Anno XIII - n° 72

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Novembre/Dicembre 2025

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Anno XIII - n° 72

Novembre/Dicembre 2025

Un’esistenza libera e dignitosa tra autonomia contrattuale e discrezionalità politica


di Marco Biagiotti [*]

Marco Biagiotti 2

Per i governi di qualunque colore politico l’attuazione dei principi sanciti dall’articolo 36, comma 1, della nostra Costituzione[1] rappresenta da sempre una sfida ardua sotto l’aspetto tecnico-giuridico, resa ancor più difficile dalle complesse implicazioni di natura sociale ed economica ad essa correlate[2]. Il tema sembra aver acquistato maggiore urgenza nel dibattito pubblico degli ultimi anni alla luce delle evidenze riguardanti la diffusione della povertà lavorativa nel nostro Paese, per la cui misurazione e valutazione i dati Eurostat costituiscono storicamente un riferimento importante in chiave comparativa fra le diverse realtà dei nostri partner europei[3]. Ma più che dai risultati scientifici delle analisi e delle indagini condotte da ricercatori ed esperti delle discipline a vario titolo interessati al problema (giuristi, economisti, sociologi, demografi, contrattualisti ed esperti di materie lavoristiche, ecc.), l’attenzione e la sensibilità dell’opinione pubblica italiana vengono oggi sollecitate soprattutto dai richiami – invero sempre più allarmati – provenienti dalle più alte Istituzioni civili e spirituali. Senza volersi dilungare in una teoria di citazioni, certamente inappropriata in questa sede, piace tuttavia rileggere alcuni passaggi significativi delle riflessioni che papa Francesco I ha dedicato a più riprese al tema dello sfruttamento lavorativo e della disumanizzazione del lavoro:

Biagiotti 72 1«Una seconda preoccupazione è lo sfruttamento delle persone, come se fossero macchine da prestazione. Ci sono forme violente, come il caporalato e la schiavitù dei braccianti in agricoltura o nei cantieri edili e in altri luoghi di lavoro, la costrizione a turni massacranti, il gioco al ribasso nei contratti, il disprezzo della maternità, il conflitto tra lavoro e famiglia. Quante contraddizioni e quante guerre tra poveri si consumano intorno al lavoro! Negli ultimi anni sono aumentati i cosiddetti “lavoratori poveri”: persone che, pur avendo un lavoro, non riescono a mantenere le loro famiglie e a dare speranza per il futuro[4].

ll lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale. In questo senso, aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro. Tuttavia, l’orientamento dell’economia ha favorito un tipo di progresso tecnologico finalizzato a ridurre i costi di produzione in ragione della diminuzione dei posti di lavoro, che vengono sostituiti dalle macchine. È un ulteriore modo in cui l’azione dell’essere umano può volgersi contro se stesso»[5].

Più recentemente, hanno destato scalpore le affermazioni del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sui rischi sociali ed economici derivanti dei gravi squilibri retributivi che caratterizzano le dinamiche del mercato del lavoro italiano in questa fase storica, agevolati anche dalla persistenza di strumenti di concorrenza sleale fra le imprese come il dumping salariale e quello contrattuale:

«Ben sappiamo come i salari siano stati lo strumento principe nel nostro Paese per ridurre le disuguaglianze, per un equo godimento dei frutti offerti dall’innovazione, dal progresso.

È una questione che non può essere elusa perché riguarda in particolare il futuro dei nostri giovani, troppi dei quali sono spinti all’emigrazione. Questa strada, spesso sofferta, viene prescelta, talvolta, per la difficoltà di trovare lavoro e, sovente, a causa del basso livello retributivo di primo ingresso nel mondo del lavoro».

Ed ancora:

«Oltre mille i contratti collettivi nazionali di lavoro depositati al Cnel: duecentocinquanta nei soli settori del turismo e del terziario.

Tra questi, vi sono contratti firmati da rappresentanze sindacali e datoriali scarsamente rappresentative, con vere e proprie forme di dumping contrattuale che hanno l’effetto di ridurre i diritti e le tutele dei lavoratori, di abbassare i livelli salariali, di provocare concorrenza sleale fra imprese.

