
Questo redazionale trova il suo fondamento nel bisogno di dare anima ai troppi luoghi comuni errati su una professione tanto fondamentale per quanto criticata, osteggiata e vilipesa, quella di essere Ispettore del Lavoro. A questo, necessariamente, viene ad accostarsi un “sentiment” contrastante su chi, da una parte, tutela il lavoro e la sicurezza, di ogni maestranza, svolgendo un “servizio” insostituibile, per lo Stato e per la collettività, facendo rispettare le leggi in materia lavoristica; d’altro canto, le azioni ispettive vengono, di frequente, viste da chi fa impresa, come un intralcio, una intromissione, un ostacolo alla libertà d’impresa (quella però malata che opera anche a discapito della sana concorrenza) almeno per chi, da imprenditore, viceversa, persegue uno scarso valore etico e morale nell’essere responsabili del benessere lavorativo dei propri collaboratori.
Come non affermare, quindi, di quanto sia dura la vita da ispettore del lavoro, non di rado insultati, maltrattati, minacciati, o per lo meno ostacolati, in vario modo, nello svolgimento delle loro complesse attività, ciò anche alla luce di condizioni lavorative complessive peggiorate in un mondo, quello del lavoro, sempre più teso, concorrenziale, insidiato alle fondamenta dall’ombra lunga di una tecnologia algoritmica fagocitante che mira, in primo luogo, alla compressione dei costi della manodopera (e quindi con conseguente riduzione della forza lavoro “umana”) mettendo fuori mercato certi tipi di lavoro e di professioni.
Evidentemente ci riferiamo all’impiego “acritico” dell’Intelligenza Artificiale sempre più spesso utilizzata nei vari ambiti produttivi e lavorativi mettendo a rischio, così, il “valore” stesso del lavoro, quale bene “materiale” ma non di meno “immateriale”, quando pervaso e permeato da una umanità personale e collettiva.
Quotidianamente gli ispettori del lavoro toccano con mano quanto sia facile, con detti atteggiamenti ostruzionistici e per lo più velleitari, il conseguente scadimento del senso della legalità che dovrebbe inquietare i decisori politici e più in generale le diverse istituzioni. Le tutele generali sono alquanto carenti per questi uomini e donne, nel corso delle loro attività istituzionali, soprattutto nel doversi imbattere in contesti criminogeni spesso venendo in contatto di realtà includenti sistemi di malaffare, infiltrazioni, caporalato, che non disdegnano impieghi di lavoratori al nero e/o clandestini.
Le “difficoltà” per questa professione, da Ispettori del lavoro, non si esauriscono nel solo mancato riconoscimento del loro delicatissimo ruolo sociale, ma si dipanano nel sentirsi o meno parte di una organizzazione dove la “solitudine” delle proprie decisioni e responsabilità personali dovrebbe poter essere mitigata da una sorta di “rete protettiva” ampia ed efficace, garantita dalla propria Amministrazione, che “tuteli” fattivamente le loro azioni lavorative in ogni ambito: giuridico, assicurativo, psicologico, organizzativo, manageriale.
Appare quindi evidente che il contesto socio-economico che stiamo vivendo, in un più generale quadro di insicurezze e precarietà (di cui le attuali guerre globali e limitrofe ci dettano un vissuto ansiogeno) ha inevitabilmente acuito quel senso di insofferenza collettiva e quindi di chi fa impresa, verso lo Stato e tutte le sue articolazioni. Ecco parzialmente spiegata l’avversità nei confronti degli ispettori del lavoro, le cui funzioni sono, talvolta, percepite negativamente rispetto ad un necessario agire punitivo e sanzionatorio, non soltanto dai datori di lavoro, ma parimenti dagli stessi lavoratori delle imprese. Questo, poiché la stessa attività di vigilanza, inevitabilmente, va ad impattare, in diversi casi, su realtà economiche “minori” la cui solidità finanziaria, spesso già precaria, può essere colpita da ingenti sanzioni economiche comminate, con ricadute negative su continuità aziendale ed occupazionale, in un mercato socio-economico che non fornisce agevoli e diversificate opportunità di impiego alternative, incrementando così, indirettamente, le realtà sottopagate se non anche sommerse.
