Il comparto della moda e del lusso, storicamente simbolo d'eccellenza del Made in Italy, è attualmente sotto la lente della magistratura e al centro di un vivace dibattito giuridico.
Solo negli ultimi diciotto mesi, il Tribunale di Milano ha emesso numerosi decreti di applicazione della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34, D. Lgs. n. 159/2011 (c.d. codice Antimafia) nei confronti di note aziende operanti nel settore dell’alta moda, riconoscendone il coinvolgimento nell’agevolazione colposa del caporalato.
L’accusa mossa dalla Procura di Milano, in particolare, è sempre la medesima, ossia quella di aver colposamente agevolato fatti di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro – c.d. “caporalato” – posti in essere da società terze coinvolte nella filiera produttiva. Tutti i provvedimenti si fondano sull'omesso controllo della supply chain e, più dettagliatamente, sull’omesso controllo dei subappaltatori e la mancata verifica delle concrete condizioni di lavoro.
Tali modus operandi segna un punto di svolta dell’approccio giudiziario nel settore della moda, in grado di focalizzare l’attenzione su un aspetto critico ma fin ad oggi sottostimato, ossia la responsabilità colposa dell'impresa per condotte illecite commesse da soggetti terzi lungo la filiera produttiva.
Dopo Armani, Valentino, Dior e Alviero Martini, è il turno di Loro Piana. La storica azienda italiana di eccellenza nel settore del lusso tessile e dell’abbigliamento di alta gamma, oggi controllata dal gruppo francese Lvmh (Louis Vuitton Moët Hennessy), è stata sottoposta ad un anno di amministrazione giudiziaria dal Tribunale di Milano, sezione autonoma misure di prevenzione, con l’accusa di aver instaurato colposamente stabili rapporti con soggetti dediti allo sfruttamento dei lavoratori[1].
Si tratta del quinto provvedimento di amministrazione giudiziaria che ha investito il settore dell’alta moda tra il 2024 e il 2025.
Dalle attività di controllo ispettive condotte dal Nucleo Ispettorato del Lavoro del Comando Carabinieri di Milano presso opifici a conduzione cinese, emergono non solo semplici difformità alle normative vigenti in materia di tutela del lavoro, ma aspetti comuni e ricorrenti. In particolare, in tutti gli stabilimenti sottoposti a vigilanza si riscontra l’utilizzo e lo sfruttamento di manodopera irregolare e clandestina, il ricorso del committente alla produzione in subappalto nonché, in numerosi casi, al passaggio degli stessi soggetti irregolari da un opificio all’altro.
Come evidenziato dal Pubblico Ministero nella parte introduttiva della richiesta di applicazione della misura di prevenzione, le indagini della Procura meneghina hanno rivelato un meccanismo consolidato di sfruttamento lavorativo articolato secondo il seguente schema.
Da un lato l’azienda appaltatrice dalle case di moda, che possiede soltanto formalmente una capacità produttiva adeguata ma in realtà ne è priva – potendo occuparsi esclusivamente della realizzazione di campionari e non della produzione completa delle collezioni – per competere sul mercato nella pratica è costretta ad esternalizzare le commesse presso opifici cinesi, riuscendo a ridurre i costi grazie all’impiego di manodopera irregolare e clandestina.
Dall’altro lato, i soggetti che, di fatto, gestiscono i laboratori cinesi: procedono al reclutamento di connazionali costretti in condizioni di clandestinità e con ridotte possibilità di integrazione ed emancipazione sul territorio nazionale; ricevono istruzioni operative in materia di produzione direttamente dalla società appaltatrice; adottano diffusamente il c.d. cottage system, consistente nella costruzione, da parte del fabbricante, di alloggi destinati agli operai (in assenza di strutture abitative prossime ai luoghi di lavoro), subordinando l’assunzione alla condizione che gli stessi vi risiedano dietro corresponsione di un canone.
L'indagine della Procura ha, difatti, svelato una catena di appalti e subappalti, con al vertice Loro Piana. Quest’ultima, al pari di quanto già accaduto in casi analoghi nel settore dell’alta moda, esternalizzava la produzione a società terze, che a loro volta procedevano a subappaltare il lavoro ad aziende caratterizzate dall’impiego di manodopera irregolare e clandestina. In tal modo, capi di lusso venduti a migliaia di euro nascondevano costi di lavorazione irrisori di circa un centinaio di euro.