Dinamiche di mercato concorrono ad ampliare questi squilibri nelle retribuzioni. Ne nasce un aspetto a cui non si può sfuggire quando tante famiglie sono sospinte sotto la soglia di povertà nonostante il lavoro di almeno uno dei componenti, mentre invece super manager godono di remunerazioni centinaia, o persino migliaia di volte superiori a quelle di dipendenti delle imprese»[6].

Per una singolare (ma forse non casuale) coincidenza temporale rispetto alle affermazioni del Capo dello Stato, è entrata in vigore il 18 ottobre scorso la Legge 26 settembre 2025, n. 144, recante “Deleghe al Governo in materia di retribuzione dei lavoratori e di contrattazione collettiva nonché di procedure di controllo e informazione” (G.U. n. 230 del 3/10/2025). Con questa norma viene introdotto – per la prima volta e in modo diretto – nel panorama normativo italiano il tema del recupero dei principi costituzionali sanciti dall’art. 36 Cost. in funzione dell’obiettivo europeo, fissato dall’art. 1, comma 1, della direttiva UE 2022/2041, di “migliorare le condizioni di vita e di lavoro nell’Unione, in particolare l’adeguatezza dei salari minimi per i lavoratori al fine di contribuire alla convergenza sociale verso l’alto e alla riduzione delle disuguaglianze retributive”[7]. Non si comprenderebbero però alcuni aspetti della nuova disposizione, in particolare quelli riguardanti i criteri per la definizione dei “trattamenti retributivi giusti ed equi”, se si mancasse di richiamare l’esito dell’istruttoria sull’adozione del salario minimo legale nel nostro Paese condotta, su richiesta del governo, dalle parti sociali rappresentate al CNEL e conclusasi con l’adozione di un ampio e articolato documento di osservazioni e proposte[8] che evidenziava le criticità connesse alla ricerca delle possibili soluzioni rispetto a un problema tecnicamente assai più complesso di quanto lasciasse (e tuttora lasci) intendere il dibattito in corso sui grandi mezzi di informazione[9]. Per ovvi limiti di spazio, non è possibile riassumere qui i molteplici e complessi risvolti del documento adottato – peraltro in modo non unanime – dalle parti sociali; tuttavia, fra gli spunti più stimolanti ed attuali offerti all’attenzione del legislatore è da annoverare il tentativo di indagare la correlazione esistente fra adeguatezza dei livelli retributivi e struttura della contrattazione collettiva in Italia[10], sulla quale il fenomeno del dumping contrattuale proietta un indubbio effetto distorsivo malgrado la sua limitata diffusione[11] (aspetto, quest’ultimo, su cui torneremo più avanti). Di qui il suggerimento al governo di valorizzare “la via tradizionale che è quella della contrattazione collettiva e cioè il contributo di quelle forze sociali che rappresentano, assumendosene la responsabilità, gli interessi della domanda e dell'offerta di lavoro.”[12]

