Anno VIII - N° 39-40

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Maggio/Agosto 2020

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Anno VIII - N° 39-40

Maggio/Agosto 2020

Lavorare al tempo del Coronavirus: alcune buone prassi sempre valide


di Dorina Cocca e Tiziano Argazzi [*]

Cocca Argazzi 39

Premessa


Pandemia, contagio, lockdown, droplets, triage, cluster, asintomatico, quarantena, distanziamento interpersonale, immunità di gregge, restart e Fasi 1-2-3. Queste sono alcune delle tante parole che sono entrate nel vocabolario degli italiani, dal momento in cui il Covid-19 ha manifestato tutta la sua virulenza. Si è iniziato a maneggiare, con relativa destrezza, termini che fino a qualche mese fa erano patrimonio esclusivo di virologi ed infettivologi e si è diventati esperti anche di mascherine, dei loro codici identificativi e dei relativi livelli di protezione. Poi, non passa giorno senza che ci siano migliaia e migliaia di visite sui “web browser”, per vedere se la scienza ha fatto progressi nella ricerca di un trattamento (farmacologico o vaccinale) in grado di sconfiggere il virus.

L’emergenza epidemiologica ha anche comportato, per diverse settimane, un significativo rallentamento delle attività produttive: ciò ha generato, come è facile immaginare, una grave crisi economica e lavorativa. Secondo l’Ufficio Studi della Confartigianato di Mestre entro la fine di quest’anno potrebbero essere 100 mila le aziende artigiane costrette a chiudere i battenti, con una perdita secca di oltre 300mila posti di lavoro. Alcuni settori, quali ad esempio il turismo e la ristorazione, sono letteralmente in ginocchio e si risolleveranno solo in tempi medio lunghi e con cospicui aiuti pubblici.

Adesso che il periodo acuto dell’epidemia sembra definitivamente alle spalle, si è entrati nella Fase 2 e poi dal 3 giugno scorso nella “Fase 3” che ha consentito la riapertura di tutte le attività produttive pur con l’applicazione di rigidi protocolli di sicurezza, per fronteggiare il diffondersi dell’epidemia negli ambienti di lavoro.


Cocca Argazzi 39 1Dal 31 gennaio scorso – data in cui il Governo ha deliberato lo stato di emergenza – ad oggi si è assistito ad una significativa produzione normativa (composta da circa 300 interventi di portata generale[1] introdotti a mezzo decreti legge, DPCM, direttive ministeriali e ordinanze regionali e comunali) interamente mirata a contenere la diffusione del virus che dalla fine del febbraio scorso ha portato ad una serie impressionante di contagi e di decessi in tutto il Paese.


Per quanto riguarda il mondo del lavoro i primi provvedimenti che sono stati assunti, hanno da subito sospeso tutte le attività produttive, industriali e commerciali, ad eccezione di quelle essenziali per fronteggiare l’emergenza e per mantenere “acceso”, anche se al minimo dei giri, il motore produttivo del Paese[2].


Nel seguito si cercherà di tratteggiare alcune delle problematiche di maggior impatto su lavoratori e luoghi di lavoro, focalizzando l’attenzione sul protocollo condiviso per il contrasto e il contenimento del virus negli ambienti di lavoro sottoscritto il 14 marzo scorso e poi integrato il s 24 aprile (nel seguito “Protocollo”), sui recenti pronunciamenti del Garante della Privacy e sulla riorganizzazione del lavoro anche con utilizzo dello smart working. Argomenti di grande attualità in periodo di convivenza con il CoVid-19 ma anche elementi e modalità organizzative ed operative che potrebbero essere considerate buone prassi da utilizzare, in tutto od in parte, anche “per il dopo” quando cioè questo flagello sarà debellato.
 

Salute pubblica e lavoro: quale equilibrio?


