Massimo D’Antona e la Sua riforma della Pubblica Amministrazione

di Dario Messineo [*]

Messineo 2 11. Prefazione; 2. La riforma della pubblica amministrazione: dalla legge al contratto; 3. La giurisdizione del giudice del lavoro; 4. Il contratto collettivo nel pubblico impiego; 5. Punti critici nel rapporto tra pubblico e privato; 6. Il ruolo della dirigenza; 7. La riforma dello sciopero nei servizi pubblici essenziali; 8. Conclusioni.

6. Il ruolo della dirigenza

La riforma della dirigenza pubblica sicuramente costituisce il nodo principale delle innovazioni del pubblico impiego e su questa si sofferma D’Antona in maniera completa e con una competenza che è degna di un esperto di tematiche giuspubblicistiche che tutt’oggi rimangono attuali e soprattutto lasciate irrisolte anche dalla recente riforma dettata dalla l. 15/2009. D’Antona, difatti, individua come punti di maggiore rilevanza la distinzione tra indirizzo politico e gestione amministrativa, assegnazione delle risorse, finanziarie ed umane, necessarie ai compiti istituzionali, meccanismi di controllo della gestione, strumenti di valutazione dei risultati.

Questi punti, purtroppo, non sono stati perseguiti sino in fondo, vuoi per la scarsa comprensione delle problematiche del pubblico impiego da parte della politica, vuoi per l’esiguità delle risorse finanziarie che i governi hanno voluto investire, non riuscendo a colpire gli effettivi sprechi pubblici per l’inestricabile intreccio di interessi politici ed economici convergenti.

Ebbene, a D’Antona non sfugge, innanzitutto, la necessità di contrattualizzare la dirigenza in modo da spezzare il patto tra “fedeltà ed immunità” che porta alla sostanziale inamovibilità dei dirigenti, anche di quelli incapaci ed improduttivi[1], ma ritiene che l’alta dirigenza debba sottostare a questo processo di privatizzazione pur non invadendo quello statuto di doveri e di garanzie che da un lato garantiscono che l’alto dirigente impersoni direttamente lo Stato e dall’altro che sia circondato da adeguate garanzie rispetto al potere politico con il quale è direttamente a contatto[2].

D Antona DidaD’Antona avvertiva lo “spoil system”, introdotto solo successivamente con la legge 145/2002 , come rottura con la tradizione dell’alta dirigenza come corpo permanente[3], ma in ogni caso riteneva che non vi fosse un’illimitata fungibilità tra dirigente privato e dirigente pubblico. Da approfondito studioso e mostrando di comprendere le dinamiche del pubblico impiego meglio di chi sbandiera competenze senza averne alcuna, avvertiva la necessità della specifica professionalità del dirigente della p.a., quando quest’ultimo adotta provvedimenti, usa risorse pubbliche, vincolate ad obiettivi, si misura con i diritti dei cittadini, ed impersona lo Stato e più in generale il pubblico potere in azione. Questo dirigente non è solo un manager, ma è anche, nell’accezione migliore del termine, un pubblico funzionario, portatore di una professionalità che non sia legalista, cioè attento agli aspetti formali e non a quelli pratici, ma che sicuramente includerà un’adeguata consapevolezza dell’ambiente normativo nel quale le attività che comportano l’esercizio di poteri pubblici o la spesa di risorse pubbliche si collocano in termini di controlli e di conseguenti responsabilità.