Biagiotti 72 2A due anni di distanza (un tempo forse lungo, ma utile almeno a far sedimentare la tempesta di polemiche politiche, spesso più emotive che costruttive, associata illo tempore al dibattito sull’adozione del salario minimo legale in Italia) la legge-delega 144 affronta in esordio proprio il tema della capacità della contrattazione collettiva di svolgere una funzione di garante dell’adeguatezza dei livelli retributivi ai sensi dell’art. 36 della Costituzione. In tale direzione va quindi la previsione dell’art. 1, comma 1, di rafforzare la contrattazione collettiva stabilendo criteri che riconoscano “l'applicazione dei trattamenti economici complessivi minimi previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati” attraverso una serie di obiettivi da affidare alla legislazione delegata. Tra questi ultimi, in particolare, si sottolineano quelli richiamati ai punti c) e d) dello stesso comma 1, concernenti il rispetto dei tempi di rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro[13] e il contrasto al fenomeno del “dumping contrattuale” che si manifesta nella proliferazione di pseudo-accordi collettivi il cui vero obiettivo è la riduzione del costo del lavoro e delle tutele dei lavoratori[14]. A tal fine, il legislatore delegato sarà chiamato entro sei mesi a “definire, per ciascuna categoria di lavoratori, i contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati in riferimento al numero delle imprese e dei dipendenti”, il cui trattamento economico complessivo minimo costituirà “la condizione economica minima da riconoscere ai lavoratori appartenenti alla medesima categoria” ai sensi dell'articolo 36 della Costituzione (comma 2, lettera a). Inoltre, per le società appaltatrici e subappaltatrici di servizi “di qualunque tipo e settore” sarà previsto l’obbligo di riconoscere trattamenti economici complessivi minimi almeno uguali a quelli previsti dai CCNL maggiormente applicati nel settore al quale si riferisce l'oggetto dell'appalto (comma 2, lettera b). Una disposizione che, sia detto per inciso, non renderà più facile il compito degli organismi di controllo chiamati a vigilare sulla corretta attuazione del nuovo Codice degli appalti, stante che nell’art. 11 del D.Lgs. 36/2023, concernente il “Principio di applicazione dei contratti collettivi nazionali di settore”, si rimanda ai trattamenti economici dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Il riferimento al salario minimo complessivo – piuttosto che al minimo tabellare – fissato nei contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati implica che il trattamento minimo contrattuale da prendere in considerazione per soddisfare i principi enunciati nell’articolo 36 Cost. sia formato non da una singola componente, ma da un insieme di voci retributive dirette e indirette[15]. In altre parole, l’indicazione della delega per il riconoscimento dei trattamenti minimi contrattuali supera la logica del salario minimo orario tabellare in favore di una dimensione retributiva più articolata, la cui ricostruzione ai fini degli obiettivi fissati nell’art. 1 della L. 144 chiamerà le parti sociali ad un intenso confronto, al proprio interno non meno che con la controparte politica, in vista della definizione del relativo decreto delegato[16]. Inoltre, per l’individuazione dei trattamenti minimi contrattuali da prendere in considerazione occorrerà fare riferimento al principio della maggiore rappresentatività della contrattazione collettiva che, per il legislatore delegante, consiste nel criterio della maggiore applicazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro per ciascuna categoria in riferimento al numero di imprese e di dipendenti.

Non si può fare a meno di osservare come l’art. 1, comma 2, lettera a) della legge delega introduca un fattore di forte discontinuità giuridica rispetto alla tradizionale formula del ‘sindacato comparativamente più rappresentativo’; discontinuità che, tuttavia, presuppone la disponibilità di uno strumento operativo in grado di riconoscere i contratti collettivi maggiormente applicati e diffusi in ogni ambito produttivo[17]. Si tratta invero di un passaggio che suscita le perplessità di qualche autorevole esperto di diritto del lavoro e di relazioni industriali, poiché il semplice criterio della massima diffusione dei contratti collettivi, sganciato dal criterio della maggiore rappresentatività delle organizzazioni firmatarie, rischierebbe di incentivare, per una sorta di eterogenesi dei fini, la contrattazione di bassa qualità[18]. L’attuazione diffusa delle procedure di misurazione e certificazione della rappresentatività sindacale definite nel Testo Unico della rappresentanza del 10 gennaio 2014 e, successivamente, richiamate nell’accordo interconfederale Confindustria-CGIL-CISL-UIL su “Contenuti e indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva” (c.d. Patto della fabbrica) del 28 febbraio 2018[19], potrebbe certo contribuire ad allontanare tale rischio. Nelle more di un intervento legislativo che recepisca i contenuti delle intese interconfederali, tuttavia, si può solo cercare di verificare se e quale corrispondenza esista fra la diffusione dei CCNL nei rispettivi settori e il ‘peso’ delle organizzazioni firmatarie in base ai parametri attualmente disponibili. Sotto questo profilo, sembra utile rimandare alle informazioni fornite nell’ultimo Rapporto INPS presentato il 16 maggio 2025, da cui si evince la fortissima incidenza, nel panorama contrattuale complessivo, dei contratti collettivi nazionali di lavoro “grandi” (riguardanti cioè più di 10.000 dipendenti) firmati da CGIL-CISL-UIL rispetto a quelli di pari dimensioni firmati da altre organizzazioni[20].

