
La rilevanza penale del mobbing è un tema ampiamente dibattuto e controverso. Come è noto, il fenomeno non trova nell’ordinamento giuridico italiano una puntuale disciplina legislativa, tanto in ambito civile quanto in ambito penale. A differenza di quanto avviene in Francia, infatti, che da anni punisce il reato di harcèlement moral, in Italia non esiste una fattispecie tipica di reato e la tutela penale del lavoratore vittima di condotte vessatorie sul luogo di lavoro è diventata appannaggio esclusivo della giurisprudenza, che ha così supplito all’inerzia del legislatore.
Nel corso del tempo, infatti, le condotte mobbizzanti sono state sussunte nel delitto di minacce, in quello di diffamazione, ma anche nei reati di lesioni personali, di violenza privata, di violenza sessuale e persino di abuso d’ufficio, con esiti non del tutto appaganti[1].
Da anni, ormai, è in atto un conflitto in seno alla Cassazione penale: da un lato, l’orientamento più risalente riconduce le vessazioni o persecuzioni nei luoghi di lavoro al reato di maltrattamenti in famiglia ex articolo 572 c.p.; dall’altro, si fa strada un più recente filone giurisprudenziale che inquadra tali condotte all’interno della fattispecie di atti persecutori di cui all’art.612 bis c.p., dando vita alla figura del c.d. stalking occupazionale.
In questo scenario, si inserisce il nuovo arresto della Suprema Corte, che con la sentenza n. 32770 del 21 agosto 2024 segna un ulteriore passo in avanti nel percorso di tutela dei lavoratori.
Come anticipato, in assenza di una fattispecie ad hoc il diritto vivente ha tradizionalmente tentato di colmare il vuoto normativo facendo ricorso alla fattispecie di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., pur essendo la stessa collocata tra i “Delitti contro la famiglia”. La portata applicativa della norma è stata tuttavia fortemente ridimensionata nella prassi, in quanto ostacolata dalla necessità della natura para-familiare del contesto lavorativo[2]. Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione, infatti, “possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p. esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, sia cioè caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia”
[3]. In altri termini, accentuando il rapporto interpersonale che connota il reato di maltrattamenti in famiglia, la giurisprudenza di legittimità ha limitato l’applicabilità dell’illecito nell’ambito dei rapporti extra lavorativi, depotenziando di conseguenza l’idoneità della norma a fungere da strumento di contrasto del mobbing.
Per tali motivi, nel tentativo di fornire tutela alla parte debole del rapporto lavorativo anche nelle ipotesi di condotte vessatorie realizzate dal datore di lavoro al di fuori di un contesto lavorativo para-familiare, altra parte della giurisprudenza ha intrapreso una strada diversa, riconducendo le condotte persecutorie sotto l’ombrello applicativo della c.d. fattispecie di stalking [4].
Tale atteggiamento ondivago della giurisprudenza ha reso inevitabilmente ambigui i confini del penalmente rilevante, mettendo in crisi i principi di legalità e determinatezza della fattispecie penale, minando la funzione di prevenzione generale, propria della sanzione penale[5].
Con la recente sentenza n. 32770 del 21 agosto 2024, la Terza sezione della Cassazione penale ha confermato che le condotte che, dal punto di vista civilistico, integrano il fenomeno del mobbing sono riconducibili, sul piano penale, al reato c.d. di stalking previsto dall’articolo 612 bis c.p.
La decisione, emessa nell’ambito di un giudizio relativo all’adozione delle misure cautelari, ha ad oggetto le reiterate molestie a sfondo sessuale poste in essere da un professore di medicina legale e direttore di una scuola di specializzazione nei confronti delle studentesse.
La Corte ha accolto il ricorso del pubblico ministero contro la decisione del Tribunale del Riesame, che aveva sostituito gli arresti domiciliari con misure meno afflittive, ossia il divieto di dimora e l’interdizione per un anno dall’insegnamento.
