Massimo D’Antona e la Sua riforma della Pubblica Amministrazione

di Dario Messineo [*]

Messineo 2 1 1. Prefazione; 2. La riforma della pubblica amministrazione: dalla legge al contratto; 3. La giurisdizione del giudice del lavoro; 4. Il contratto collettivo nel pubblico impiego; 5. Punti critici nel rapporto tra pubblico e privato; 6. Il ruolo della dirigenza; 7. La riforma dello sciopero nei servizi pubblici essenziali; 8. Conclusioni.

3. La giurisdizione del giudice del lavoro

L’elemento cardine del nuovo assetto processuale nella seconda privatizzazione è naturalmente la scelta, finalmente netta, di fare del giudice ordinario il giudice esclusivo dei rapporti di lavoro nel pubblico impiego ‘privatizzato’. Con questa riforma legislativa, utilizzando le parole di D’Antona, finalmente “l’attore può ottenere dal giudice ordinario, anche quando una delle parti del rapporto di lavoro è la pubblica amministrazione, tutto quello e proprio quello che è necessario per soddisfare la domanda di tutela”. La riconducibilità degli atti di gestione del datore di lavoro pubblico al regime dell’attività privatistica, elimina, salve poche eccezioni, il provvedimento amministrativo e, senza eccezioni, l’interesse legittimo del dipendente di fronte ai poteri del datore di lavoro pubblico.

Per effetto delle modifiche apportate all’impianto originario del d.lgs. 29/1993, dal d.lgs. 80/1998, l’attività di gestione attribuita ai dirigenti si svolge finalmente «con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro», nell’ambito delle determinazioni organizzative di carattere generale che restano riservate alle fonti pubblicistiche. In tal senso il combinato disposto degli artt. 2, primo, terzo e quarto comma, del d.lgs. 29/1993, come modificato dal d.lgs. 80/1998 recita testualmente: i dirigenti adottano «le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro» nell’ambito degli «atti organizzativi» mediante i quali «le pubbliche amministrazioni definiscono, secondo principi generali fissati da disposizioni di legge e, sulla base dei medesimi, secondo i rispettivi ordinamenti, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici; individuano gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi; determinano le dotazioni organiche complessive».

Da quanto sopra enunciato derivano alcune conseguenze, che D’Antona elencava in maniera sistematica e precisa, e che costituiscono ancora oggi i presupposti giuridici della disciplina giuslavoristica pubblica:

  1. i diritti soggettivi dei dipendenti pubblici non possono essere in alcun caso degradati a interessi legittimi da atti di gestione;
  2. i dipendenti pubblici non hanno azione di fronte al giudice amministrativo, dato che la loro posizione giuridica è tutelabile in modo esaustivo davanti al giudice ordinario, che può disapplicare, ove necessario, l’atto pubblicistico che lede i diritti del dipendente;
  3. al giudice del lavoro è attribuita anche la cognizione incondizionata in materia di condotta antisindacale delle pubbliche amministrazioni;
  4. superamento delle “zone grigie” della fase transitoria del d.lgs. 29/1993, a seguito anche delle sentenze delle Sezioni unite che hanno scongiurato incursioni del giudice amministrativo[1] (rapporti negoziali tra Aran e sindacati o la legittimità delle clausole dei contratti collettivi).

Di estrema importanza in questo contesto è, infine, il trattamento normativo riservato ai contratti collettivi nazionali stipulati dall’Aran, che comporta, sul piano processuale, l’ammissibilità del ricorso per Cassazione per violazione delle norme di tali contratti ed il procedimento incidentale per l’accertamento in via ‘pregiudiziale’ dell’interpretazione, validità ed efficacia di quelle stesse norme[2].