Ma di quali strumenti effettivamente disponiamo per individuare i contratti collettivi maggiormente applicati nei vari settori? Allo stato attuale, i soli dati che consentono di tracciare una mappa attendibile del grado di diffusione degli accordi sindacali nazionali nei vari settori produttivi (escludendo la pubblica amministrazione, per la quale si fa riferimento alle regole sulla contrattazione nazionale e integrativa e sulla rappresentatività delle organizzazioni sindacali fissate nel decreto legislativo n. 165/2001) sono quelli provenienti dai flussi Uniemens relativi ai contratti dichiarati dai datori di lavoro ai fini del calcolo dei contributi previdenziali e che, incrociati con il sistema CNEL-INPS di classificazione dei contratti e ancorati ai codici professionali ATECO, consentono di collegare, settore per settore, ciascun CCNL al numero di aziende e di lavoratori a cui si applica[21]. Sembra evidente, quindi, che la legislazione delegata potrà perseguire gli obiettivi indicati nell’art. 1 muovendo essenzialmente dalla base dati di cui sopra, peraltro in continuo aggiornamento, che sarà utile anche per comprendere la reale dimensione e l’effettiva portata del dumping contrattuale in termini di impatto sul sistema produttivo nazionale[22]. Lungi dal voler sminuire la necessità di contrastare un fenomeno dannoso sotto ogni punto di vista, economico, giuridico e sociale, occorre tuttavia approfondirne meglio le peculiarità, a cominciare dagli elementi che permettano di ricondurne la maggiore o minore diffusione alle caratteristiche di taluni settori produttivi; e, soprattutto, di valutare l’effettiva portata applicativa di molti contratti sedicenti nazionali, ma la cui effettiva dimensione appare, in molti casi, quanto meno dubbia[23]. Del resto, la correlazione tra la diffusione del lavoro povero in Italia e una certa tendenza al micro-dimensionamento territoriale dei contratti collettivi nazionali è fenomeno noto da tempo agli esperti e agli studiosi di materie lavoristiche[24], alimentato (anche) dalla persistente latenza della già ricordata procedura di misurazione e certificazione della rappresentatività su base settoriale.

Proseguendo nella lettura dell’elenco delle materie demandate alla legislazione delegata dall’art 1, comma 2, si rileva una serie di interventi finalizzati al rafforzamento della contrattazione collettiva nel ruolo di principale riferimento per la fissazione e il rispetto dei trattamenti economici minimi complessivi, tra cui i più rilevanti sono:

  • estensione dei trattamenti minimi fissati dai CCNL ai “gruppi di lavoratori non coperti da contrattazione collettiva”, tramite l’applicazione del “contratto collettivo nazionale di lavoro della categoria di lavoratori più affine”;
  • previsione di strumenti (e sarà piuttosto interessante sapere quali) per favorire il “progressivo sviluppo della contrattazione di secondo livello”, seguito da un (invero poco chiaro e per certi aspetti inquietante) riferimento alla diversificazione dell’incremento del costo della vita su base territoriale;
  • introduzione di “strumenti a sostegno del rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro entro i termini previsti dalle parti sociali o di quelli già scaduti”, come ad es. il riconoscimento di incentivi per “bilanciare e, ove possibile, compensare la riduzione del potere di acquisto degli stessi”;
  • intervento diretto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali per garantire l’adozione dei trattamenti economici minimi complessivi per ciascun contratto scaduto e non rinnovato entro i termini previsti dalle parti sociali e per i settori non coperti da contrattazione collettiva.


Biagiotti 72 3Su quest’ultimo punto, in particolare, vorremmo proporre alcune brevi riflessioni conclusive, a cominciare dal fatto che la previsione di un intervento ministeriale sembra poco in linea con lo spirito di rafforzamento del ruolo della contrattazione collettiva nella definizione dei livelli retributivi idonei a garantire l’attuazione dell’art. 36 della Costituzione. Può apparire curioso che, in una norma nata dalle ceneri delle pregresse iniziative parlamentari sul salario minimo legale (tema di cui, in definitiva, la legge 144 decreta la scomparsa dalla scena politica) faccia capolino questa riserva di legge governativa che, implicitamente, attesta una sorta di carsica supremazia della politica sulla libera ed autonoma capacità regolatoria delle parti sociali. Il dettato della lettera g) del comma 2, in effetti, è formulato in modo tale da alimentare qualche incertezza in tal senso. Pur muovendo dal condivisibile presupposto rappresentato dalla necessità di assicurare livelli retributivi coerenti con i principi dell’art. 36 Cost. anche ai settori non coperti da contrattazione collettiva, il delegante estende gli effetti delle “misure necessarie” scaturenti dal potere regolatorio ministeriale anche ai “trattamenti economici minimi complessivi” dei CCNL scaduti e non rinnovati entro i termini previsti dalle parti sociali “o comunque entro congrui termini”. Tralasciando per brevità il problema di stabilire a chi competa l’esatta definizione dei suddetti “congrui termini”, resta che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali (quindi, il governo) assume su di sé l’onere di adottare “misure necessarie” per adeguare (ope legis?) i trattamenti economici minimi complessivi dei contratti collettivi nazionali di lavoro scaduti e non rinnovati, tenendo conto “se del caso” dei trattamenti economici minimi complessivi “previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati nei settori affini”. Non è un impegno da poco, considerando che tutto ciò potrebbe da un lato configurare una sorta di estensione erga omnes della sola parte retributiva dei contratti considerati affini ai settori non coperti da contrattazione[25] e, dall’altro e per altra via, far ricadere nel perimetro del possibile intervento ministeriale anche (e persino) settori nei quali i contratti collettivi nazionali esistono a valle di consolidati sistemi relazionali[26]. Se fosse lecito concludere questo contributo accostando una norma in divenire a una casistica nota, potremmo chiederci come si sarebbe declinato un eventuale intervento ministeriale per sbloccare – ad esempio – il CCNL Terziario-Distribuzione-Servizi o quello delle TLC, rinnovati di recente dopo anni di attesa e nonostante le solide relazioni industriali che caratterizzano entrambi i settori. Vedremo se fra sei mesi arriverà una risposta. Quadrato Rosso