Ebbene il dirigente pubblico non nasce dal nulla, ma deve avere conoscenza appropriata ed approfondita del lavoro che svolge. Anche se D’Antona non lo dice espressamente, questa conoscenza non può che nascere dall’effettuazione di un “periodo di gavetta”, e da un’apertura a concorsi pubblici che siano svolti per titoli ed esami, e che verifichino la professionalità e la competenza, nonchè la provata esperienza dei funzionari pubblici e che possano mirare alla verifica delle capacità manageriale protese alle necessità e ai bisogni del pubblico impiego. Ma D’Antona poiché conosceva le peculiarità all’interno della pubblica amministrazione, distingueva tra dirigenti, che definiva “corpi tecnici”, che non sono manager che ottimizzano le risorse, per il conseguimento degli obiettivi generali, ma che sono portatori di una specifica professionalità che assumono il coordinamento di attività tecniche delle quali possiedono uno specifico sapere, dai dirigenti pubblici, invece, fungibili con il settore privato. Quella dei “corpi tecnici” di estrazione pubblica che sono messi a capo di strutture tecniche o di progetti o di servizi di alto contenuto professionale, riprende la tradizione francese, secondo D’Antona e dovrebbe essere promossa nelle pubbliche amministrazioni, ove è carente, per spinte corporative e subalterne alla dirigenza amministrativa. Anche qui lo studioso, colpiva nel segno, avvertendo fortemente la necessità di strutture che approfondissero questioni tecniche all’interno dei singoli ministeri per acquisire professionalità specifiche in tema di contenziosi giudiziari o in tema di competenze ingegneristiche o professionali.

Messineo 7 1Nell’ambito di questo studio approfondito, D’Antona distingueva dalle sopra indicate categorie i dirigenti che operano nel settore pubblico perfettamente fungibili con il settore privato perché la professionalità richiesta è sostanzialmente la stessa. Questa fenomenologia si riscontra normalmente nei settori della pubblica amministrazione a vocazione economico–produttiva che erogano servizi, come le aziende sanitarie locali, o le aziende di monopolio. Ciò in quanto un ospedale può essere pubblico o privato e il manager dell’ospedale può essere come formazione pubblico o privato, a parte qualche competenza specifica in materia di legislazione o contrattazione collettiva applicabile.

L’altro argomento su cui D’Antona concentra la propria attenzione è la formazione di dirigenti.

La questione che avverte come fondamentale è che quella sulla dirigenza deve essere non oggetto ma soggetto promotore delle riforme del sistema amministrativo italiano[4].

Egli punta il dito sulla dirigenza e sull’inesistenza di professionalità adeguate, non ritenendo il corpo dei dirigenti nelle condizioni migliori per accettare una cultura dell’innovazione per essere classe dirigente dell’innovazione, e ciò per ragioni diverse, non escluse quelle anagrafiche.
Il problema, dice D’Antona, attiene anche ai contenuti culturali ed avverte la necessità di una rottura rispetto alla tradizione che vuole la dirigenza amministrativa formata esclusivamente sulla cultura giuridica. Occorre, cioè, una cultura giuridica non solo fine a se stessa, ma mirata al perseguimento di missioni ed obiettivi, cioè che sappia intervenire sui processi utilizzando il diritto per produrre efficienza. Il tema è sempre quello delle risorse destinate ai processi formativi del settore pubblico, ma anche di individuare degli enti che evitino una sovrapposizione di ruoli ed il grande dispendio di energie tra Scuola superiore della pubblica amministrazione, Formez, scuole speciali, iniziative regionali. D’Antona ritiene che manchi un quadro di riferimento chiaro, un’idea di sistema che comporti una centralizzazione della pianificazione qualitativa della formazione. Questa attività dovrebbe servire ad orientare la distribuzione delle risorse formative ed a pianificare la qualità della formazione. Ebbene, chi scrive, nel trovarsi d’accordo con l’impostazione descritta, aggiunge sommessamente che, una volta stabiliti degli standard sulla qualità formativa e i criteri metodologici generali per effettuare l’analisi dei bisogni, occorrerebbe istituire apposite scuole formative per singoli settori (ad es. Ministro del lavoro, della giustizia, dell’interno) o un’unica scuola che tenga conto delle singole specificità, in modo da essere in grado di fornire conoscenze e competenze approfondite da spendere utilmente nello svolgimento dei compiti professionali.

