Anno XIII - n° 69

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Maggio/Giugno 2025

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Anno XIII - n° 69

Maggio/Giugno 2025

I presupposti di legittimità del Patto di prova

Analisi della più recente giurisprudenza


di Eugenio Erario Boccafurni [*]

Eugenio Erario Boccafurni 67

Negli anni sono proliferate le pronunce giurisprudenziali volte a circoscrivere, specie in chiave antielusiva, i limiti allo svolgimento della prova nei rapporti di lavoro.

Tale elemento accidentale del contratto di lavoro, infatti, che nel nostro ordinamento trova una scarna regolamentazione – a favore di un’ampia delega alla contrattazione collettiva – rappresenta uno degli espedienti per l’aggiramento delle norme poste a garanzia del lavoro subordinato a tempo indeterminato (su tutte, il set di regole sul regime sanzionatorio nei licenziamenti individuali).

Erario Boccafurni 69 1Ebbene, il periodo di prova, che deve risultare da atto scritto “ad substantiam” (rectius: a pena di nullità), è finalizzato a consentire ad entrambe le Parti di valutare la reciproca convenienza a rendere definitivo il rapporto e trova la propria regolamentazione, in massima parte, nell’art. 2096 c.c., ma anche nell’art. 10 della L. 604/1966 e nell’art. 7 del D.lgs. n. 104/2022, ovvero il cd. “decreto trasparenza”.

A proposito del vincolo di forma, la Cassazione, con l’ordinanza n. 8849 del 23 aprile 2025, sulla non contestualità della sottoscrizione del patto prima dell’esecuzione della prova, ha chiarito che la mancanza della forma scritta non può essere sanata ex post neanche da una scrittura privata tra le parti: «tale essenziale requisito di forma [...] deve sussistere sin dall'inizio del rapporto di lavoro, senza alcuna possibilità di equipollenti o sanatorie, potendo ammettersi solo la non contestualità della sottoscrizione di entrambe le parti prima della esecuzione del contratto, ma non anche la successiva documentazione della clausola mediante la sottoscrizione originariamente mancante» (Conf: Cass. 21758/2010; 22308/2004; 681/2004; 11122/2002).

Inoltre, proprio di recente il cd. “collegato lavoro”, ovvero la L. 103/2024 in vigore dal 12.01.2025, nel modificare sostanzialmente il predetto art. 7 del “decreto trasparenza”, ha integrato il principio di proporzionalità della durata della prova nei rapporti a tempo determinato introducendo una sua specifica quantificazione volta a conferire certezza ai rapporti: “Fatte salve le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva, la durata del periodo di prova è stabilita in un giorno di effettiva prestazione per ogni quindici giorni di calendario a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro. In ogni caso la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni né superiore a quindici giorni, per i rapporti di lavoro aventi durata non superiore a sei mesi, e a trenta giorni, per quelli aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi”.

Il Ministero del Lavoro, con la circolare interpretativa n. 6 del 27.03.2025, frenando gli “entusiasmi derogatori” dei primi commentatori, ha precisato che la delega alla contrattazione collettiva (ovvero quel “Fatte salve le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva”) non ammette la possibilità di deroga dei limiti massimi introdotti dal collegato: “atteso che l’autonomia contrattuale non può – per principio generale – introdurre una disciplina peggiorativa rispetto a quella legale […] per quanto riguarda i criteri in base ai quali valutare quali disposizioni contrattuali siano più favorevoli rispetto alla previsione normativa, occorre considerare che generalmente – in applicazione del principio del favor prestatoris, per il quale in ambito lavoristico è da preferire l’interpretazione che accorda una maggiore tutela al lavoratore – viene considerata più favorevole per il lavoratore una minore estensione del periodo di prova, a causa della precarietà che lo stesso comporta per il lavoratore”.


Il Principio di specificità del Patto: il rimando “per relationem”


Erario Boccafurni 69 2L’accordo per non essere irrimediabilmente viziato deve descrivere le mansioni oggetto di prova con sufficiente precisione così da permettere al lavoratore di comprendere chiaramente il contenuto dell’esperimento lavorativo e al datore di valutare le competenze in relazione alle esigenze aziendali.

È importante tener presente che la Cassazione, con l’ordinanza n. 15326 del 09.06.2025, ha ribadito che, ai fini della validità del relativo patto, è possibile individuare le mansioni oggetto della prova mediante il richiamo alla contrattazione collettiva, ovvero il cd. “rimando per relationem” del contratto individuale e/o della lettera di assunzione al relativo CCNL.

La pronuncia è tutt’altro che un unicum, essendo adesiva a Cass. 1099/2022 e Cass. 5881/2023.

Tale rimando alle declaratorie del contratto collettivo, pratica particolarmente diffusa tra gli operatori HR, è ammesso purché il richiamo sia sufficientemente specifico e riferibile alla nozione classificatoria più dettagliata: «sicché, se la categoria di un determinato livello accorpi un pluralità di profili, è necessaria l'indicazione del singolo profilo, mentre risulterebbe generica quella della sola categoria» (Cass. 15326/2025).