Note

[1] “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.”

[2] Fra gli approfondimenti che questa rivista ha già dedicato a tale argomento si richiama il contributo di E. Diana e L. Oppedisano, “La giusta retribuzione. Per una vita libera e dignitosa”, Lavoro@confronto n. 58, Luglio-Agosto 2023, pp.7-12, anche con riferimento al problema dell’attuazione dell’art. 36 in rapporto alla recente legislazione europea.

[3] Per il 2024 il tasso di rischio di povertà lavorativa degli occupati over 18 in Italia era stimato da Eurostat al 10,2% contro una media europea dell’8,2%. Per il nostro Paese, tale stima Eurostat segna un incremento rispetto al 9,9% del 2023, ma una diminuzione rispetto all’11,5% del 2022. Cfr. : Eurostat, “Condizioni di vita in Europa - povertà ed esclusione sociale”.
Per un’analisi a più ampio spettro del fenomeno della povertà lavorativa in ambito europeo comparato sembra utile rimandare all’edizione 2025 dell’indagine della Commissione Europea: “Key figures on European living conditions”, pubblicato il 17 settembre scorso (purtroppo solo in inglese) sul sito di Eurostat.
Impressiona qui, fra le altre, l’immagine contenuta a pag. 15 sulla distribuzione percentuale di popolazione a rischio di povertà o di esclusione sociale nelle diverse aree geografiche dell’area UE, da cui si evince che circa la metà del territorio italiano (peraltro, in buona compagnia con quasi tutto il Sud d’Europa) rientra nelle due fasce più alte di rischio povertà con una percentuale stimata uguale o superiore al 25% (contro una media europea del 21%).

[4] Il brano riportato è tratto dal “Discorso del Santo Padre Francesco a dirigenti e delegati della Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL)”, Aula Paolo VI, Lunedì, 19 dicembre 2022.

[5] Il brano riportato è tratto dalla “Lettera enciclica Laudato Si del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune” (128).

[6] I brani citati sono tratti dall’“Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della Cerimonia di consegna delle Stelle al Merito del Lavoro per l’anno 2025”, Roma, Palazzo del Quirinale, 17 ottobre 2025.

[7] Direttiva (UE) 2022/2041 del Parlamento europeo e del Consiglio.

[8] Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro: “Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia”, approvato dall’Assemblea del 12 ottobre 2023. Il documento è scaricabile dal sito istituzionale del CNEL.

[9] Proprio le pagine di questa rivista avevano offerto una interessante lettura giuridica del tormentato dibattito politico e parlamentare che aveva portato il governo a rimettere all’esame delle parti sociali La ricerca di una soluzione alla “vexata quaestio” dell’introduzione del salario minimo legale in Italia entro la cornice dei possibili percorsi delineati dalla direttiva europea. Vedi, in particolare: P. Napoleoni, “Oltre il salario minimo. È necessario garantire i minimi di trattamento normativo”, Lavoro@confronto n. 60 – Novembre-Dicembre 2023.