Dalle emergenze processuali è emerso che i comportamenti vessatori, posti in essere dal docente universitario, hanno generato un ambiente di lavoro ostile e opprimente. In particolare, gli specializzandi hanno delineato un contesto accademico caratterizzato da un clima intimidatorio, dichiarando di aver subito pressioni costanti e minacce da parte del direttore del dipartimento, soprattutto quando manifestavano dissenso rispetto alle decisioni dirigenziali o quando rifiutavano di svolgere incarichi privi della supervisione di un tutor. Tale atmosfera oppressiva ha indotto alcuni studenti a cambiare percorso di studi. I giudici hanno evidenziato come tali comportamenti abbiano “superato il livello di ordinaria conflittualità presente in un ambiente di lavoro” e si siano concretizzate in un “accanimento psicologico” ai danni delle vittime tale da configurare, per l'appunto, gli estremi dello stalking occupazionale.
La decisione in oggetto si inserisce nel solco tracciato dalla sentenza della Cassazione n. 31273 del 2020. Tale pronuncia aveva aperto per la prima volta la strada alla riconduzione delle condotte di mobbing nell’alveo precettivo di cui all’art. 612 bis c.p., ritenendo configurabile il reato di stalking “laddove quella mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, elaborata dalla giurisprudenza civile come essenza del fenomeno, sia idonea a cagionare uno degli eventi delineati dalla norma incriminatrice”, ossia un perdurante e grave stato di ansia o di paura o un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva o a costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. Nella richiamata sentenza, inoltre, si poneva l’accento sulla possibile sovrapponibilità del mobbing al reato di stalking, rimarcando che “il contesto entro il quale si situa la condotta persecutoria è del tutto irrilevante, quando la stessa abbia determinato un vulnus alla libera autodeterminazione della persona offesa, determinando uno degli eventi previsti dall’art. 612 bis c.p.”
Come è stato rilevato, dunque, nel configurare il c.d. stalking occupazionale (o lavorativo) nel caso di specie, la Suprema Corte sembrerebbe avvalorare sempre più l’idoneità del delitto di atti persecutori a offrire tutela del lavoratore vittima di condotte persecutorie sul luogo di lavoro.
Infine, nella sentenza in commento i giudici di legittimità non perdono l’occasione per fare un’importante precisazione: le molestie sessuali – che nella legislazione civilistica alludono a quei «comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo» – sotto il profilo penalistico possono dar luogo tanto al reato di molestie di cui all’articolo 660 c.p. tanto a quello di atti persecutori di cui all’articolo 612-bis c.p. Il criterio distintivo tra i due reati “non consiste tanto nella condotta dell'agente di reato, che può essere la medesima, bensì nel diverso atteggiarsi delle ‘conseguenze’ della condotta, sicché si configura il delitto di cui all'art. 612-bis c.p. solo qualora alle condotte molestatrici acceda uno degli eventi tipici del delitto di stalking (i.e. quando le condotte siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l'alterazione delle proprie abitudini di vita), mentre sussiste il reato di cui all'art. 660 c.p. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato”.
La configurabilità del reato di stalking viene così a rappresentare un punto di svolta nel percorso giurisprudenziale di tutela del lavoratore, atteso che le condotte mobbizzanti assumono rilevanza penale a prescindere da quella parafamiliarità invece richiesta dalla fattispecie di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p.
Sul punto occorre evidenziare che, se dal punto di vista politico criminale ciò ha spinto il legislatore all’introduzione del reato di stalking è la volontà di reprimere condotte persecutorie realizzate nell’ambito delle “relazioni affettive”, è altrettanto vero che tali relazioni non costituiscono un elemento costitutivo della fattispecie. Pertanto, la mancanza di un esplicito riferimento nella descrizione del fatto tipico alle relazioni affettive implica la possibilità per la magistratura di adoperare il delitto di atti persecutori anche in contesti lavorativi, ossia fuori da dinamiche domestiche e affettive.