L’acume giuridico su questa materia di D’Antona sta nella ricerca di ricondurre tutto a “sistema” e proprio per questo egli sottolinea che il particolare trattamento legale delle norme dei contratti collettivi nazionali stipulati dall’Aran (pubblicità, deducibilità in Cassazione della violazione di norme collettive come motivo di diritto, giudizio incidentale per l’interpretazione uniforme) non è richiesto dalla speciale natura della fonte collettiva, che è pur sempre un contratto collettivo privatistico privo dei requisiti dei contratti collettivi-fonte previsti dall’art. 39 Cost., ma dalla speciale posizione dei soggetti pubblici che debbono applicare regole, comunque prodotte, che fissano a livello collettivo il trattamento di una certa classe di casi. Nell’applicazione di qualsiasi norma che predetermini il trattamento di una certa classe di casi, soggetti pubblici e privati non sono nella medesima posizione di base. Ai primi, e non ai secondi, la Costituzione pone i vincoli di legalità e imparzialità. Se tali vincoli non impediscono che i datori di lavoro pubblici si avvalgano della medesima autonomia dei datori di lavoro privati per regolare collettivamente i rapporti di lavoro con i propri dipendenti, sollecitano, tuttavia, una volta che la regola sia stata prodotta contrattualmente a livello collettivo, meccanismi legali tali da garantire un trattamento uniforme in tutti i casi in cui la situazione prevista si verifica: all’esigenza di applicazione uniforme della regola di fonte contrattuale risponde appunto il particolare regime legale, di carattere sostanziale e processuale, che la riforma riserva ai contratti collettivi nazionali stipulati dall’Aran.

Ecco perché D’Antona sosteneva che non è un “sofisma” ritenere che il regime legale trova la sua ragion d’essere nella speciale posizione del datore di lavoro pubblico, non nel momento della produzione, ma in quello dell’applicazione di norme collettive.

Sul punto, gli elementi essenziali sono forniti dalla sentenza della Corte costituzionale n. 309 del 1997. La suddetta sentenza specifica che il meccanismo attraverso il quale i contratti collettivi “nominati” dal d.lgs. n. 29/1993 modificato, hanno effetti generali e vincolanti (meccanismo indiretto, che si fonda sulla rappresentanza legale e necessaria dell’Aran ai fini della sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali, e sull’obbligo legale di osservare i contratti collettivi dal momento della loro sottoscrizione e di garantire ai propri dipendenti parità di trattamento retributivo e comunque trattamenti economici non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi) non determina un’efficacia erga omnes, conferita dall’art. 39, quarto comma, Cost. ai contratti stipulati dalle associazioni sindacali in possesso di determinate caratteristiche, ma si colloca sul piano delle conseguenze che derivano dal vincolo di conformarsi imposto alle pubbliche amministrazioni ed anche dal legame tra contratto individuale e contratto collettivo[3].

4. Il contratto collettivo nel pubblico impiego

Massimo D’Antona dedica innumerevoli scritti alla costruzione sistematica della nuova figura del contratto collettivo nel pubblico impiego, che si svincola dal regime pubblicistico e che diventa la base per la regolazione dei rapporti con i lavoratori.

In questa costruzione sistematica molteplici problematiche si affollavano nella mente del giurista, ma a tutte veniva trovata una giusta ed equilibrata soluzione ermeneutica secondo una lucida e sistematica impostazione giuslavoristica. Secondo D’Antona il contratto collettivo non è un modulo interno ad un procedimento e non richiede un provvedimento di ricezione per essere operante sul piano dei rapporti di lavoro. I contratti collettivi ex art. 45 e seguenti del d.lgs. 29/93 divengono ‘fonti’ autosufficienti nel senso che producono i loro effetti dal momento in cui l’Aran (autorizzata dal governo) ed i sindacati dei dipendenti pubblici li sottoscrivono, senza che sia necessario alcun ulteriore atto unilaterale di ricezione. Così testualmente il giurista: “l’obbligo legale delle amministrazioni ex art. 47, comma 9, di adeguare i rispettivi ordinamenti, in quanto necessario per applicare il contratto collettivo, è appunto un effetto ‘obbligatorio’ del contratto collettivo, non una condizione per la sua efficacia”. In proposito, è opportuno aggiungere che la libertà di contrattazione collettiva sancita dagli artt. 2 e 4 del d.lgs. 29/93 non è contraddetta dal fatto che l’attività negoziale veniva “inquadrata” in un complicato reticolo di norme pubblicistiche.

