Ancora sull'indennità di maternità per le libere professioniste: ulteriori assunti giurisprudenziali e di prassi

di Isabella Spanò [*]

Isabella SpanoProseguiamo dunque l'esame di altri aspetti della questione dell'indennità di maternità concessa alle libere professioniste, anzitutto in base a quanto ha elaborato la giurisprudenza nel corso del tempo, tenendo ovviamente presente la possibilità di futuri orientamenti anche del tutto difformi[1].

Riguardo, ad esempio, alle modalità di svolgimento dell'attività ed all'incidenza che questa ha sul diritto maturato, la Suprema Corte aveva dichiarato – una prima volta con sentenza 15222/2000 – che il criterio di determinazione dell'indennità, consistente nella parametrazione al reddito percepito e denunciato ai fini fiscali dalla libera professionista nel secondo anno precedente a quello della domanda, ex l. 379/1990, si applicava prescindendo dalla forma in cui l'attività medesima fosse praticata: questa, pertanto, poteva ben essere di natura mista (professionale ed imprenditoriale) senza pregiudizio dell'indennità stessa, come nel caso della farmacista operante nella farmacia della quale risultasse anche titolare.

Sulla scorta della Cassazione, anche un tribunale di merito, quello di Milano, si era espresso, in data 11/06/2002, riconoscendo a sua volta il diritto all'indennità allorché l'attività fosse esercitata in forma imprenditoriale (ed «indipendentemente dall'effettiva astensione dall'attività lavorativa»: si veda l'argomento trattato infra).

Il concetto, già ripreso in Cass. 19130/2003, era stato ribadito in Cass. 20/1/2005, n. 1102 (sempre con riferimento a periodi ricadenti sotto la vigenza della l. 379/1990): l'attività «può essere svolta sia a mezzo di associazione o d’impresa professionale, sia in forma di collaborazione in regime d’impresa familiare»; nella stessa sentenza si era negato, inoltre, il fumus di violazione degli artt. 3 e 38 della Costituzione in forza di un presunto trattamento privilegiato per le libere professioniste esercenti attività d'impresa rispetto alle dipendenti che svolgano lo stesso tipo di lavoro, in quanto «la stessa legge, all’art. 5 ammette che il contributo fissato può essere variato con D.M. al fine di garantire l’equilibrio delle gestioni, e, comunque, il reddito di impresa non è necessariamente superiore a quello ricavato da lavoro dipendente e viene a remunerare un’attività del tutto differente». Nella successiva sentenza 4/5/2010, n. 10709, la Suprema Corte aveva quindi precisato che il diritto sussisteva qualora l'attività fosse svolta «da parte di una farmacista in regime di collaborazione a impresa familiare nella farmacia di proprietà di un familiare».

Spano 8 4In seguito, con l'avvento della l. 289/2003, la Cassazione ha però modificato il proprio orientamento, nel senso di considerare per il calcolo dell'indennità soltanto il reddito professionale denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro autonomo, a prescindere dall'eventuale concomitante attività in ambito d'impresa. In particolare, con la sentenza 12260/2005, la Cassazione ha affermato, muovendo dal criterio di cui all’art. 1 della l. 289/2003, che per stabilire l'ammontare dell'indennità la base di calcolo comprende il solo reddito derivante dall'attività autonoma di farmacista e non quello eventuale di natura diversa, qual è quello derivante dall'esercizio di attività d'impresa in ambito societario.

L'orientamento per il quale si afferma l'esistenza di due “regimi” diversi per il computo dell'indennità di maternità delle libere professioniste, l'uno, per il tempo in cui era vigente la l. 379/1990, ricomprendente i redditi d'impresa, l'altro, viceversa, per il tempo successivo all'entrata in vigore della l. 289/2003, escludente i medesimi, è stato ribadito di recente, con sentenza di Cassazione 7 novembre 2014, n. 23809. Tale sentenza recita infatti, con riferimento all'intervenuta modifica dell'art. 70 del d.lgs. 151/2000 da parte della l. 289/2003: «è stata emanata una disposizione modificativa, destinata a produrre i propri effetti, secondo i principi generali, per il tempo successivo alla sua entrata in vigore e [...] proprio la circostanza che sia stata emanata una norma modificativa testimonia l'esistenza di un pregresso diverso regime, che il legislatore ha inteso mutare».

