Con la sentenza n. 118 del 21 luglio 2025, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015 (Jobs Act), nella parte in cui stabiliva che, in caso di licenziamento illegittimo da parte di datori di lavoro sotto soglia dimensionale (meno di 15 dipendenti per unità produttiva o meno di 60 complessivi), l’indennità risarcitoria non potesse superare il limite di sei mensilità.
Questa previsione, ormai consolidata nella prassi giuslavoristica, era stata più volte oggetto di critiche da parte della dottrina e della giurisprudenza di merito, proprio per il suo carattere rigido e standardizzato. A sollevare formalmente la questione è stato il Tribunale di Livorno, con ordinanza del 2 dicembre 2024, che ha ritenuto il tetto risarcitorio incostituzionale per contrasto con i principi di eguaglianza (art. 3), tutela del lavoro (art. 35), diritto al lavoro (art. 4) e obblighi internazionali (art. 117, in relazione alla Carta Sociale Europea).
Secondo la Corte Costituzionale, il limite imposto dalla norma censurata compromette la possibilità per il giudice di valutare adeguatamente il danno concreto subito dal lavoratore a seguito del licenziamento illegittimo. La fissazione di un tetto massimo di sei mensilità impediva una valutazione piena e individualizzata, costringendo il giudice ad applicare una misura spesso inadeguata rispetto alla gravità della violazione commessa dal datore.
La Consulta ha sottolineato che la tutela indennitaria, per essere effettiva, deve perseguire una duplice funzione:
Il sistema previsto per i datori sottosoglia, nella parte oggetto di censura, mancava di entrambe queste caratteristiche. L’indennità finiva per assumere un carattere forfetario e simbolico, sganciato dalle circostanze del caso concreto, e incapace di adempiere alla funzione di tutela sostanziale.
La decisione si inserisce nel solco tracciato da importanti precedenti della stessa Corte, che già in passato era intervenuta a correggere meccanismi troppo rigidi introdotti dal Jobs Act. In particolare:
Con la sentenza n. 118/2025, la Corte ha compiuto il passo definitivo, eliminando dalla norma il riferimento al tetto massimo. Rimane invece in vigore il principio del trattamento differenziato tra imprese sopra e sottosoglia, fondato sulla storica distinzione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ma – sottolinea la Corte – non può spingersi fino a svuotare la tutela sostanziale del lavoratore.
A seguito della sentenza, i giudici non saranno più vincolati al limite massimo di sei mensilità e potranno liquidare un risarcimento fino a 18 mensilità, nel rispetto del meccanismo previsto per le PMI. Il calcolo sarà rimesso alla valutazione del giudice, il quale dovrà tener conto di:
Si supera così l’approccio automatico e predeterminato, tornando a un modello di personalizzazione del risarcimento, più conforme alle esigenze di equità e giustizia sostanziale.
Per i lavoratori delle piccole imprese, questo significa poter finalmente contare su una tutela risarcitoria coerente con i principi costituzionali, e non più su un'indennità “simbolica”. Per i datori di lavoro, invece, si apre una fase in cui il rischio legato a un licenziamento ingiustificato non sarà più marginale, ma dovrà essere valutato con attenzione.
La decisione della Corte è stata accolta positivamente dai sindacati, che da tempo contestavano l’impostazione del Jobs Act, in particolare nella parte riguardante le PMI. La sentenza viene letta come un riconoscimento del principio secondo cui la dignità del lavoratore e il diritto a una tutela effettiva non possono dipendere esclusivamente dalla dimensione dell’azienda.
Più caute, e in alcuni casi critiche, le reazioni delle associazioni datoriali, che temono che l’eliminazione di un tetto massimo possa comportare un aumento dell’incertezza giuridica per le imprese e un possibile incremento del contenzioso. In particolare, alcuni ritengono che l’assenza di un limite possa generare valutazioni troppo variabili da parte dei giudici, con effetti difficilmente prevedibili. Tuttavia, alcuni giuristi evidenziano che l’impatto sarà modulato caso per caso, e che un uso corretto degli strumenti di prevenzione del contenzioso (es. provvedimenti ben motivati, percorsi di accompagnamento, utilizzo della conciliazione) potrà mitigare gli effetti della pronuncia.
La Corte ha sottolineato che la sola soglia numerica non può più rappresentare un parametro esclusivo per definire la sostenibilità economica del datore. Si apre quindi la prospettiva di una revisione complessiva delle regole sui licenziamenti nelle PMI, in cui la dimensione aziendale venga valutata in modo più articolato, anche alla luce delle trasformazioni digitali e dei modelli di impresa “snella” oggi diffusi.
È auspicabile che il legislatore intervenga:
Inoltre, questa sentenza pone interrogativi anche sul ruolo della giurisprudenza di merito, che sarà ora chiamata ad applicare in modo coerente e motivato un sistema privo di tetti rigidi, ma ricco di margini di discrezionalità. Una giurisprudenza uniforme e ben argomentata sarà fondamentale per evitare soluzioni disomogenee e per dare ai lavoratori e alle imprese un quadro di riferimento prevedibile.
La sentenza n. 118/2025 rappresenta un intervento fondamentale per ripristinare un equilibrio tra esigenze datoriali e diritti dei lavoratori nel contesto delle piccole imprese. La Consulta ha confermato che anche nel lavoro “fragile”, tipico delle microstrutture produttive, la dignità e la tutela della persona non sono negoziabili. Allo stesso tempo, ha lasciato al legislatore la responsabilità di completare il disegno, indicando chiaramente la necessità di regole più giuste, proporzionate e aderenti alla realtà economica attuale. Per il diritto del lavoro italiano, è un’occasione per recuperare coerenza e per rilanciare una riflessione sulla funzione del licenziamento: non più strumento discrezionale e poco oneroso, ma atto grave, da assumere con piena consapevolezza delle sue conseguenze giuridiche e sociali.
[*] Responsabile Ufficio Vertenze CISAL Udine
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