Per D’Antona non si deve parlare di “diritto sindacale speciale” per le pubbliche amministrazioni, ma tutto deve poter rientrare nel quadro del diritto sindacale comune, risolvendosi quelle che possono apparire come norme incidenti sui rapporti sindacali in norme di azione, che autodisciplinano le parti pubbliche e i loro comportamenti negoziali, per quanto riguarda la loro rappresentanza negoziale, che è obbligatoria e compete all’Aran a livello nazionale oppure in procedure di evidenza pubblica, che corrono in parallelo alla contrattazione collettiva, e che soddisfano le esigenze di controllo della spesa a garanzia dell’interesse pubblico, come l’autorizzazione del governo ed il controllo della Corte dei conti.

I contratti collettivi delle pubbliche amministrazioni sono contratti privatistici, ma ”nominati”, e non “di diritto comune”, poiché la legge ne disciplina soggetti, modalità di formazione ed effetti giuridici.

Gli effetti soggettivi sono equivalenti a quelli che avrebbero i contratti collettivi dell’art. 39 Cost., perché le pubbliche amministrazioni sono vincolate ex lege ad applicare i contratti dal momento della sottoscrizione (art. 45, ottavo comma) e a praticare ai propri dipendenti trattamenti uniformi e comunque non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi (art. 49). Le relazioni tra le parti sono rese stabili dall’incidenza di obblighi a trattare (restando fermo che entrambe sono formalmente libere, come logico riflesso della natura paritaria e disgiuntiva del rapporto tra di loro, di pervenire o meno ad accordi).

In questa nuova combinazione di fonti e principi, il carattere pubblico del datore di lavoro non cessa di avere rilievo nell’assetto dei rapporti di lavoro. La privatizzazione dei rapporti di lavoro non implica e non presuppone la privatizzazione dell’ente o amministrazione che ha la veste di datore di lavoro. La pubblica amministrazione continua a distinguersi dall’impresa perché, a differenza di questa, ha una missione che trova nella legge il suo fondamento. Il superamento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e la qualificazione dell’attività di gestione come privatistica e non funzionalizzata, attribuisce al giudice del lavoro una cognizione incondizionata in materia di condotta antisindacale delle pubbliche amministrazioni.

Questo primo elemento costituisce un’innovazione straordinaria nell’ambito del pubblico impiego, sino a quel momento sottoposto ad un Giudice amministrativo e alle direttive più o meno esplicite del Governo.

Ma come sottolinea lucidamente D’Antona l’istituzionalizzazione del sistema di contrattazione eleva il tasso di “giustiziabilità” delle controversie “inter ed intrasindacali”.

Queste controversie, secondo D’Antona si possono distinguere in tre tipologie:

  1. le controversie relative all’ammissione alle trattative, nelle quali ricadono la maggior parte delle questioni relative all’accertamento dei requisiti di rappresentatività al fine della contrattazione collettiva;
  2. le controversie relative al comportamento delle parti nelle trattative;
  3. le controversie relative alla conclusione delle trattative e all’applicazione del principio maggioritario ai fini della sottoscrizione dei contratti collettivi.

Si tratta di “azioni relative alle procedure di contrattazione collettiva” che possono essere promosse da soggetti sindacali per attuare con sentenza costitutiva o di condanna di ogni tipo di obbligo relativo all’attività di contrattazione collettiva e alla conclusione dei contratti collettivi.

L’Aran assume la rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni e ha quindi una legittimazione ex lege ai fini della negoziazione e della conclusione dei contratti collettivi nazionali. Ai comitati di settore spetta il compito di formulare l’indirizzo all’Aran per le trattative e di esprimere il parere sull’ipotesi di accordo da cui dipende la facoltà dell’Aran di procedere alla definitiva sottoscrizione del contratto collettivo.