Ne consegue che allorquando il CCNL accorpi una pluralità di profili, salvo che il rinvio per relationem non sia particolarmente specifico, il patto di prova risulterà illegittimamente apposto al contratto di lavoro.


L’effettività dello svolgimento della prova e i limiti alla sua ripetizione


Il comma secondo dell’art. 7 del D.lgs. n. 104/2022, recependo gli orientamenti giurisprudenziali cristalizzatisi nel tempo, ha stabilito che “in caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell'assenza”.

Sennonché, volgendo lo sguardo alla giurisprudenza di legittimità (Cfr. Cass. nn. 19043/2015; 8237/2015; 23061/2007), è stato chiarito che il decorso è escluso nei giorni in cui la prestazione non si è verificata per eventi non prevedibili al momento della stipulazione del patto stesso: malattia, infortunio, gravidanza, puerperio, esercizio del diritto di sciopero e godimento delle ferie annuali.

Viceversa, il decorso del periodo di prova non si sospende nelle ipotesi di mancata prestazione lavorativa inerenti al normale svolgimento del rapporto, quali i riposi settimanali e le festività.

Inoltre, sempre l’art. 7 del decreto trasparenza, al fine di evitare l’abusiva reiterazione di tali periodi, dispone: “In caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova”.

Tra le rarissime eccezioni al principio di non ripetibilità della prova tra le medesime Parti e per lo svolgimento delle stesse mansioni, la Cassazione, con le sentenze nn. 22809/2019 e 15059/2015 ha stabilito che essa è ammissibile soltanto laddove il datore debba verificare, oltre alle qualità professionali, “anche altri elementi passibili di mutamenti nel corso del tempo, quali il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all'adempimento della prestazione” (a fare da discrimen è l’eventuale rilevante lasso temporale trascorso dall’ultima prestazione lavorativa resa).


Le conseguenze sanzionatorie nel caso di patto illegittimo


Erario Boccafurni 69 3Non tutti i profili di illegittimità del patto di prova ne determinano la sua nullità e la relativa costituzione del rapporto di lavoro (con applicazione della normativa sui licenziamenti).

La giurisprudenza infatti è solita distinguere tra vizio genetico e vizio funzionale del patto, con differenti conseguenze sanzionatorie.

Il vizio “genetico” è il profilo più grave di illegittimità, che si ha nel caso in cui il patto sia privo della forma scritta ovvero allorquando esso sia generico, in violazione del suddetto principio di specificità («il patto di prova era privo di oggetto e dunque tamquam non esset», Corte d’Appello di Roma, 27 gennaio 2025). Parimenti dicasi nella fattispecie della violazione del principio di non ripetibilità.

Il vizio “genetico” determina la nullità del patto asseritamente posto in essere tra le Parti e, pertanto, nel caso di licenziamento per mancato superamento del periodo di prova trova applicazione la tutela reintegratoria (Cfr. Trib. Treviso sentenza n. 333 del 30.03.2025 e Corte d’Appello di Roma, 27 gennaio 2025).

Viceversa, il vizio “funzionale” si ha nel caso in cui ad un dipendente in prova siano di fatto assegnate mansioni diverse da quelle contenute nel patto sottoscritto (ipotesi che ricorre frequentemente nella pratica) e/o allorquando il decorso del periodo si sia interrotto (es: nel caso di malattia o infortunio) e il lavoratore non abbia potuto svolgerle.

Nella circostanza presa in esame dal Tribunale di Messina, con la sentenza n. 591 del 26.02.2025, ove la ricorrente aveva svolto le mansioni afferenti la qualifica di “cassiera” e non quelle tipiche della “salumiera”, in relazione alle quali doveva essere valutata (perché dedotte nella relativa clausola): si è stabilito che il lavoratore ha diritto alla prosecuzione della prova o, qualora non sia possibile, al ristoro del pregiudizio sofferto.

Ebbene il giudice siciliano, escludendo l’applicabilità della disciplina dei licenziamenti individuali, ha concluso per il diritto della lavoratrice alla ripetizione (o alla monetizzazione) del periodo di prova: “trattandosi di vizio funzionale del patto di prova validamente apposto (nella specie, per l'assegnazione in concreto di mansioni diverse da quelle indicate nella clausola accessoria) non trova applicazione la disciplina del licenziamento individuale – come nel caso di vizio genetico (qui non denunciato), ad esempio per difetto di forma scritta o per mancata specificazione delle mansioni da espletarsi – bensì lo speciale regime del recesso in periodo di prova, che prevede il diritto del lavoratore alla prosecuzione dell'esperimento, ove possibile, ovvero al ristoro del pregiudizio sofferto (v. Cass. n. 29208/2019)”. Quadrato Rosso

[*] Avvocato e Dottore di ricerca in Diritto del lavoro ‒ Università di Roma “La Sapienza”, già Assegnista di Ricerca in Diritto del Lavoro presso l’Università “Carlo Bo” di Urbino. Attualmente è responsabile del Processo Pianificazione della Direzione Interregionale del Lavoro del Centro.
Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non rappresentano il punto di vista dell’Amministrazione di appartenenza.

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