7. La riforma dello sciopero nei servizi pubblici essenziali

Massimo D’Antona è tra i fautori delle riforme della legge 146/1990 concentrata sul “come” dello sciopero (imponendo regole di preavviso, modalità e durata a tutela degli utenti) e non sui modi di prevenzione e/o di conciliazione dei conflitti che dello sciopero sono la causa.
Sulla l. 146/1990 così si esprimeva:

“Si dimostra scarsamente efficace di fronte ad una conflittualità anomala, slegata dai normali cicli dei rinnovi contrattuali e alimentata dalla frammentazione sindacale. La legge non impedisce prassi sleali e altamente vulneranti, come la revoca all’ultimo momento di scioperi proclamati per sfruttare l’effetto annuncio, né impedisce che l’astensione dal lavoro di gruppi ristretti di lavoratori produca effetti sproporzionati di alterazione del servizio pubblico. La legge non è munita di un apparato sanzionatorio equilibrato ed efficace, perché non sanziona i comportamenti sleali, o lesivi dei diritti degli utenti, delle imprese erogatrici del servizio pubblico, ma solo quelli dei sindacati e dei lavoratori; perché prevede sanzioni economiche alle quali sfuggono agevolmente i sindacati più piccoli e meno organizzati; e soprattutto perché ne affida l’applicazione allo stesso datore di lavoro, che a distanza di molto tempo dai fatti può non avere convenienza a creare nuovi motivi di conflitto. Infine, la legge sovraespone il governo (il prefetto) che è l’unica autorità abilitata a disporre con ordinanza il differimento o il ridimensionamento dello sciopero, e che è pertanto obbligato ad intervenire per raffreddare qualsiasi conflitto che, indipendentemente dalla serietà delle motivazioni e dal seguito effettivo tra i lavoratori, anche per il solo effetto annuncio, crei allarme nell’opinione pubblica”.

Messineo 7 2I correttivi alla legge 146/1990, suggeriti da D’Antona, mirano a migliorare il funzionamento e colmare le lacune che non appaiono giustificate sul piano costituzionale. Le modifiche sono, infatti, circoscritte ai soli punti considerati critici tenendo in massima considerazione la valutazione delle parti sociali le indicazioni che, sulla base dell’esperienza, vengono dall’organismo garante dell’applicazione della legge 146/1990, gli orientamenti giurisprudenziali e le indicazioni della Corte costituzionale a colmare lacune della legge; le soluzioni tecniche sono volte a limitare l’incidenza di regole legali e incentivare le forme volontarie e consensuali di regolazione, utilizzando largamente, a questo scopo, quanto già concordato dalle parti sociali nel “Patto sulle regole nei trasporti”.

Gli elementi principali della iniziativa legislativa sono:

  1. sviluppo delle forme volontarie di prevenzione, raffreddamento e moderazione dei conflitti;
  2. rafforzamento dei poteri di intervento attivo della Commissione di garanzia relativamente alla prevenzione dei conflitti e alla promozione di accordi sulle prestazioni indispensabili;
  3. riequilibrio del sistema sanzionatorio e delle procedure di deliberazione e irrogazione delle sanzioni;
  4. regolazione delle forme di astensione collettiva di lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori, che non sono sciopero in senso tecnico e cionondimeno incidono sul funzionamento di importanti servizi di pubblica utilità (la Corte costituzionale ha più volte invitato il legislatore a colmare questa lacuna: sentenze n. 114 del 1994 e n. 171 del 1996 sull’astensione collettiva dalle udienze degli avvocati);
  5. diritti degli utenti e delle loro associazioni e mezzi di tutela di interessi diffusi;
  6. rivisitazione del potere di ordinanza del governo.

D’Antona ritiene indispensabile le riforme alla l. 146/1990 in quanto osserva che il nucleo forte del diritto del lavoro protegge i pochi, ed esclude i molti. Egli sostiene lucidamente e con convinzione che i pochi sono le generazioni mature e i gruppi già forti, mentre i molti sono le generazioni giovani, i lavoratori marginali, gli immigrati, i deboli. Ha difficoltà a dare senso e dignità alla vita di chi non è occupato nelle forme esclusive che il modello industriale ha tramandato (ed è questa la condizione che si avvia ad essere prevalente). Canalizzare enormi trasferimenti verso il mercato del lavoro non serve se le norme conoscono solo i bisogni del Cipputi industriale che, se si ammala o si infortuna o è disoccupato, ed è considerato dal sistema della protezione, in quanto abbia già un lavoro stabile[5].