[10] Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, cit., par. 10: “Il nodo della effettività dei trattamenti retributivi: l’urgenza e l’utilità di un piano di azione nazionale a sostegno del sistema della contrattazione collettiva quale risposta alla questione salariale e al nodo della produttività”, pag. 25: “(…) quale che sia la decisione politica in merito alla introduzione o meno nel nostro ordinamento giuridico di un salario minimo fissato per legge, l’urgenza e l’utilità di un piano di azione nazionale, nei termini fatti propri della direttiva europea in materia di salari adeguati, a sostegno di un ordinato e armonico sviluppo del sistema della contrattazione collettiva, in termini di adeguamento strutturale di questa fondamentale istituzione di governo del mercato del lavoro alle trasformazioni della domanda e dell’offerta di lavoro e quale risposta sinergica, là dove condotta da attori qualificati e realmente rappresentativi degli interessi del mondo del lavoro, tanto alla questione salariale (per tutti i lavoratori e non solo per i profili professionali collocati agli ultimi gradini della scala di classificazione economica e inquadramento giuridico del lavoro) quanto al nodo della produttività.”

[11] Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, cit., par. 9: “Il fenomeno della c. d. contrattazione pirata”. Pag. 24: “(…) si può desumere come il fenomeno della contrattazione c. d. pirata sia marginale nella larga maggioranza dei settori produttivi, per quanto fattore di grave perturbazione del sistema di relazioni industriali e anche di scorretta concorrenza tra le imprese, con particolare riferimento ad alcune aree geografiche del Paese e ad alcuni settori produttivi.”

Biagiotti 72 4[12] “La contrattazione collettiva, quale sede storica per eccellenza della dialettica tra istanze economiche e istanze sociali presenti sul mercato del lavoro, non è infatti un semplice equivalente di una contrattazione economica individuale, ma piuttosto una vera e propria istituzione “politica” che concorre alla compensazione tra la domanda e l’offerta di lavoro” (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, cit., “Osservazioni conclusive”, pag. 30).

[13] Al riguardo, si ricorda la disposizione contenuta nell’art. 4 del disegno di legge di bilancio 2026 (AS 1689), attualmente all’esame in Commissione bilancio al Senato, relativa allo sgravio fiscale (con aliquota sostitutiva pari al 5%) dei rinnovi contrattuali sottoscritti negli anni 2025 e 2026, forse anche con l’intento politico di incentivare le parti contraenti al rispetto delle scadenze contrattuali nel settore privato al quale, peraltro, la norma stessa circoscrive il campo di applicazione.

[14] Per un approfondimento sulle strategie attraverso cui la contrattazione pirata persegue i propri obiettivi di riduzione del costo del lavoro, ad es. attraverso il gioco degli inquadramenti contrattuali o la riduzione delle tutele normative, si suggerisce la lettura del breve, ma documentato saggio di Giovanni Piglialarmi, L’ingegnerizzazione della contrattazione pirata, in Bollettino ADAPT n. 37 del 27 ottobre 2025. Fra i vari aspetti del problema esaminati dall’autore, mette conto segnalare quello sulle strategie comunicative attuate con l’ausilio dei social network: “Da qualche anno, infatti, tali canali di comunicazione sono diventati teatro di pubblicità talvolta ingannevole, che mirano ad attirare l’attenzione del datore di lavoro poco attento (o dei suoi intermediari) e che potrebbe essere facilmente ammaliato dall’occasione del risparmio, grazie all’applicazione non del CCNL ma del “CCNL perfetto per la tua azienda” che può essere scelto “tra oltre 1.000 contratti depositati al CNEL” (così recita un messaggio pubblicitario pubblicato nel 2025). In alcuni casi, sono previsti anche dei webinar promozionali, durante i quali vengono illustrati quali siano le caratteristiche e i vantaggi connessi all’applicazione di determinati CCNL, senza però andare fino in fondo alle possibili conseguenze derivanti da una rigorosa applicazione del quadro normativo (a partire dall’art. 2, comma 25 della legge n. 549/1995)” (ibidem).

[15] Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, cit., par. 8: “Adeguatezza dei trattamenti salariali previsti dai contratti collettivi”, pag. 20, pur senza omettere la non uniformità di posizioni fra le parti sociali rispetto alle voci retributive da prendere in considerazione per la determinazione del minimo contrattuale, sottolinea che “la struttura della retribuzione in Italia non è pensata in funzione di una tariffa oraria e che, diversamente da molti altri Paesi, esistono in Italia voci retributive sui generis come la tredicesima, la quattordicesima, l’elemento di garanzia rispetto alla contrattazione decentrata di produttività”.