In buona sostanza, per quanto detto, il rischio aggressione risulta essere una minaccia concreta e in preoccupante crescita, per questa e/o altre figure professionali, un pericolo che va ben oltre il semplice scambio verbale acceso o diverbio e che può incidere sulla integrità fisica e psicologica di tali persone lavoratrici.
Dobbiamo però anche considerare che esiste una parte di imprenditori illuminati che di contro fanno dei loro luoghi di lavoro un presidio di legittimità e legalità, attenti alle esistenze dei loro dipendenti, sia dal punto di vista dei trattamenti economici, come anche nel riconoscere la valenza della sicurezza e igiene sul lavoro, ma anche saper offrire una rete di protezione rappresentata da un welfare aziendale articolato e sviluppato. E questo seguendo le orme dell’indimenticabile ing. Adriano Olivetti che con la sua omonima impresa di Ivrea ha segnato l’epoca della nostra prima Repubblica, in pieno boom economico, mettendo in pratica i suoi innovativi progetti industriali basati sul principio secondo cui i profitti aziendali possono e debbono essere reinvestiti almeno in parte a beneficio della comunità ed in particolare delle proprie maestranze, dando vita ad un dualismo sistemico basato su produzione e cultura gettando le fondamenta per una nuova organizzazione sociale. L’esempio fu dato dalla strutturazione sociale della piccola urbe Ivrea sviluppatasi su innovativi modelli urbanistici-architettonici e dotata di servizi sociali molto avanzati per l’epoca.
Torniamo alle cronache giornalistiche che con sempre maggiore frequenza ci riportano ai troppi episodi che vedono come protagonisti non solo ispettori del lavoro, o personale dei dipartimenti di prevenzione delle ASL, ma anche altre qualifiche similari impegnati in ulteriori mission come il personale dei servizi sanitari di pronto soccorso, medici, polizie municipali, guardia boschi e ambientali, e migliaia di lavoratori nei vari settori della sanità, della scuola e dei servizi al pubblico, oggetto di minacce, aggressioni, intimidazioni volte ad impedire lo svolgimento delle loro attività istituzionali, diventando un vero e proprio bersaglio da colpire.
È un obbligo di legge sancito dal Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro (D.Lgs. 81/2008), che impone di valutare tutti i rischi, inclusi quelli derivanti da interazioni violente con terzi.
Il fenomeno delle aggressioni sul lavoro, pertanto, assurge a elemento di rischio lavorativo e per questo necessariamente da contemplarsi tra i rischi che il datore di lavoro deve prevedere e quindi inserire nell’elaborazione dei relativi DVR – documenti valutazione rischi.
Nei fatti non esiste la sola fattispecie di violenza fisica. Il rischio aggressione comprende qualsiasi comportamento da intendersi anche sottoforma di molestie, minacce con aggressioni verbali, psicologiche o fisiche esercitate da terzi (utenti) verso un lavoratore, nel corso dello svolgimento della propria attività.
Di conseguenza il TU della sicurezza, ossia il D.Lgs. 81/2008, all’articolo 28 (Valutazione dei rischi), obbliga il datore di lavoro a valutare "tutti i rischi" indistintamente influenti sulla sicurezza e la salute di ogni lavoratore.
La giurisprudenza al riguardo si è espressa in modo netto: includendo espressamente anche i rischi di pertinenza psicosociale, tra cui lo stress lavoro-correlato e, appunto, il rischio di aggressione da parte di terzi. Ignorare ciò significherebbe mettere a repentaglio le persone escludendo il novero di interventi valutativi preventivi e azioni di migliore e completa tutela lavorativa.
L’incremento del fenomeno al quale assistiamo in questa ed altre professioni che impongono uno stretto contatto con l’utenza, circa episodi per così dire caratterizzati da forme di violenza aggressiva, non rappresentano un caso. Probabilmente sono il sintomo di un malessere più diffuso, che intercetta evidenti dinamiche sociali, organizzative e individuali.