8. Conclusioni

Massimo D’Antona ha speso molte energie nell’arco della sua, purtroppo breve, vita, per provare a dimostrare che cambiare il pubblico impiego si poteva e si doveva non solo per ragioni strettamente funzionali ai principi di buon andamento ed efficienza, ma anche per ristabilire il giusto equilibrio tra rapporto di lavoro pubblico e privato. Questo intento, che “trasuda” da tutte le sue opere è servito per stabilire le regole fondamentali anche della pubblica amministrazione rinnovata attraverso un percorso di correzione e di analisi. Ogni strumento giuridico nuovo nelle sue mani veniva osservato ed illustrato con estrema semplicità e chiarezza attraverso ogni sua sfaccettatura ed in maniera tale che qualsiasi argomento complesso diventasse trasparente e comprensibile.

Il tema del lavoro privato nel pubblico impiego, il ricorso al giudice del lavoro, il riconoscimento di regole privatistiche ai rapporti di lavoro ha reso certamente il pubblico più flessibile e duttile, ma il tempo ha dimostrato che questo non basta. La modifica delle regole del pubblico è prima di tutto culturale e deve passare attraverso una serie di forche caudine che fanno tornare indietro le lancette dell’orologio, vuoi per carenza di risorse finanziarie, vuoi per cattiva utilizzazione del denaro pubblico (consulenze pubbliche utili solo per incensare, persone prive addirittura di titoli adeguati, permanenza di enti pubblici inutili e dannosi per la collettività, sacche di dipendenti pubblici che dovrebbero essere trasferiti presso altre pubbliche amministrazioni in quanto privi di alcuna funzione istituzionale).

Ma la responsabilità di questo spreco di denaro pubblico non è della contrattualizzazione del rapporto di lavoro, bensì della parte pubblica, che non ha saputo opportunamente utilizzare questo strumento in maniera adeguata e non ha saputo perseguire fino in fondo l’interesse pubblico. Questo ha determinato come conseguenza un livellamento delle professionalità pubbliche ed una scarso impulso innovativo.

La ricetta fornita dal d.lgs. 150/2009, pur prendendo atto di questo stato di cose, mostra la sua assoluta sfiducia nella capacità di innovarsi della pubblica amministrazione e trova nella legge l’unica strada per ristabilire un coerente assetto degli interessi pubblici. In tal modo, però, si incrina il rapporto di equilibrio pubblico-privato e si determina un netto spostamento delle regole dei rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici (sanzioni disciplinari, rapporto legge-contratto ecc.) sul piano legislativo, con un antistorico ritorno al passato. Ma la responsabilità del parziale fallimento della contrattualizzazione forse non è da attribuirsi alla contrattualizzazione medesima, ma in larga parte al cattivo uso dei contratti che la parte pubblica ha fatto, rinunciando al perseguimento della efficacia e della efficienza, attraverso il duttile strumento contrattuale e arroccandosi su posizioni retrograde e conservatrici, senza adottare alcun disegno strategico di sviluppo e di autentico cambiamento e senza investire sulle professionalità interne.

Messineo 7 3Ad avviso di chi scrive il non aver agito in maniera adeguata sul “rubinetto” della formazione o avere abolito i concorsi per titoli ed esami dei dirigenti pubblici, impedendo in tal modo ai funzionari pubblici tecnicamente esperti e formati di accedere alle funzioni dirigenziali6, si deve considerare un errore strategico. Questa profonda ferita, che non è stata sanata con le riforme legislative che si sono succedute negli anni ha comportato un impoverimento delle capacità professionali e tecniche dei vertici dell’amministrazione pubblica, concedendo ampio spazio a consulenze esterne dispendiose e troppo spesso improduttive ed inutili.