Per inquadrare al meglio le tematiche in trattazione, si ritiene utile ricordare brevemente un recente pronunciamento del Consiglio di Stato[3]. Il Supremo Consesso amministrativo, nell’esaminare il ricorso effettuato da un bracciante agricolo che non aveva ottemperato all’obbligo della quarantena obbligatoria in quanto aveva paura di perdere il lavoro, ha affermato che deve considerarsi preminente su tutto, il diritto alla salute della generalità dei cittadini, che può essere messo in pericolo da comportamenti individuali che, seppur considerati astrattamente legittimi, sono potenzialmente tali da diffondere il coronavirus. In tale quadro i giudici hanno rilevato che, per la prima volta dal dopoguerra, sono state poste in essere norme “fortemente compressive di diritti anche fondamentali della persona – dal libero movimento, al lavoro, alla privacy – in nome di un valore di ancor più primario e generale rango costituzionale, la salute pubblica, e cioè la salute della generalità dei cittadini”. Per queste ragioni la gravità del danno individuale (nella fattispecie rappresentato dal licenziamento del lavoratore) non può condurre a derogare, limitare o comprimere la primaria esigenza di cautela avanzata nell’interesse della collettività, corrispondente ad un interesse nazionale dell'Italia oggi non superabile in alcun modo.

Cocca Argazzi 39 2Le argomentazioni proposte dal Consiglio di Stato mettono in chiara evidenza che la tutela della salute è un diritto fondamentale di ciascun cittadino ed in ragione dell’art. 32 Cost viene affermato l’inequivocabile dovere della Repubblica di tutelarla, sia in relazione alla posizione soggettiva del singolo, sia in riferimento al più generale interesse della collettività. È quindi di pacifica evidenza che la tutela della salute è un diritto soggettivo perfetto di ogni cittadino. Un diritto cioè attribuito in maniera diretta ed incondizionata al soggetto con conseguente limite a quelle attività (pubbliche e private) che ne pongono in pericolo l’esistenza e la solidità.

Va da sé che salute pubblica e lavoro non sono entità distinte ed autonome ma intrinsecamente connesse. Infatti investire nella promozione della salute significa investire sulla qualità del lavoro, della società e della vita delle persone.

Inoltre, come è stato recentemente ben argomentato da Matteo Colombo di Adapt, se prendiamo a riferimento un periodo temporale abbastanza ampio entro cui realizzare il bilanciamento degli interessi, tra tutela della salute e sviluppo economico, ci si rende facilmente conto che “in esito alla prima ci guadagna il secondo”, a patto ovviamente di non limitarsi a considerare come “valore”, anche in termini economici, la disponibilità di ricchezza ed a riconoscere, al contempo, il significato cruciale per lo sviluppo delle nostre società rivestito da altre dimensione del vivere umano. In altre parole, è palese che salute, lavoro, sviluppo economico e società sono concetti tra loro intimamente collegati[4].
 

Verso un nuovo umanesimo e una diversa organizzazione del lavoro


Quanto sopra esposto assume preminente evidenza in questo periodo in cui la pandemia oltre a seminare sofferenza e morte e ad attentare seriamente alla stabilità dell’economia, sta portando ad un ripensamento dell’elenco dei valori anche con riguardo al mondo del lavoro.

È ancora presto per dire come sarà il sistema della produzione che uscirà da questa crisi, la più grave e profonda degli ultimi decenni. Usualmente quando si parla di crisi si intende qualcosa di negativo, da allontanare il prima possibile.

Il termine però deriva dal verbo greco “krino” che significa valutare, giudicare ed anche cambiare. In quest’ultima accezione è arrivato ai giorni nostri. Infatti la crisi è da considerare un momento cruciale che impone cambiamenti repentini che possono essere il presupposto per generare una rinascita, rispetto alla situazione pregressa.

Questo riporta alla memoria la teoria dello “Schöpferische Zerstörung” – letteralmente “burrasca della distruzione creativa” – dell’economista austriaco Joseph Alois Schumpeter. Secondo lo studioso, i processi di innovazione industriale che danno vita, ad esempio, a nuovi beni di consumo, nuovi metodi di produzione e nuove forme di organizzazione industriale rivoluzionano dall’interno, la struttura economica che, in tal modo, si rinnova continuamente per generare nuovo ed ulteriore sviluppo[5]. Appare quindi di fondamentale importanza che le imprese utilizzino questo periodo di emergenza per progettare il futuro che è oramai dietro l’angolo.


Molti studiosi e commentatori, in Italia ed all’estero, concordano che per uscire dalla crisi post pandemia sia imprescindibile dare vita ad un nuovo umanesimo, basato su un diverso modello di sviluppo orientato alla sostenibilità ed incentrato sul rispetto delle persone e sulla tutela della natura e dell’ambiente con valorizzazione della green economy. In tale contesto la solidarietà non deve più essere un comportamento eccezionale da mettere in campo in momenti straordinari, ma deve permeare ed irradiare ogni scelta.