[16] Peraltro, già il più volte citato documento del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro del 12 ottobre 2023 sottolineava che “Negli ultimi decenni le stesse parti sociali hanno concentrato, specie in alcuni comparti, le risorse dei rinnovi contrattuali sempre meno sul minimo tabellare, quale elemento di misurazione della professionalità rispetto alle scale retributive, per introdurre nuove forme di distribuzione del valore economico del contratto in direzione della valorizzazione della produttività, della flessibilità organizzativa, del welfare contrattuale e della bilateralità. Il sistema di contrattazione collettiva italiano si muove, nel complesso, in una direzione diversa da quella della tariffa oraria e del potenziamento minimo tabellare” (ibidem).

[17] M. Tiraboschi, “Le deleghe su salari e contrattazione collettiva tra analisi tecnica e valutazione politica”, Bollettino ADAPT 6 ottobre 2025, n. 34, ricorda, a tal proposito, che il CNEL ha provveduto “a una complessiva riorganizzazione dell’archivio nazionale dei contratti e degli accordi di lavoro, secondo le linee di azione contenute nel documento di osservazioni e proposte del 12 ottobre 2023, predisponendo già un elenco ristretto di contratti collettivi nazionali di categoria maggiormente diffusi e applicati in ogni settore economico e produttivo.”

[18] Così, ad esempio, T. Treu, “Una legge delega aperta e impegnativa”, Il Diario del lavoro, 26 settembre 2025: “Pensando male ma indovinandoci, un contratto molto al “ribasso” magari potrebbe venire applicato entusiasticamente da molte imprese che vorrebbero, come dire, abbassare il costo del lavoro. Ma questo non è sufficiente a renderlo poi giusto. Quindi questo criterio della maggiore applicazione, da solo, non ci garantisce in sostanza che vengano fuori dei risultati di garanzia giusta.” Su questo stesso punto, peraltro, M. Tiraboschi, “Le deleghe su salari e contrattazione collettiva”, cit., osserva che “il criterio dei contratti più diffusi rispetto a ciascun settore economico e produttivo, una volta ancorato al dato oggettivo dei codici ATECO (…), diventa una soluzione tecnica destinata a operare anche in assenza di una convergenza politica (che non si vede all’orizzonte) sulla necessità o meno di una misurazione per legge della rappresentatività degli attori sindacali per identificare i contratti collettivi che hanno un effettivo radicamento nel nostro sistema di relazioni industriali consentendo così di contrastare fenomeni di dumping contrattuale, l’evasione contrattuale e contributiva e forme di concorrenza sleale, che, almeno a parole, è obiettivo comune di tutte le principali forze politiche e sociali del nostro Paese.”

[19] Si veda, in particolare, il punto 4 concernente: “Democrazia e misura della rappresentanza”, dove però l’accertamento della effettiva rappresentatività, sia delle associazioni sindacali che datoriali, è subordinato ad almeno due passaggi essenziali: 1) una ricognizione “precisa” dei perimetri della contrattazione collettiva nazionale di categoria ad opera delle parti sociali; 2) una ricognizione “attenta” del soggetti che, all’interno dei perimetri contrattuali, risultino firmatari di contratti collettivi nazionali di categoria.

[20] INPS, XXIV Rapporto annuale, 2025, par. 1.4.3, “I Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro: numerosità, articolazione, differenze salariali”, pp. 102-111.

[21] Integrazione tra l’archivio dei CCNL del CNEL e il flusso UNIEMENS dell’INPS per mezzo del codice alfanumerico unico dei contratti collettivi nazionali di lavoro

[22] M. Tiraboschi, “I numeri (veri) sulla contrattazione pirata”, in Bollettino ADAPT 28 aprile 2025, n. 16, osserva che “i (relativamente) pochi contratti sottoscritti da CGIL, CISL, UIL (circa 250 sugli oltre 1.000 depositati nell’archivio del CNEL), coprono la quasi totalità dei lavoratori. Parliamo di una copertura che supera il 96 per cento dei lavoratori italiani del settore privato, con la sola eccezione per lavoro domestico e lavoro agricolo dove questi dati ancora mancano. I restanti contratti, soprattutto quelli sottoscritti da sigle minori e spesso del tutto sconosciute, si applicano a numeri davvero residuali di lavoratori. Basti pensare che quasi 500 contratti nazionali depositati al CNEL trovano applicazione a meno di 100 addetti, davvero poca cosa per parlare di frammentazione del sistema di contrattazione collettiva e di un dilagare della contrattazione in dumping. Le finalità del deposito, in questi casi, sono evidentemente altre e riguardano benefici che gli “attori” firmatari contano di maturare rispetto alle istituzioni pubbliche più che in ragione di un reale radicamento nel sistema di relazioni industriali.”