I comitati di settore, considerati da D’Antona, centro di imputazione dei medesimi interessi collettivi che l’Aran rappresenta legalmente nella negoziazione del contratto collettivo ed il cui parere dovrebbe considerarsi, non un’autorizzazione alla sottoscrizione, ma l’espressione di un concerto dal quale dipende la specifica legittimazione dell’agenzia stessa a sottoscrivere definitivamente il contratto collettivo (non il potere di rappresentanza negoziale).

Il d.lgs. 150/2009, a questo proposito mantiene le prerogative attribuite ai Comitati di settore, anche se nell’ambito di Università, Agenzie, Enti di ricerca ed Enti pubblici non economici sono ricondotte ad un ruolo di consultazione con il Ministro della pubblica amministrazione di concerto con il Ministro dell’economia.

In realtà, nel silenzio della legge, con la nuova normativa, parrebbe essere consentita un’assistenza diretta dell’Aran anche durante le trattative. Questo ruolo attivo supera il semplice ruolo di indirizzo e verifica dei Comitati di settore anche considerando che i pareri espressi dal comitato medesimo non hanno bisogno di ratifica da parte delle istanze associative o rappresentative. Quadrato Arancione

Continua nel prossimo numero…
I Capitoli 1. Prefazione; 2. La riforma della pubblica amministrazione: dalla legge al contratto; sono stati pubblicati su LAVORO@CONFRONTO n. 4 GIU-LUG 2014

Note

[1] Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 21 dicembre 2000, n. 1323, in Il Consiglio di Stato, 2001, II, p. 401. Vedi anche Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 24 febbraio 2000, n. 41/SU, in Il Foro Italiano, 2000, I, p. 1483, secondo cui l’art. 45, comma 17, del d.lgs. n. 80/1998 pone il discrimine temporale fra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa con riferimento non ad un atto giuridico o al momento di instaurazione della controversia, bensì al dato storico costituito dal verificarsi dei fatti o delle circostanze poste a base della pretesa azionata. Pertanto, ove la pretesa del dipendente tragga origine da un comportamento illecito permanente del datore di lavoro, si deve aver riguardo al momento di realizzazione del fatto dannoso e più precisamente al momento di cessazione della permanenza. Con riferimento alla presunta violazione dell’art. 103, primo comma, della Cost. nella parte in cui l’art. 29 del d.lgs 80/1998 escluderebbe l’attribuzione della tutela degli interessi legittimi nascenti dal rapporto di pubblico impiego, la Corte afferma che, alla luce della normativa in materia di pubblico impiego “privatizzato”, in capo al lavoratore sono qualificabili soltanto posizioni di diritto soggettivo e non di interesse legittimo pubblico, al più di interesse legittimo di diritto privato da ricondurre alla categoria dei “diritti” di cui all’art. 2907 cod. civ. in presenza dell’esercizio di poteri discrezionali dell’Amministrazione datrice di lavoro.

[2] Vedi art. 64 d.lgs. 165/2001.

[3] Vedi sul punto Corte Cost. 16 ottobre 1997, n. 309, Corte cost. n. 309, del 16 ottobre 1997, in Foro it., 1997, I, 3484 e M. D' ANTONA, Autonomia negoziale discrezionalità e vincolo di scopo nella contrattazione collettiva della pubblica amministrazione, in Argomenti dir. lav., 1997, p. 70.

[*] L’Avv. Dario Messineo è Dottore di ricerca in diritto del lavoro e previdenza sociale presso l’Università di Pavia, componente del Centro studi attività ispettiva presso la Direzione generale attività ispettiva del Ministero del lavoro, funzionario coordinatore amministrativo, responsabile del Servizio politiche del lavoro e U.O. affari legali e contenzioso e responsabile dell’U.O. conflitti di lavoro della Direzione provinciale del lavoro di Cuneo.
Ogni considerazione è frutto esclusivo del proprio libero pensiero e non impegna in alcun modo l’amministrazione di appartenenza ai sensi della circolare del Ministero del lavoro del 18 marzo 2004.


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