Sono tante le problematiche che affliggono il mondo del lavoro ma si è soliti soffermarsi su quelle che hanno maggiore eco, risonanza mediatica, visibilità. Oggi non si parla di altro che delle morti sui luoghi di lavoro – con tutto il rispetto ed indignazione per i tanti sfortunati che non fanno più ritorno a casa e non perché sono andati in guerra – ci sono tante altre problematiche che affliggono il mondo del lavoro che sembrano essere passate in second’ordine senza nessuna azione propulsiva che conduca risultati concreti.
Una problematica sommersa e latente, di cui POCHI si occupano ma che colpisce pesantemente ed indistintamente sui luoghi di lavoro, è il “BOSSING” ovvero, tecnicamente, “quella forma di mobbing esercitata da un superiore gerarchico nei confronti di un dipendente, che si caratterizza in comportamenti ostili, sistematici e ripetitivi, finalizzati ad emarginare e ledere la salute psicofisica del lavoratore”.
In definitiva, l’autore di Bossing solitamente non alza la voce, non insulta apertamente, non alza mai le mani. Eppure, il Bossing è la forma più subdola di violenza psicologica nei luoghi di lavoro, esercitata da un superiore nei confronti di un sottoposto; è una delle piaghe più diffuse e meno riconosciute negli ambienti professionali. Si differenzia dal mobbing, che può essere messo in essere da pari grado o da colleghi, perché ha una matrice verticale: sono dinamiche autoritarie, sistematiche, che ha origine da una posizione di potere. Il superiore gerarchico sfrutta il proprio ruolo per minare la sicurezza, la dignità e, spesso, la salute mentale del lavoratore con modalità che assumono molteplici aspetti, spesso impercettibili dall’esterno: assegnazioni punitive o inutili ; esclusione dalle comunicazioni interne; carichi di lavoro insostenibili o, più semplicemente, svilenti; critiche costanti; commenti sarcastici velati da pungente ironia; fino al danneggiamento e sabotaggio della carriera. L’obiettivo è principalmente uno: esasperare il sottoposto e portarlo alle dimissioni evitando, così, i costi e le penali di un licenziamento diretto.
Sembrerebbero azioni da menti malate di onnipotenza o di persone frustrate, ma dietro il Bossing si nascondono problematiche ben più sottili: una cultura organizzativa malata e sempre più inadeguata; una leadership autoritaria; un sistema che premia la sopraffazione anziché la collaborazione.
L’INAIL ha ormai certificato che i casi di disagio psico-sociale legati al lavoro sono in costante aumento. In particolare, con la Circolare INAIL n. 71 del 17 dicembre 2003, l’Istituto ha riconosciuto le lesioni psicofisiche da mobbing come infortuni sul lavoro, aprendo la strada al riconoscimento del disagio derivante anche da altre forme di violenza psicologica, pur riconoscendo che il Bossing resta diffusamente sommerso, latente. Le vittime, per paura di ritorsioni o per totale sfiducia nei confronti delle istituzioni aziendali o delle Pubbliche Amministrazioni, raramente denunciano i casi persecutori o vessatori. E quando hanno il coraggio di farlo, si scontrano con le difficoltà di dimostrare i comportamenti intenzionalmente vessatori. Il Bossing non lascia tracce evidenti o traumi visibili, ma incide sulla psiche del sottoposto causando ansie croniche, depressione, insonnia, perdita dell’autostima contribuendo persino all’insorgere di gravi patologie come il “Burnout” oppure disturbi psicosomatici di difficile inquadramento clinico. In casi estremi si sono registrati casi di suicidio o tentato suicidio oppure aggressioni gravi ai superiori.
Come si preannuncia nell’introduzione, bisogna amaramente constatare che ad oggi il giuslavorismo italiano – che pure fa scuola a livello mondiale – pur tutelando la salute psicofisica dei lavoratori, è ancora molto lacunosa in materia, non avendo ancora regolamentato e previsto norme esplicite contro il Bossing, con le relative pene e sanzioni. Il Testo Unico sulla Sicurezza (D.Lgs 81/2008 e le successive integrazioni ed aggiornamenti), infatti, ne fa vaghi riferimenti e nella stessa giurisprudenza in materia di lavoro viene fatta confusione con il danno esistenziale e morale. La giurisprudenza ha comunque riconosciuto la tutela del lavoratore sulla base degli artt. 2043 (risarcimento del danno) e 2087 (tutela delle condizioni di lavoro) del Codice Civile. Ma tutto questo risulta troppo spesso insufficiente per tutelare realmente la vittima, non avendo il giudice norme certe di riferimento da applicare.
Si riscontra molto blanda e poco incisiva l’azione sindacale – non siamo riusciti a trovare, traccia di proposte o di piattaforme recenti tendenti a richiedere con forza riforma normativa che riconosca il Bossing quale fattispecie autonoma di reato, con percorsi di tutela per quanti denunciano rapidi ed efficaci, e che prevedano tutele a salvaguardia di eventuali ritorsioni.
Occorre che anche le aziende e le amministrazioni siano parte attiva in questo percorso innovativo di contrasto al fenomeno, prevedendo sportelli di ascolto tutelati, formando i manager ed i dirigenti ad una effettiva leadership organizzativa che risulti empatica e non autoritaria ed egocentrica, tendente ad una cultura organizzativa inclusiva e non punitiva.
Solo una radicata ottusità può non considerare che il Bossing non è solo un problema individuale, ma che esso porta altissimi costi sia per le aziende e le amministrazioni ma ricade anche sulla collettività. Azioni di Bossing hanno ripercussioni sulla produttività, aumento del turnover, malattie professionali, assenteismo, contenziosi legali. Ma, soprattutto, alimentano clima di paura, diffidenza, silenzio e sfiducia, miscele corrosive ed esplosive per ogni ambiente di lavoro che generano rapporti tossici.
Occorre, quindi, combattere il Bossing con tenacia e convinzione, perché solo in questo modo si riuscirà ad affermare che Rispetto, Dignità e Benessere lavorativi non sono vuote parole o, peggio ancora, degli optional, ma rappresentano fondamenti irrinunciabili della vita professionale.
Serve un cambiamento culturale radicale, che metta al centro del meccanismo organizzativo la persona, e non il potere. Solo così il lavoro potrà ritornare ad essere un luogo di crescita professionale, e non di sofferenza invisibile e non confessabile.
Sta all’impegno ed alla sensibilità di chi ha scelto di tutelare il mondo del lavoro riprendere in mano l’azione propositiva, seria e competente, che da troppo tempo sembra essere stata smarrita.
[*] Funzionario dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro in pensione. Consigliere della Fondazione Prof. Massimo D’Antona E.T.S.
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