Parte della dottrina ha altresì rilevato che, a sostegno dell’applicazione del reato di stalking anche al di fuori di ipotesi connotate da relazioni affettive, milita l’esplicita previsione al secondo comma dell’art.612 bis c.p. di una circostanza aggravante per il caso specifico in cui tra autore e vittima vi sia o vi sia stata una “relazione affettiva”. Tale previsione dimostrerebbe le intenzioni del legislatore di non considerare siffatte relazioni come elemento costitutivo del reato[6].
La configurabilità del reato non sembra trovare ostacoli nemmeno alla luce del diverso coefficiente psicologico richiesto sul piano civile rispetto a quello penale. Difatti, a differenza dello stalking, per cui è sufficiente il dolo generico, la condotta del mobber postula il dolo specifico, consistente nella volontà di arrecare nocumento al lavoratore ovvero di escluderlo del tutto dal luogo di lavoro (c.d. animus nocendi o excludendi)[7]. Sul punto, tuttavia, la Cassazione ha già avuto modo di precisare, in un precedente arresto, che lo scopo di vessare o di emarginare il lavoratore, specifico del mobbing, non si pone in termini di incompatibilità con il dolo previsto dall’art. 612-bis c.p., atteso che in quest’ultimo caso è sufficiente la mera volontà di attuare reiterate condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno stato di prostrazione nella vittima, mentre non occorre che tali condotte siano dirette ad un fine specifico[8].
Altresì irrilevante per la configurazione del reato di cui all’art. 612 bis c.p. è il fatto che, a differenza del caso tipico di stalking, ove il soggetto agente intende mantenere la relazione con la vittima e quest’ultima intende porvi fine, nella variante c.d. occupazionale il rapporto è inverso, poiché l’intenzione dell’autore del reato è di troncare la relazione mentre la persona offesa conserva l’interesse a mantenere vivo il rapporto lavorativo[9].
L’incessante ricerca giurisprudenziale di una figura di reato elastica, in grado di inglobare al suo interno diversi fenomeni di conflittualità lavorativa come il mobbing o come le molestie sessuali, è approdata in tempi recenti al c.d. stalking occupazionale. Le condotte tipiche del mobbing, infatti, appaiano astrattamente sussumibili entro il perimetro applicativo della fattispecie di reato di cui all’art.612 bis c.p.
Seppur lentamente, dunque, sembra consolidarsi l’orientamento secondo cui il mobbing può trovare rilevanza penale attraverso la fattispecie di atti persecutori: la citata sentenza della Cassazione del 21 agosto 2024 aggiunge un importante tassello in questo percorso giurisprudenziale, ribadendo l’assenza di zone franche dello stalking in ambito lavorativo.
A ben vedere la strada imboccata sembrerebbe offrire una più efficace tutela della parte debole del rapporto di lavoro rispetto a quella offerta dalla fattispecie di maltrattamenti in famiglia. Tali considerazioni si impongono anche alla luce degli effetti distonici che l’applicazione del delitto di maltrattamenti in famiglia alle fattispecie di mobbing porta con sé.
Il requisito della parafamiliarità, infatti, comporta non solo un ristretto ambito applicativo, come accennato, ma produce altresì delle discriminazioni tra aziende a seconda della grandezza. Sul punto non va trascurato il fatto che la sussistenza di tale requisito – e dunque di “relazioni abituali e intense” – implica la difficoltà di sottoporre a sanzione le grandi aziende o le multinazionali, ove i rapporti fra dirigenti e sottoposti tendono ad essere più superficiali e spersonalizzati, a differenza delle piccole realtà imprenditoriali[10]. Inoltre, l’esistenza di un rapporto di gerarchico tra datore e lavoratore sembrerebbe impedire l’integrazione del reato di maltrattamenti in famiglia in tutte le ipotesi di mobbing orizzontale e verticale ascendente, poiché in tali contesti non sarebbe ravvisabile quella posizione di subalternità che costituisce il presupposto necessario dell’art. 572 c.p.[11].
