, The evolution of the corporate social performance model, in “Academy of Management Review”, Vol.10, n. 4.
[15] Comunità Europee, Commissione, Libro Verde, paragrafo 21, (2001). In questo caso la CSR viene considerata come l’integrazione volontaria da parte delle imprese delle preoccupazioni sociali ed ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate.
[16] Bowen H., 1953, Social responsabilities of the businessmen, Haper and Brothers, New York.
[17] Si tratta di una norma che si trova inserita nel Capo II del CCII dedicato ai “Principi Generali” ed è una novità l’enunciazione di principi generali nel campo del diritto concorsuale, senza precedenti. Il medesimo articolo ha subito delle modifiche dopo l’introduzione del correttivo-ter; in particolare, il suo primo comma vede estendere il dovere di comportarsi secondo buona fede e correttezza anche “ad ogni altro soggetto interessato”.
1. Ballucchi F. – Furlotti K., 2022, “La responsabilità sociale delle imprese”, Un percorso verso lo sviluppo sostenibile, terza edizione.
2. Cagnin V., 2018, “Diritto del Lavoro e sviluppo sostenibile”, Wolters Kluwer Italia, Cedam.
3. Carroll A.B., 1998, “The four faces of corporate citizenship” in Business and Society Review, Vol. 100, n. 1.
4. D’Antona M., 1998, “Diritto del lavoro di fine secolo, una crisi d’identità?”, In Riv. giur. lav., 1.
5. Gangi F. – Mustilli M., 2018, “La responsabilità sociale dell’impresa”, Egea Editore.
6. Giannetti I., Metallo C., Lepore L., Sorrentino M. e Alvino F., 2024, “Metaverso: sfide e opportunità emergenti” in Rivista Elettronica di Diritto, Economia, Management, CLIOEDU n. 5.
7. Giannetti I. - Migliaccio S., “I lavoratori della Gig Economy e le tutele sul lavoro” in Rivista Lavoro@Confronto n. 65/2024.
8. Magatti M., 2017, “Cambio di paradigma, uscire dalla crisi pensando al futuro”, Milano.
9. Marzanati A., 2003, “Lo sviluppo sostenibile, in A. Lucarelli – Patroni Griffi A., (a cura di), Studi sulla Costituzione europea. Percorsi e ipotesi”, Napoli.
10. Perulli A., 2012, “Efficient break, valori del mercato e tutela della stabilità. Il controllo del giudice sui licenziamenti economici in Italia”, Wolters Kluwer Italia, Francia e Spagna, in Riv. giur. lav., I.
11. Pillitu P.A., 2007, “Il principio dello sviluppo sostenibile nel diritto ambientale dell’Unione europea”, in P. Fois (a cura di), “Il principio dello sviluppo sostenibile nel diritto internazionale ed europeo dell’ambient”, XI Convegno Alghero, 16-17 giugno 2006, Napoli.
12. Sciarelli M., 2012, “Corporate Social Performance”, Il valore allargato nella prospettiva degli stakeholder, Cedam
13. Sciarelli S., 2007, “Etica e responsabilità sociale nell’impresa”, Giuffrè editore.
14. Videtta C., 2018, “Cultura e sviluppo sostenibile”, in Nuovi Problemi di amministrazione pubblica, a cura di Scoca F.G., Giappichelli G., Editore - Torino.
15. Wartick S.L., Cochran P.L., 1985, “The evolution of the corporate social performance model”, in Academy of Management Review, Vol.10, n. 4.
[*] Dottoranda di ricerca presso Università Mercatorum di Roma. Cultore della materia in Economia Aziendale presso Università Parthenope di Napoli. Ispettore del Lavoro presso ITL di Napoli. Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autrice e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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