Il Tribunale di Milano, accogliendo la richiesta della Pubblica Accusa, ha ritenuto configurati i presupposti per l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale nel mancato controllo della catena produttiva, evidenziando una generalizzata carenza di modelli organizzativi ai sensi del D.Lgs 231/01 ed un sistema di internal audit fallace.
Tali carenze organizzative, infatti, sono state ritenute indici di una condotta colposa grave idonee ad agevolare indirettamente i reati previsti dagli artt. 603-bis c.p. (caporalato) e 25-quinquiesdecies, D.Lgs. 231/2001.
Nello specifico – si legge nel provvedimento – la società “non ha effettivamente controllato la catena produttiva, verificando la reale capacità imprenditoriale delle società con le quali stipulare i contratti di fornitura e le concrete modalità di produzione dalle stesse adottate, omettendo di assumere tempestive ed adeguate iniziative di reale verifica della filiera dei sub-appalti, sino alla rescissione dei legami commerciali con ciò realizzandosi, quantomeno sul piano di rimprovero colposo determinato dall’inerzia della società, quella condotta agevolatrice richiesta dalla fattispecie ex art. 34 D.Lvo 159/2011 per l’applicazione della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria” [2].
Ciò posto, i giudici hanno ritenuto che l’azienda, pur non avendo consapevolezza diretta delle concrete condizioni di lavoro, non abbia adottato una struttura organizzativa idonea a prevenire il rischio di sfruttamento, evitando che la filiera produttiva si articoli in catene di subappalti con realtà imprenditoriali operanti in condizioni di illegalità.
Secondo la valutazione del Tribunale, presso le aziende a cui Loro Piana esternalizzava la produzione, sono emersi in modo eclatante plurimi indici di sfruttamento dell’art. 603 bis c.p.[3]. In particolare, sono state accertate plurime violazioni in materia di salute, sicurezza e tutela ambientale, tra cui la sorveglianza sanitaria (visite preventive e periodiche), l’informazione e formazione del personale, la fornitura dei dispositivi di protezione individuale, l’adozione delle misure antincendio, la redazione e l’aggiornamento del DVR, la gestione del rischio chimico e lo smaltimento dei rifiuti industriali[4]. In particolare, numerosi lavoratori “in nero” sono stati costretti a lavorare anche la notte e nei giorni festivi, con una retribuzione sottosoglia rispetto ai minimi tabellari retributivi previsti dal contratto collettivo. Ad aggravare il quadro, già critico, vi sono le riscontrate condizioni abitative degradanti, ossia dormitori ricavati presso le fabbriche con ambienti abusivi ed insalubri, e la presenza di una sorveglianza continua degli operai.
Nel provvedimento si sottolinea che le risultanze investigative relative al caso di specie costituiscono, in realtà, un campanello di allarme sintomatico di una più estesa e diffusa organizzazione della produzione. In altri termini, secondo la ricostruzione dei giudici milanesi, dietro l’elusione delle norme penali e giusvaloristiche si cela un sistema collaudato e sperimentato nel tempo finalizzato alla riduzione dei costi di produzione e alla massimizzazione dei profitti. Dalle indagini emerge una “prassi illecita così radicata e collaudata, da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d'impresa diretta all'aumento del business”.
Infine, occorre evidenziare gli effetti nocivi che, in una prospettiva di più ampio respiro, il caporalato è destinato a produrre. Infatti, il fenomeno dell’ intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro – si legge nel decreto – “oltre che sottoporre i lavoratori a condizioni di sfruttamento e rischio per la loro incolumità, incide, falsandolo, sul mercato del lavoro, che nel caso di aziende virtuose espone le stesse a spese di retribuzione, contribuzione, assicurazione e di gestione della sicurezza del tutto sbilanciate rispetto a chi, come le società scrutinate, bypassandole in toto, le annulla completamente creando una concorrenza altamente sleale nei confronti di chi assume correttamente il proprio personale ai costi previsti dalla contrattazione collettiva vigente”.