Spano 8 2Passando ad altro argomento, la concessione dell'indennità prescinde dall'effettiva astensione dal lavoro: sul punto si era pronunciata la Corte Costituzionale nella sentenza n. 3 del 1998, sulla scia della quale la Cassazione ha emanato poi, ad esempio, le sentenze 4344/2002 e 23090/2008, quest'ultima rilasciata con riferimento al caso di una professionista iscritta all'albo dei notai.

La Consulta, infatti, aveva sottolineato che le norme consentono alla professionista, a differenza della lavoratrice subordinata, di scegliere liberamente modalità di lavoro compatibili con il prevalente interesse del figlio, il che non confligge con il diritto all'indennità e pertanto non lo fa venir meno. Più in particolare, le perplessità avanzate dalla cassa previdenziale del notariato, sorte sulla legittimità costituzionale, rispetto agli artt. 3, 32 e 37 della Costituzione, dell’art. 1 l. n. 379/1990, nella parte in cui non prevedeva, appunto, l’obbligo per la libera professionista di astenersi dall’attività professionale nel periodo di copertura indennitaria, erano state risolte con la citata sentenza 3/1998 nella considerazione che la tutela della funzione materna assicurata dalle specifiche norme positive «può avvenire lasciando che la lavoratrice svolga la funzione familiare conciliandola con la contemporanea cura degli interessi professionali non confliggenti col felice avvio della nuova vita umana». La cassa del notariato aveva rivendicato che la tutela della salute di neonato e puerpera richiedesse, durante il periodo coperto dall'indennità di maternità, l'interdizione dal lavoro delle professioniste iscritte tanto quanto quella delle lavoratrici subordinate. La Corte, però, ha sancito una volta per tutte che «la norma impugnata […], non determinando oggettivi ostacoli allo svolgimento del ruolo materno, non urta con il precetto dell'articolo 32 della Costituzione. La tutela costituzionale del diritto alla salute della donna e del bambino, infatti, non è vulnerata dalla esistenza di una norma che per una particolare categoria di lavoratrici stabilisce una protezione complessivamente adeguata alle peculiari caratteristiche della categoria medesima».

Peraltro, non tutte le libere professioniste sono iscritte a casse previdenziali di categoria: coloro che esercitano professioni prive di cassa previdenziale dedicata si avvalgono invece della “gestione separata” INPS istituita con la c.d. “Riforma Dini” (l. 335/95). Per queste ultime, in forza del decreto interministeriale 12/07/2007, trova applicazione l'art. 22 d.lgs. 151/2001 che fissa l'indennità spettante alle lavoratrici subordinate (indennità giornaliera pari all'80 per cento della retribuzione per tutto il periodo del congedo di maternità) – equiparazione già comunque disposta dalla l. 388/2000 in base alle specifiche norme di tutela contenute nella l. 449/97. L'art. 2 del citato decreto del 2007 subordina la concessione dell'indennità all'«astensione effettiva dall'attività lavorativa [...] attestata da apposita dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà».

Spano 8 1Altro tema significativo è quello della possibilità per il padre di fruire dell'indennità di maternità in alternativa alla madre.


In proposito, la Corte Costituzionale, con sentenza 11-14 ottobre 2005, n. 385, ha sancito l'illegittimità degli artt. 70 e 72 del d.lgs. 151/2001 nella parte in cui non disponevano che al padre libero-professionista spettasse di fruire dell'indennità di maternità in alternativa alla madre professionista anch'essa. Nella sentenza, appunto, la Consulta ha rilevato che le norme del Testo Unico del 2001 riconoscevano sì, in alternativa alla madre, il diritto all'indennità per il padre, ma solo per quello dipendente e non per quello dedito ad attività professionale. La discriminazione in parola, secondo la Corte, ledeva il principio di parità di trattamento tra i genitori e tra lavoratori dipendenti e autonomi e pregiudicava sia la protezione della famiglia che la tutela del minore.