Esiste, nei fatti, un contesto sociale foriero di insoddisfazione, in primis economica, con conseguente mancanza di fiducia nei servizi collettivi garantiti dallo Stato. La nostra società è sempre più polarizzata e proiettata al successo individuale caratterizzato da facili guadagni, spesso a discapito del lavoro altrui e al di fuori di regole condivise, caratterizzati da comportamenti etici, con una soglia di tolleranza molto ridotta rispetto a regole di convivenza sociale.
Gli stati d'ansia, di chi ha responsabilità di conduzione di imprese, titolari di attività commerciali, aziende, se non ben controllati possono rappresentare un elemento di oggettiva criticità. Aggiungiamo a questo il fatto che il personale adibito ad attività di controllo ispettivo non sempre risulta adeguatamente formato, in particolare sulla gestione di eventi scaturenti in conflittualità,
Per questa ragione riconoscere ed enucleare i rischi intrinseci dell'attività di controllo e ispezione, svolta ad esempio da personale dei corpi ispettivi INL - INPS - INAIL - ASL - Vigili del Fuoco, solo per citarne alcuni, che possono portare, come detto, a situazioni di tensione con i datori di lavoro ma anche scaturire quali rischi fisici, non è problema da poco.
Vi è quindi un impatto di natura psicologica da considerare. Un eccessivo carico di lavoro abbinato alla costante necessità di operare in situazioni di potenziale conflitto o stress può portare, almeno a scapito dei soggetti più fragili, ad un tasso di gravame psicologico significativo, appunto sulle figure degli ispettori. Esistono nella realtà operativa le tensioni con i datori di lavoro. L'attività ispettiva può originare forti attriti, soprattutto se le varie tipologie di controlli da svolgere danno evidenza di irregolarità. Conseguentemente i fatidici ispettori possono dover affrontare comportamenti alquanto ostili o reticenti da parte dei soggetti ispezionati o loro collaboratori.
Lo stesso personale ispettivo potrebbe intercettare una potenziale esposizione verso fenomeni di criminalità organizzata o no, imbattendosi in attività illecite che travalicano le mere violazioni delle norme giuslavoristiche. Anche queste situazioni possono ricadere negativamente sul personale operante conducendo ugualmente a rischi legati a reazioni aggressive o minacce.
Non va neanche sottaciuto che tali categorie di ispettori sono, al contempo, ufficiali di polizia giudiziaria, ciò comporta l'obbligo di agire nel solco della assoluta legalità e in conformità a rigide normative e disposizioni dell’autorità giudiziaria, esponendoli inevitabilmente a responsabilità personali in caso di possibili errori procedurali, anche involontari, evidenziando non di meno una serie di rischi di responsabilità penale e civile (magari per incaute omissioni o sottovalutazioni).
Contestualmente, è bene rammentarlo, si possono altresì appalesare delle necessità di intervenire in situazioni critiche che richiedono il supporto dei propri colleghi Carabinieri NIL della specialità dell’Arma Comando Tutela del Lavoro o altrimenti delle altre forze dell'ordine, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Polizia Municipale. Tale professione comporta, pertanto, una certa dose di stress legato alla responsabilità di prevenire, per quanto possibile, soprattutto in determinate zone del nostro Paese, il crimine e la potenziale esposizione a contesti ambientale dominati da un certo grado di pericolosità.
Per tornare al tema della Valutazione del Rischio, è bene evidenziare che il DVR (Documento di Valutazione dei Rischi) deve pur contenere una “specifica sezione” dedicata al rischio aggressione (almeno a parere di chi scrive). Questo vale quindi anche per gli Ispettorati del lavoro. Necessario quindi risulta essere per il datore di lavoro, in questo caso pubblico, la corretta identificazione delle figure esposte, le potenziali situazioni di pericolo, interne od esterne all’ufficio (riguardanti sia personale ispettivo, come anche personale amministrativo deputato ad attività con l’utenza) e la probabilità o meglio la frequenza del possibile verificarsi di detti eventi.
Finalizzando le misure di Prevenzione e Protezione, alla base della valutazione, va opportunamente implementata la tipologia di misure da adottarsi.