Considerate le criticità strutturali del fenomeno, l’amministrazione giudiziaria delle aziende e dei beni connessi alle stesse è stata ritenuta dal Tribunale di Milano la misura più efficace per recidere i legami patologici tra l’impresa e il suo contesto di riferimento.
Originariamente introdotta per contrastare più efficacemente l’infiltrazione della criminalità mafiosa nel tessuto imprenditoriale, attualmente l’istituto dell’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34 del D. lgs. n. 159/2011, così come riformato dalla legge n. 161 del 2017, sta vivendo una fase di importante evoluzione[5].
A seguito dell’ampliamento del catalogo dei reati presupposto – da cui può derivare la responsabilità amministrativa degli enti ai sensi della legge 231 del 2001 – la magistratura ha progressivamente applicato tale misura di prevenzione anche a casi di criminalità economica in senso stretto come evasione fiscale, truffa, bancarotta fraudolenta e corruzione e, per ciò che in questa sede più interessa, del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. In tal modo, la misura è apparsa idonea per colpire i cosiddetti “colletti bianchi” anche in assenza di un legame con contesti di criminalità organizzata di tipo mafioso[6].
La portata della norma è stata poi estesa dalla citata novella del 2017, che ha consentito l’applicazione dell’istituto oltre all’ipotesi dell’“impresa vittima” di condotte mafiose, anche a quella dell’“impresa agevolatrice”[7]. In altri termini, si tratta dunque di un soggetto formalmente terzo ma che sistematicamente assume comportamenti tolleranti o compiacenti in ordine a condotte illecite perpetrate da altri operatori.
La Sezione Autonoma Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano sottolinea come l’agevolazione non consiste in una condotta commissiva, né presuppone la consapevolezza o il dolo da parte dell’impresa, giacché, in tal caso ipotesi il comportamento sarebbe ascrivibile nella cornice dolosa del diritto penale (ad ipotesi concorsuali o, quantomeno, favoreggiatrici). Piuttosto, sostanziandosi in una omissione sistemica dei doveri di controllo e verifica, la condotta agevolatoria può e deve essere sanzionata a titolo di colpa.
Come autorevole dottrina pone in rilievo, “si configura così una forma di responsabilità per colpa di organizzazione, perfettamente coerente con la categoria elaborata nell’ambito del d.lgs. n. 231/2001, che valorizza la funzione preventiva dei modelli di gestione e controllo come strumenti di presidio dei rischi-reato lungo la supply chain” [8].
L’applicazione dell’istituto, inoltre – sottolinea il Tribunale di Milano –, non richiede né che l’attività agevolata abbia carattere illecito, essendo sufficiente che il soggetto agevolato sia anche solo proposto per una misura di prevenzione o sottoposto a procedimento penale per uno dei reati previsti – né che l’attività economica avente carattere agevolatorio venga esercitata con modalità illecite, richiedendosi solo che tale attività, seppur esercitata con modalità lecite, abbia offerto un contributo agevolatore.
La ratio dell’istituto trova quindi espressione in un progetto di bonifica aziendale, sterilizzando l’azienda e la sua attività economica dal contagio delle consorterie criminali. In altri termini, si tratta di una misura di prevenzione patrimoniale che non presenta carattere repressivo ma piuttosto preventivo. Mutuando le parole di giudici milanesi, l’amministrazione giudiziaria non è volta a punire l’imprenditore intraneo all’associazione criminale, quanto a contrastare la contaminazione antigiuridica di imprese sane, sottoponendole a controllo giudiziario. L’intento sarebbe quello di sottrarle velocemente dall’infiltrazione criminale e restituirle al libero mercato una volta depurate dagli elementi inquinanti.
Coerentemente con il percorso intrapreso a partire dai noti casi Ceva Logistics Italia S.r.l.
[9] e Uber Italy S.r.l.
[10], anche per il comparto dell’alta moda il Tribunale di Milano ha optato per l’amministrazione giudiziaria, come strumento più idoneo a contrastare lo sfruttamento lavorativo.