Da questo punto di vista D’Antona ha il merito di aver compreso già dai primi momenti della riforma legislativa (d.lgs. 29/1993) i rischi che la contrattualizzazione poteva presentare e da questo deriva la sua ricerca di qualcosa di semplice ed innovativo che potesse portare ad una svolta della pubblica amministrazione. Per D’Antona modificare le norme che regolavano il rapporto di lavoro dei dipendenti era anche un modo per liberarli da una profonda mancanza di “missione” e quindi da una frustrazione, per renderli più creatori del proprio universo lavorativo, cittadini tra i cittadini, senza distinzione tra pubblico e privato. Il suo lavoro era improntato proprio a questa coerenza etica ed impegno grazie alla grande competenza professionale, unita ad un’estrema concretezza. La sua presenza al Ministero del lavoro in qualità di consigliere gli permise di intervenire costantemente, non solo sulla normativa, ma sul complesso di relazioni tra lavoratori e imprese, con ciò vincendo la sfida di rinnovamento e coraggio individuale, in difesa dei diritti di tutti i lavoratori. Quadrato Verde


I precedenti Capitoli sono stati pubblicati su LAVORO@CONFRONTO
n. 4 GIU-LUG 2014 (1. Prefazione; 2. La riforma della pubblica amministrazione: dalla legge al contratto)
n. 5 AGO-SETT 2014 (3. La giurisdizione del giudice del lavoro; 4. Il contratto collettivo nel pubblico impiego)
n. 6 AGO-SETT 2014 (5. Punti critici nel rapporto tra pubblico e privato)

Note

[1] Vedi sul punto, M. D’Antona, Il ruolo della dirigenza nei processi di riforma, in Riforme dello Stato e riforme dell’amministrazione in Italia ed in Francia (atti del seminario di studio organizzato dal centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche Vittorio Bachelet, Roma, 21 maggio 1997), Milano, Giuffrè, 1997, pp. 109-116.

[2] Vedi sul punto sentenza della Corte Costituzionale n. 313/1996.

[3] In questo senso più tardi la legge 145/2002 introducendo lo spoil system accede ad una diversa interpretazione della dirigenza pubblica. V. sul punto S. Cassese, Il nuovo regime dei dirigenti pubblici italiani: una modificazione costituzionale, in Giorn. dir. amm., 2002, 1341 ss., che lamenta il sopravvento preso dalla politica sulla dirigenza, destinata ad una condizione precaria e ad abdicare al suo tradizionale ruolo di neutralità. G. Gardini, Spoils system all’italiana: mito o realtà?, in Lav. nelle p.a., 2002, 958. Invoca, in merito, una correzione di rotta, mediante l’approdo ad uno schema fondato su un unico atto dal carattere privatistico-contrattuale, G. D’Alessio, La disciplina della dirigenza pubblica: profili critici ed ipotesi di revisione del quadro normativo, ivi, 2006, 562.

[4] Sul punto, l’autore del presente scritto ritiene che nulla sia stato focalizzato dalla riforma legislativa (l. 15/2009) delegittimando ingiustamente tutti i dipendenti ed i funzionari pubblici (mutamento delle fasce di reperibilità, riduzione al 70 % delle risorse relative alla produttività), attribuendo ad essi gran parte tutte le colpe dell’inefficienza della pubblica amministrazione. 

[5] Rivista Critica di Diritto del Lavoro», I, Quaderni, 1996.

[6] L’art. 28 del d.lgs. 165/2001 prevede soltanto l’accesso a dirigente di seconda fascia tramite concorso per soli esami senza la previsione espressa di valutazione dei titoli e della professionalità acquisita sul campo.

[*] L’Avv. Dario Messineo è Dottore di ricerca in diritto del lavoro e previdenza sociale presso l’Università di Pavia, componente del Centro studi attività ispettiva presso la Direzione generale attività ispettiva del Ministero del lavoro, funzionario coordinatore amministrativo, responsabile del Servizio politiche del lavoro e U.O. affari legali e contenzioso e responsabile dell’U.O. conflitti di lavoro della Direzione provinciale del lavoro di Cuneo.  Ogni considerazione è frutto esclusivo del proprio libero pensiero e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.


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