L’art. 28 del d.lgs.81 le elenca in ordine di priorità: misure tecniche, organizzative, procedurali, senza tralasciare ovviamente i dispositivi di protezione attivi e passivi, di tipo collettivo e individuale.
La stessa informazione e formazione deve essere giustamente somministrata al personale ispettivo, ma io aggiungo non solo, tra chi opera negli ispettorati del lavoro.
Il personale tutto, perciò, deve essere ampiamente formato. Per questo serve appunto una formazione specifica su come riconoscere le situazioni a rischio, le tecniche di raffreddamento dei conflitti, le procedure da attivare in caso di aggressione e le strutture a cui rivolgersi per il possibile supporto psicologico.
Conseguentemente, sul versante della adeguata sorveglianza sanitaria la stessa figura del Medico Competente, deve poter valutare la necessità di una sorveglianza di tipo specifico proprio rivolta ai lavoratori esposti a questo particolare rischio di natura psicosociale.
Più in generale riterrei necessario non sottovalutare per queste particolari tipologie di lavoratori pubblici tutta una serie di rischi che vanno dalle aggressioni, alle minacce, alle offese morali, alle ingiurie, inclusi quelli derivanti da qualsivoglia interazioni violente con terzi. In una parola avere consapevolezza di cosa possa succedere nel caso vengano ignorati tali tipologie di rischio e che ripercussioni possono cagionare per le varie figure interessate.
Proviamo ora ad enunciare una serie di evidenze meritevoli della loro previsione nel fatidico DVR che, come detto anche le diverse Pubbliche Amministrazioni, devono predisporre.
Partiamo dal menzionare l’aggressione verbale che le diverse tipologie di lavoratori pubblici devono subire da parte della vasta platea degli utenti della PA. Evidentemente ogni tipo di aggressione, anche di mero aspetto verbale, rappresenta concretamente un rischio psicosociale (non stancandoci di dirlo) e per questo, con ogni evidenza, può cagionare danni per la salute psicologica del lavoratore. Pertanto, ritengo debba essere adeguatamente valorizzata, valutata e gestita.
Ad ogni modo torniamo sul concetto di fondo, ovvero che (sempre ad opinione dell’autore) il Datore di lavoro pubblico non può esimersi quale responsabile dei propri dipendenti dal valutare adeguatamente detto rischio.
Ma anche la stessa figura del responsabile del servizio prevenzione – RSPP (sia esso interno che esterno) come anche del Medico Competente hanno l’onere, e aggiungerei il dovere, di proporre le misure di prevenzione più confacenti ed adeguate alla particolarità come risulta essere detta professione ispettiva.
Preme anche sottolineare in questo contesto come in effetti già sussistono delle “linee guida specifiche” pensate per la valutazione del rischio aggressione sul lavoro. In concreto oltre al TU sulla sicurezza D.Lgs.81 (per analisi, prevenzione, obblighi) è possibile fare riferimento e rinvio alle Linee Guida dell'INAIL per la prevenzione degli infortuni e alle Linee Guida dell'Unione Europea (ESENER-OSHA) che trattano specificamente di tutta la varietà di rischi nuovi ed emergenti e in particolare dei rischi psicosociali, proprio a livello europeo.
Non possiamo però al contempo sottacere l’entità, non marginale, dei costi legati ad ogni tipo di misura “prevenzionistica”, pur nella consapevolezza della necessità dell’adeguata e permanente formazione, la costante capacità di revisione delle procedure e protocolli d’azione, anche di natura organizzativa, Investire in prevenzione dovrebbe risultare sempre più conveniente che gestire situazioni emergenziali estreme.
Possiamo, a questo punto, porci un legittimo quesito rispetto alla possibilità di ammalarci per così dire di stress da lavoro. Nei fatti esistono concrete eventualità di vedere incrementare i cosiddetti disturbi psichici, in particolare per quella categoria di lavoratori che per evidenti ragioni professionali si trovano, più di altre, a contatto con l’utenza e aggiungerei magari con specifici compiti di natura ispettiva.