Si assiste ad un autentico cambio di paradigma in ordine alle modalità di intervento in presenza di infiltrazioni criminali nelle attività imprenditoriali. Dall’originaria esclusività del sequestro e della confisca di prevenzione si registra un progressivo abbandono dell’ablazione patrimoniale in favore di una cd. “prevenzione mite” [11], diretta a neutralizzare i condizionamenti criminali sulle realtà economiche.
Attraverso la sperimentazione di forme inedite di intervento preventivo, ispirate a logiche collaborative tra pubblico e privato[12] fioriscono le nuove frontiere della c.d. “prevenzione non ablativa”, anche detta “recuperatoria”. L’intento è virtuoso: colpire quei soggetti posizionati all’apice della filiera produttiva che traggono profitto dallo sfruttamento della manodopera.
In tal modo, come è stato rilevato[13], all’ordinaria funzione attribuita alla compliance aziendale e del Modello Organizzativo 231, quale strumento indirizzato a prevenire fatti di reato propri dell’ente, in quanto realizzati a suo interesse o vantaggio, si affianca l’ulteriore funzione di prevenire l’agevolazione di fatti di reato commessi da terzi.
Al riguardo, tuttavia, si impone una riflessione in ordine al perimetro del risk assessment: né il legislatore né la giurisprudenza, infatti, si sono fatti carico di definire fino a che punto si estende l’onere per l’impresa di aggiornare il proprio compliance program rispetto all’attività di soggetti terzi.
In conclusione, stando così le cose, appare fondamentale, in una prospettiva de iure condendo, delimitare con precisione le cautele che, nel pieno rispetto dei principi di legalità, tassatività e colpevolezza imposti dalla costituzione, sono effettivamente esigibili nei confronti dell’impresa.
[1] Tribunale di Milano, Sezione Autonoma Misure di Prevenzione, decreto, 8 luglio 2025, Presidente dott.ssa Paola Pendino, Estensore dott.ssa Giulia Cucciniello.
[2] Tribunale di Milano, Sezione Autonoma Misure di Prevenzione, decreto, 8 luglio 2025.
[3] Gli indici di sfruttamento individuati dal legislatore al comma 3 dell’art. 603-bis sono: 1) reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie.
[4] M. Vulcano, Sfruttamento lavorativo e colpa di organizzazione nella filiera: l’amministrazione giudiziaria tra risanamento, riforma della governance e modelli d’impresa evoluti, in Giurisprudenza Penale Web, 2025, 7-8.
[5] F. Basile, Manuale delle misure di prevenzione, Torino, 2020.
[6] M. Vulcano, Sfruttamento lavorativo e colpa di organizzazione nella filiera: l’amministrazione giudiziaria tra risanamento, riforma della governance e modelli d’impresa evoluti, in Giurisprudenza Penale Web, 2025, 7-8.
[7] G. Capecchi, La misura di prevenzione patrimoniale dell’amministrazione giudiziaria degli enti e le sue innovative potenzialità”, commento a Trib. Milano, Sez. Autonoma Misure di Prevenzione, decreto 28 maggio 2020, n. 9, Pres. Roia, Uber Italy S.r.l.
[8] M. Vulcano . La prevenzione mite: amministrazione giudiziaria e controllo giudiziario ex artt. 34 e 34 bis del codice antimafia. Rivista Di Studi E Ricerche Sulla Criminalità Organizzata, 2022, 7(3).
[9] Tribunale di Milano, Sezione Autonoma Misure di Prevenzione, decreto, 6 maggio 2019 n. 11.
[10] Tribunale di Milano, Sezione Autonoma Misure di Prevenzione, decreto, 27 maggio 2020 n. 9.
[11] G. Amarelli, La prevenzione mite: tra fiducia legislativa e resistenze applicative, in Diritto di difesa, 12 agosto 2025.
[12] A. Quattrocchi, Le nuove manifestazioni della prevenzione patrimoniale: amministrazione giudiziaria e contrasto al “caporalato” nel caso Uber, Giurisprudenza Penale Web, 2020, 6.
[13] A. Pellegrini, I recenti casi di amministrazione giudiziaria nella fashion industry, www.compliancehub.it, 11 luglio 2024,
[*] Funzionario giuridico dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro – Direzione Centrale. Il presente contributo è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza
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