La Consulta ha avuto modo di esprimersi anche sul tema specifico del riconoscimento dell'indennità di maternità alle libere professioniste in occasione dell'adozione, o affido, internazionale di un minore: con sentenza 17-23 dicembre 2003, n. 371, infatti, ha stabilito l'illegittimità dell'art. 72 del d.lgs. 151/2001 nella parte in cui non prevedeva che l'indennità spettasse alla stessa dopo l'ingresso del minore se questo avesse un età superiore ai sei anni. E vi è stata giurisprudenza di merito che ha interpretato estensivamente l'art. 72 menzionato: il tribunale di Pistoia, con pronuncia del 12 marzo 2007, ha puntualizzato che il diritto a percepire l'indennità da parte della professionista sussiste pure nella circostanza di mero affidamento provvisorio del minore.

Spano 8 3Pure, in caso di adozione, le professioniste iscritte alla gestione separata hanno diritto a tutti e cinque i mesi di maternità obbligatoria: la Corte Costituzionale, con sentenza 257 del 22 novembre 2012, ha infatti dichiarato l’illegittimità dell’art. 64 del d.lgs. n. 151/2000 nella parte in cui per le medesime prevedeva l’indennità di maternità per un periodo di tre mesi anziché di cinque mesi come per le lavoratrici dipendenti. Ciò vale ugualmente in caso di affidamento preadottivo: sul punto, la Corte ha richiamato la circolare INPS 16/2008 che dà istruzioni concernenti il diritto, per la lavoratrice dipendente che adotta un minore straniero, all’astensione dal lavoro per un periodo di cinque mesi (a prescindere dall’età di questo all’atto dell’adozione) anche qualora il minore stesso risulti in affidamento preadottivo.

Sotto il profilo della prassi, infine, è opportuno segnalare un'interessante risposta ad interpello presentato al Ministero del Lavoro dall'Università di Padova (n. 64/2008), nel quale si chiedeva come coordinare le disposizioni in materia di formazione specialistica dei medici introdotte dal d.lgs. 368/99, e rese applicabili dalla l. 266/2005, con il d.lgs. 151/2001. Il Ministero ha evidenziato in proposito che il medico specializzando può mantenere la possibilità del recupero della formazione annuale, e quindi dei relativi crediti, solo qualora ogni assenza per congedo parentale sia non inferiore a quaranta giorni consecutivi. Inoltre, l'iscrizione alla gestione separata INPS, prevista anche per il medico specializzando, comporterebbe l'erogazione di un’indennità pari all'80 per cento del trattamento economico durante il congedo di maternità e di una pari, invece, al 30 per cento durante quello parentale: prevalendo, però, la lex specialis del d.lgs. 368/1999, durante l’intero periodo di sospensione della formazione determinata da maternità – congedo obbligatorio e congedo parentale – allo specializzando è destinata senz'altro la parte fissa del trattamento economico annuo onnicomprensivo, che è uguale per tutte le specializzazioni, sebbene non la parte variabile, diversa per ciascun tipo di specializzazione. Quadrato Azzurro

[*] Dottore di ricerca in “Relazioni di lavoro internazionali e comparate” – Vincitrice 2009 del “Premio Massimo D’Antona” – Ispettore del Lavoro in servizio presso la Direzione Territoriale del Lavoro di Parma. Questo articolo è frutto esclusivo del proprio libero pensiero, espresso nel rispetto della normativa vigente e delle indicazioni fornite dal Ministero del lavoro e, comunque, non comporta impegni per l’Amministrazione stessa.

Note

[1] In un prossimo articolo saranno esaminate le novità in materia contenute nell'emanando decreto attuativo della delega contemplata nella l. 183/2014 – il c.d. “Jobs Act” – in tema di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro.


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