Per essere però più pragmatici non dobbiamo nasconderci dietro una terminologia troppo fumosa e con contorni sfocati, mi riferisco al fatto che troppe volte ci si rifugia genericamente all’attribuire al cosiddetto “stress” una mera stanchezza di fondo, magari collegata a periodi particolari della nostra vita, abbinati alla necessità di portare comunque avanti tutte le nostre incombenze: lavorative, familiari, direi di esistenza in genere.
Il mio pensiero invece si rivolge a quella serie di disagi vissuti (osservati direttamente dall’autore nelle sue funzioni dirigenziali) proprio sui posti di lavoro che possono tradursi in vere e proprie “patologie” psichiche e psicologiche, oggettivamente in crescita. Per questo dovrebbe suonare come campanello d’allarme le statisticazioni incrementali prodotte dall’INAIL proprio in merito alle patologie professionali riconosciute (appositamente e puntualmente tabellate) legate all’ambito e afferenti alla salute mentale, pur sapendo che le stesso scontano una oggettiva maggiore difficoltà nel loro riconoscimento anche a causa della difficoltà di distinguere i nessi causali tra fattori lavorativi incidenti e ambiti personali di vita, extralavorativi.
Ad ogni modo sarebbe opportuno un attento ripensamento delle più generali politiche di prevenzione con sistemi di sorveglianza specifici e capacità di gestione generale del rischio lavorativo, proprio per una più idonea tutela della salute psicologica e mentale.
Allo stato risulta però che gli effetti dannosi dello “stress” occupazionale fanno parte delle malattie professionali cosiddette “non tabellate”, per tale ragione il loro possibile riconoscimento indennitario viene previsto con l’onere della prova a carico del lavoratore stesso.
Ecco, quindi, come ci imbattiamo nelle casistiche, alquanto nebulose, che riconducono ai fattori di rischio psicosociali e da stress lavoro-correlato. Questo ultimo rappresenta un rischio per lo più di natura organizzativa tra i rischi psicosociali e trasversali, ma anche connesso alle relazioni interpersonali e più in generale all’ambiente esterno dove si svolge l’attività lavorativa.
Lo stress lavorativo è connotato da una reazione incontrollata psicofisica e psicoemotiva che lede l’equilibrio di vita e di lavoro dei soggetti afflitti, con compromissione delle funzioni e prestazioni sociali, necessita quindi di essere riconosciuta osservando lo squilibrio tra persona e ambiente di lavoro e perciò accompagnata nell’evoluzione finalizzando il contrasto risolutivo. Una particolare attenzione merita quindi la patologia del disturbo dell’adattamento cronico provocato da stress, ma anche quella del disturbo post traumatico da stress.
Non possiamo inoltre dimenticarci di citare eventi di aggressione ai corpi ispettivi che hanno prodotto sintomi per così dire “post-traumatici” come solo per citarne alcuni: attacchi di panico, insonnia, tachicardia, ipertensione, emicrania, astenia, inappetenza, ansia da depressione, reazioni fobiche, tremori incontrollati, ecc. tutti disturbi che se tralasciati possono sfociare in patologie maggiormente complesse.
Per essere ulteriormente chiari il rischio aggressione sul lavoro è in preoccupante aumento, crescendo in un modo allarmante, nei più diversificati ambienti di lavoro, specificamente per la categoria di lavoratori che stiamo qui trattando in particolare, ma senza dimenticare, come già detto, gli altri settori come: ordine pubblico, sanità, scuola, servizi, non trattandosi più di casi isolati. Le conseguenze di questi episodi sono molteplici e vanno al di là del mero danno fisico. Per questo bisogna aumentare la consapevolezza degli obblighi e degli strumenti di maggiore e migliore prevenzione possibile. È importante, perciò, che il rischio di aggressione venga considerato, valutato e gestito concretamente dalle molteplici organizzazioni lavorative non ultime le stesse Pubbliche Amministrazioni.
L’obiettivo irrinunciabile dovrebbe anche essere quello di creare consapevolezza diffusa nelle persone lavoratrici e fornire strumenti concreti di prevenzione primaria e secondaria partendo dalla informazione e formazione, componenti essenziali per la prevenzione dei rischi.
