Quando si parla di salute sul lavoro, l’attenzione tende a concentrarsi sugli infortuni, eventi improvvisi e spesso di carattere eccezionale. Ma c’è un altro ambito, più silenzioso e insidioso, che coinvolge migliaia di lavoratori ogni anno: la malattia professionale. A differenza dell’infortunio, la malattia professionale ha un'origine lenta e progressiva, spesso legata all’esposizione protratta a determinati agenti o condizioni nell’ambiente lavorativo. Nel sistema italiano di sicurezza sociale, la malattia professionale costituisce una forma di danno alla salute che si manifesta a causa della prolungata esposizione a fattori nocivi presenti nell’ambiente lavorativo o connessi alla prestazione lavorativa.
Il riferimento normativo principale in materia è rappresentato dal D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo Unico sull'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali), integrato dal D.lgs. 38/2000 e, sul piano della sicurezza, dal D.lgs. 81/2008.
Secondo l’art. 3 del T.U. 1124/1965, l’assicurazione obbligatoria copre le "malattie professionali dipendenti da causa lenta e progressiva determinate dalla lavorazione svolta". Il legislatore ha introdotto apposite tabelle di malattie professionali (DM 10 giugno 2014), con la finalità di agevolare il riconoscimento nei casi più ricorrenti.
La distinzione tra malattia tabellata e non tabellata ha impatti diretti sull’onere della prova:
La denuncia di malattia professionale deve essere trasmessa all’Inail da parte del medico certificatore entro 5 giorni dalla diagnosi. Il datore di lavoro ha l’obbligo di trasmettere la relativa documentazione all’ente assicurativo. L’Inail avvia quindi un’istruttoria volta all’accertamento tecnico-sanitario della patologia e alla sua riconducibilità all’attività lavorativa svolta.
In caso di riconoscimento, le prestazioni garantite includono:
Le prestazioni Inail hanno natura indennitaria, e non risarcitoria: non coprono, cioè, tutti i danni subiti dal lavoratore (es. danno morale, esistenziale, ecc.), ma solo quelli previsti normativamente.
L’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore. Si tratta di una norma di chiusura, che impone un obbligo di sicurezza in senso lato, anche oltre le previsioni tecniche specifiche.
Pertanto, accanto alla tutela indennitaria, il lavoratore può agire in sede civile per il risarcimento del danno differenziale, nei confronti del datore di lavoro, qualora emerga una condotta colposa o negligente.
Su questo punto si è consolidata una giurisprudenza significativa. La Cassazione Civile, Sez. Lavoro, n. 24689/2022 ha ribadito che:
“Il riconoscimento da parte dell’Inail del carattere professionale della malattia non esclude la responsabilità del datore di lavoro per i danni ulteriori subiti dal lavoratore, qualora risulti che questi non abbia adottato le misure necessarie a prevenire il rischio”.
L’onere della prova dell’inadempimento grava sul lavoratore, ma il datore ha l’onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele tecniche e organizzative previste dalla normativa.
Un aspetto critico riguarda l’aggiornamento delle tabelle Inail, che non riesce sempre a intercettare le nuove patologie legate all’evoluzione del lavoro. Si pensi al burnout (esaurimento professionale), ai disturbi psichici da stress cronico, oppure a patologie muscolo-scheletriche derivanti da lavori sedentari e digitali.
Queste patologie sono difficili da ricondurre con certezza a un’unica causa lavorativa. La Cass. civ., Sez. Lav., n. 29756/2019 ha sottolineato che: “L’esistenza del nesso causale può essere accertata anche attraverso criteri probabilistici fondati su dati scientifici consolidati, non essendo necessario un nesso di causalità certo ed esclusivo”.
La giurisprudenza, quindi, si dimostra in parte più aperta rispetto alla rigidità amministrativa, accogliendo l’idea di una causa concorrente o concausale, purché rilevante.
Va segnalata anche la sentenza della Corte Costituzionale n. 46/2010, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 13, comma 2, lett. b), D.lgs. 38/2000 nella parte in cui escludeva l’indennizzo per danno biologico permanente sotto il 6%, evidenziando che tale esclusione poteva ledere il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e il diritto alla salute (art. 32 Cost.).
Questo orientamento ha rafforzato la necessità di una tutela piena ed effettiva, anche nei confronti di danni non immediatamente invalidanti ma pur sempre significativi.
L’istituto della malattia professionale continua a rappresentare un banco di prova della tenuta del nostro sistema di tutela del lavoro. Da un lato, la disciplina normativa offre una protezione ampia e articolata; dall’altro, le difficoltà probatorie, la rigidità delle tabelle e i tempi procedurali possono ostacolare il pieno esercizio dei diritti.
È auspicabile un aggiornamento più frequente delle tabelle delle malattie professionali e un rafforzamento dei presidi ispettivi. Al contempo, è fondamentale promuovere una cultura aziendale orientata alla prevenzione, anche attraverso strumenti di formazione, monitoraggio e analisi del rischio evoluto.
Come ha osservato la Cassazione n. 22124/2020, “la tutela della salute del lavoratore non può arrestarsi alle malattie note e tabellate, ma deve tenere conto dell’evoluzione dei fattori di rischio e dell’organizzazione del lavoro contemporanea”.
[*] Responsabile Ufficio Vertenze della CISAL di Udine
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