Cocca Argazzi 39 4La pandemia ha messo in fila una serie di problematiche che, due studiosi all’inizio degli anni ’70 hanno definito “Wicked Problems”[6], situazioni così complesse e connesse con così tanti fattori da rendere molto difficile l’individuazione delle modalità per affrontarle con successo. Inoltre come ha ben rilevato Luca Cigna, Research Fellow presso l’Osservatorio sul Futuro del Lavoro della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, questi problemi tendono a generarne altri, altrettanto complessi e sempre di difficile soluzione.

Orbene, per ritornare al caso qui in trattazione, se non si individuano soluzioni appropriate per affrontare al meglio la crisi epidemica, è facile passare alla crisi finanziaria, con passi successivi verso la recessione e la crisi sociale.

Recentemente Tiziano Treu, presidente del CNEL, ha sottolineato che questa crisi è “profondamente diversa da tutte quelle precedenti, perché colpisce direttamente la vita delle persone ed è espressione di una comune fragilità dei nostri sistemi economici e sociali”, mette “in gioco lo stesso modello di sviluppo che finora ha governato i nostri Paesi e quindi la qualità della crescita e della vita dei cittadini”[7].

Quanto detto evidenzia, in maniera palese, che l’attuale crisi riporta in rilievo una serie di questioni che da anni aspettano risposte. Può essere quindi l’occasione per affrontarle in maniera approfondita ed arrivare ad una nuova organizzazione del mercato del lavoro, concreta ed innovativa, incentrata sulla solidarietà e sui valori comuni, ed in grado di dare certezze e futuro ai lavoratori. Sicuramente per arrivare a tale obiettivo le scelte da fare saranno epocali e per questo estremamente difficili. Unica cosa certa è che da questa epidemia si esce non con un mero ritorno al passato ma con un balzo ragionato verso il futuro per promuovere una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile ed un lavoro decoroso per tutti.
 

Protocollo condiviso Sindacati-Aziende per il contrasto al coronavirus


A parere di chi scrive per centrare tale obiettivo è, innanzi tutto, indispensabile riprogettare l’organizzazione del lavoro secondo i nuovi parametri di sicurezza diventati ineludibili a causa della pandemia[8]. Quattro potrebbero essere le direttrici lungo cui muoversi: (a) Rimodulazione dei turni di presenza ampliandone le fasce orarie e diluendoli anche su sei giorni settimanali; (b) Introduzione di forme di articolazione dell’orario di lavoro con orari differenziati e flessibilità di uscita ed entrata per favorire il distanziamento. Risulta anche fondamentale qualificare l’uso delle risorse ed armonizzare i tempi professionali e personali dei lavoratori; (c) Elaborazione di un modello di prevenzione partecipato per la gestione dei nuovi pericoli rafforzando quel principio di responsabilizzazione individuale e collettiva che dovrebbe già essere uno dei capisaldi della sicurezza in ogni luogo di lavoro.

A ben vedere, un primo passo in tale direzione è stato compiuto con il “Protocollo” che contiene dettagliate linee guida per agevolare le imprese nell’adozione di piani di sicurezza anti-contagio e fornisce indicazioni operative finalizzate a incrementare, negli ambienti di lavoro non sanitari, le misure di precauzione per contrastare l’epidemia in corso.

In tale contesto, risulta fondamentale anche l’aggiornamento del DVR, per classificare le diverse mansioni lavorative in funzione dei livelli di rischio. Al riguardo l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con nota n. 89 del 13.03.2020, ha osservato che la pandemia in atto è da iscrivere fra i rischi biologici e pertanto, ispirandosi ai principi di massima precauzione ed, in applicazione del D.Lgs. 81/2008, ritiene utile la redazione di un piano di intervento o una procedura per un approccio graduale nell’individuazione e nell’attuazione delle misure di prevenzione, basati sul contesto aziendale, sul profilo del personale assicurando anche adeguati dispositivi di protezione quando, in ragione della mansione svolta, non sia possibile garantire la distanza interpersonale di almeno un metro.
 

Tutela della privacy durante l’emergenza sanitaria


Cocca Argazzi 39 3L’emergenza sanitaria ha portato anche ad interrogarsi sulla ammissibilità di limitare, anche in maniera incisiva, alcuni diritti sanciti dalla Costituzione. Appare assodato che in contesti emergenziali, alcuni diritti possano essere limitati ma i livelli di compressione debbono essere proporzionali alle esigenze specifiche e solo per il periodo di tempo strettamente necessario.