Ritorniamo anche sul concetto basilare che “ogni” datore di lavoro deve valutare a fondo e diligentemente “tutti” i rischi di qualsivoglia natura, come per altro sancito anche dalla Corte di Cassazione con sentenza n.34696 del 24 ottobre 2025, Ignorare ciò significa esporre il proprio personale a pericoli concreti e non di meno a gravi responsabilità. Il tutto non dovrebbe essere visto come un semplice obbligo ma invece in una concreta opportunità di diverso sviluppo organizzativo rendendo sostenibili nel tempo gli interventi di miglioramento per la sicurezza generale che ne derivano.
Si dovrebbe quindi rendere proattivi i datori di lavoro primari, ovvero delegati, (parlando in particolar modo di PA) aggiornando il DVR con una specifica sezione dedicata ai rischi psicosociali con particolare riguardo al rischio aggressione. Formare il personale sulle tecniche di raffreddamento dei conflitti e relativa gestione. Implementare misure tecniche e organizzative quali ad esempio prevedere dei sistemi di videosorveglianza (ovviamente nel pieno rispetto dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori) come anche implementare servizi di vigilanza armata o non armata a presidio delle sedi lavorative. Evidentemente riferiti alla gestione delle attività back office quindi internamente alle sedi. Istituzione di servizi di supporto psicologico pre e post eventi. In altre parole, procedere con delle analisi approfondite, del contesto lavorativo, delle condizioni operative in cui i dipendenti svolgono le loro attività, non tralasciando dei programmi di monitoraggio sulle azioni innovative.
Risulta quindi essere evidente come la gestione del rischio di aggressioni sul luogo di lavoro o nell’espletamento delle varie attività e funzioni (soprattutto di natura ispettiva) richieda un approccio articolato e multivaloriale, che parte dall'esame approfondito dei contesti e arriva a lambire le misure di prevenzione necessarie e maggiormente confacenti.
In conclusione, vorrei introdurre in questo redazionale una riflessione rispetto alla esigenza anche delle Amministrazioni pubbliche, nella loro veste di “datori di lavoro”, di indagare a fondo su aspetti impattanti le sofferenze di natura psicologica la loro origine e nesso lavorativo del proprio personale. Al riguardo si potrebbe prevedere di istituzionalizzare un apposito periodico censimento (nell’ambito della più complessiva e obbligatoria “sorveglianza sanitaria” e sue ricadute prevenzionistiche) da realizzarsi somministrando appositi questionari e relative interviste, in particolare per coloro che sono destinati ad attività di natura ispettiva ma più in generale a tutti coloro che svolgono attività a contatto diretto con il pubblico e/o utenza varia.
Ben vengano comunque eventuali indagini periodiche o meglio rappresentazioni statistiche per mezzo di questionari sul “benessere organizzativo” interno e quindi lavorativo, realizzate, coraggiosamente, da molte amministrazioni pubbliche per meglio valutare l’impatto delle organizzazioni sullo svolgimento sereno e produttivo delle articolate funzioni istituzionali che vengono svolte dalle varie PP.AA. ma in particolare sul grado di soddisfazione dei propri dipendenti rispetto al contesto lavorativo in cui operano.
Non da ultimo risulta essere il particolare interesse, esercitato dal datore di lavoro pubblico, circa l’individuazione di possibili eventuali criticità lavorative e conseguentemente veder adottare possibili azioni correttive volte a migliorare le condizioni generali, compreso il benessere psicologico dei dipendenti.
In ultima analisi riterrei doveroso affermare che lavorare a contatto con l’utenza, ma soprattutto adempiere a funzioni di carattere ispettivo, certamente produce delle sollecitazioni e ricadute di natura psicologica, con influenze dirette sullo stato di salute di questi dipendenti pubblici.
Adoperarsi affinché la salute stessa venga adeguatamente salvaguardata anche per mezzo di interventi prevenzionistici, deve rappresentare un obiettivo sicuro da perseguire fermamente, proprio in qualità di datori di lavoro pubblici. ![]()
[*] Dirigente INL, Direzione Centrale Risorse - Uff. III° - Bilancio e Patrimonio. Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro” nonché della cattedra di “Diritto del Lavoro”. Il presente contributo è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna l’Amministrazione di appartenenza.
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