[23] A. Feri, M. Tiraboschi. L. Venturi, “La contrattazione collettiva di minore applicazione: una prima esplorazione dell’archivio dei contratti del CNEL”, Casi e materiali n. 31, settembre 2025, osservano che ben 373 degli oltre 1.000 CCNL depositati al CNEL “hanno una applicazione in non più di 20 province, mentre ben 438 CCNL sono applicati in meno di 50 aziende ciascuno e ben 343 CCNL coprono meno di 100 dipendenti ciascuno.”

[24] Ad esempio, M. Faioli, “Il disordine e l’ordine nella contrattazione collettiva italiana”, Lavoro Diritti Europa, n. 4/2021, osserva come la proliferazione del lavoro povero discenda da «una sorta di indiretta “aziendalizzazione” della contrattazione nazionale. Cioè, organizzazioni minori, datoriali e sindacali, stipulano CCNL a basso contenuto protettivo e di costo del lavoro che sono applicati a pochi o a pochissimi datori di lavoro di una certa zona geografica del paese, che operano in certo settore. A voler seguire intenti elusivi, non c’è più bisogno di un contratto aziendale che deroghi in modo incontrollato il CCNL: si può costituire un’organizzazione, stipulare un CCNL al ribasso e farlo applicare a una dozzina di datori di lavoro!».

[25] T. Treu, “Una legge delega aperta e impegnativa”, cit.: “Dalla legge si evince come sia possibile anche l’estensione dei minimi retributivi nei settori dove non c’è contratto, prendendolo da contratti vicini. Quindi è interpretabile come una specie di erga omnes specifica della parte retributiva.”

[26] T. Treu, ibidem: “Non credo sia possibile che il ministro possa dettare lui legge e stabilire un minimo se le parti sociali sono in ritardo con il rinnovo, almeno non penso che si possa leggere in questo modo.”
Per una panoramica sull’entità dei ritardi nei rinnovi contrattuali si rinvia, a titolo di documentazione, alla più recente pubblicazione ISTAT su “Contratti collettivi e retribuzioni contrattuali - III trimestre 2025”, diffusa il 29 ottobre 2025, dalla quale si evince che, in riferimento al campione utilizzato dall’Istituto, i contratti in attesa di rinnovo a fine settembre 2025 riguardano circa 5,6 milioni di dipendenti, pari al 43,1% del totale, mentre il tempo medio di attesa per i contratti scaduti è salito, tra settembre 2024 e settembre 2025, da 18,3 a 27,9 mesi. A sua volta il “XXVI Rapporto CNEL su mercato del lavoro e contrattazione collettiva”, approvato il 23 aprile 2025, a pag. 97 informa che “i settori in cui i lavoratori attendono più a lungo il rinnovo del CCNL risultano essere “T – istruzione, sanità, assistenza, cultura, enti” con una vacanza contrattuale media di 57,3 mesi, “G – poligrafici e spettacolo” con una vacanza contrattuale media di 51,2 mesi, “H – terziario e servizi” con una vacanza contrattuale media di 41,7 mesi e “V – CCNL plurisettoriali, microsettoriali e altri” con una vacanza contrattuale media di 31,3 mesi.”

[*] Dipendente del Ministero del Lavoro dal 1984 al 2009 e, dal 2009 ad oggi, del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Ha collaborato alla realizzazione della collana di volumi “Lavoro e contratti nel pubblico impiego” per la UIL Pubblica Amministrazione. Dal 1996 al 2009 è stato responsabile del periodico di informazione e cultura sindacale “Il Corriere del Lavoro”. Dal 2011 al 2023 ha collaborato alla redazione del notiziario “Mercato del lavoro e Archivio nazionale dei contratti collettivi” del CNEL

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