Al contrario, il delitto di atti persecutori non è vincolato né dall’accertamento di un rapporto di “para-familiarità” né dal riscontro di un rapporto di sovraordinazione/subordinazione tra mobber e vittima. Evidente è dunque il suo carattere versatile, del reato di stalking in grado di intercettare anche le condotte riconducibili al mobbing c.d. verticale ascendente e del mobbing orizzontale, trovando altresì applicazione a prescindere dalla dimensione dell’impresa.
Rispetto alla fattispecie di maltrattamenti in famiglia, infine, quella di stalking offre un beneficio aggiuntivo alla vittima costituito dalla possibilità di accedere ad una tutela preventiva[12]. È comprensibile, infatti, che l’automatica apertura del procedimento penale a seguito della denuncia di comportamenti mobbizzanti non incentiva l’emersione di fatti di questo tipo, atteso che vi è fondato timore che l’intervento penale finisca per compromettere in modo definitivo la relazione lavorativa che la vittima desidera preservare. In materia di atti persecutori, tuttavia, il legislatore si è occupato di fornire alla vittima uno particolare misura ante delictum
costituta dalla richiesta di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta. Parallelamente all’introduzione del reato di stalking il D.L. n. 11/2009 all’art. 8 ha previsto una particolare misura di prevenzione che consente alla persona offesa, fino a quando non è proposta querela, di esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza, avanzando al questore richiesta di ammonimento dell’autore della condotta; in caso di trasgressione la norma prevede la procedibilità d’ufficio del reato. Il provvedimento di natura amministrativa del questore, dunque, essendo finalizzato a scoraggiare ogni forma di persecuzione da parte dell’autore delle condotte vessatorie, sembra offrire nel caso di mobbing una tutela alternativa a quella repressiva in grado di preservare in modo migliore il rapporto di lavoro.
[1] L. Baron, Mobbing e atti persecutori: un connubio possibile?, in Il lavoro nella giurisprudenza, n. 11, 1° novembre 2022.
[2] I. Fina, La Cassazione “completa” la tutela penale del lavoratore vittima di mobbing: configurabile il delitto di stalking ex art. 612 bis c.p., in Sistema penale.
[3] Cass., Sez. V, sent. 14 settembre 2020.
[4] P.F. Poli, Mobbing e atti persecutori - La Cassazione conferma la possibilità di ricondurre il mobbing alla fattispecie di atti persecutori, in Giurisprudenza Italiana, n. 5, 1° maggio 2025.
[5] A. Morrone, Mobbing e stalking occupazionale: le nuove frontiere della tutela penale, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, Giappichelli, 1, 2023.
[6] A. Morrone, Mobbing e stalking occupazionale: le nuove frontiere della tutela penale, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, Giappichelli, 1, 2023.
[7] F. Consulich, Manuale di diritto penale del lavoro, Torino, 2024.
[8] Cassazione penale, 5 aprile 2022, n. 12827.
[9] A.M. Maugeri, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Torino, 2010.
[10] R. Guariniello, Mobbing sul lavoro: per la Cassazione è stalking occupazionale, in Lavoro e previdenza, www.ipsoa.it, 11 aprile 2022.
[11] L. Baron, Mobbing e atti persecutori: un connubio possibile?, in Il lavoro nella giurisprudenza, n. 11, 1° novembre 2022.
[12] P.F. Poli, Mobbing e atti persecutori - La Cassazione conferma la possibilità di ricondurre il mobbing alla fattispecie di atti persecutori, in Giurisprudenza Italiana, n. 5, 1° maggio 2025.
[*] Funzionario dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro – Direzione Centrale. Il presente contributo è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.
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