È a tutti noto che uno dei principali punti di forza della democrazia è rappresentato dalla sua resilienza cioè dalla sua capacità di modulare le deroghe alle regole ordinarie, in ragione delle necessità, inscrivendole in un quadro di garanzie certe e senza cedere a improvvisazioni.

In altre parole, per affrontare e vincere la forza, molto spesso letale, di questo nemico invisibile è necessario operare un doveroso ed adeguato bilanciamento tra interessi di salute pubblica, libertà e diritti fondamentali tra i quali rientra quello della tutela della privacy. Infatti, come ha recentemente evidenziato il Garante della Privacy, “il limite dell’emergenza è insomma nel suo non essere autonoma fonte del diritto ma una circostanza che il diritto deve normare, pur con eccezioni e regole duttili, per distinguersi tanto dalla forza, quanto dall’arbitrio”. Il nostro sistema democratico infatti “non ammette un regime extra ordinem per lo stato di eccezione” ma solo deroghe appropriate che non possono fare riferimento al “governo dell’emozione” ma debbono essere sempre riconducibili “alla logica del diritto e non dell'arbitrio” [9].


Stephen Hawking, uno dei più conosciuti fisici teorici del mondo era solito ripetere che “Intelligence is the ability to adapt to change”. Una frase che ben si attaglia a questo periodo, in cui è doppiamente necessario agire con intelligenza per adattarsi alle temporanee limitazioni introdotte, indispensabili per combattere la pandemia con armi adeguate. Ciò vale anche per il diritto alla privacy. Al riguardo il Regolamento UE 2016/679 sulla protezione dei dati chiarisce che il diritto alla protezione dei dati personali non è una prerogativa assoluta, ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità.

In relazione con questo importante principio, il “Protocollo” e le FAQ del Garante del 4 maggio scorso, hanno individuato il perimetro entro il quale il datore è legittimato a trattare i dati personali dei propri dipendenti, in attuazione delle misure di gestione e contenimento dell’emergenza epidemiologica in ambiente lavorativo, fermo restando che detto trattamento deve essere effettuato in ottemperanza ai principi di necessità, proporzionalità e finalità.

Innanzi tutto è lecito per il datore misurare la temperatura corporea del dipendente per accertarsi che la stessa non superi i 37,5°C. Però, trattandosi di dato personale, in fase di registrazione è ammessa la sola indicazione del superamento della soglia stabilita dalla legge (e non anche il valore rilevato, in ossequio al principio di “minimizzazione”) e solamente quando ciò sia necessario per documentare le ragioni che hanno impedito l’accesso al luogo di lavoro. Tali dati, a parere di chi scrive, potranno essere conservati solamente per il periodo in cui permane lo stato di emergenza sanitario deliberato dal Governo: attualmente fino al 31 luglio.

Poi il datore potrà richiedere ai dipendenti ed ai soggetti terzi, che abbiano necessità di entrare in azienda, di dichiarare di non essere stati in contatto negli ultimi 14 giorni con soggetti risultati positivi al Covid-19. Anche al ricorrere di tale fattispecie, precisa il Garante, dovranno essere raccolti solo i dati necessari, adeguati e pertinenti rispetto alla prevenzione della pandemia e astenersi dal richiedere informazioni aggiuntive in merito alla persona risultata positiva, alle specifiche località visitate o altri dettagli relativi alla sfera privata.

Rimane di grande rilevanza il ruolo del medico competente: anche nella fase emergenziale, rimane l’unico a poter trattare legittimamente una ampia gamma di dati personali dei dipendenti. Inoltre continua a collaborare con il datore di lavoro e con gli RLS e gli RLST per proporre le misure di regolamentazione legate al Covid-19. In particolare, in ragione della maggiore esposizione al rischio di contagio dei lavoratori, ha la possibilità di sottoporli a visite straordinarie che, configurandosi come vere e proprie misure di prevenzione di carattere generale, andranno effettuate nel rispetto dei principi di protezione dei dati personali. Il medesimo provvede anche a segnalare al datore quei casi specifici in cui reputi che la particolare condizione di fragilità connessa con lo stato di salute del dipendente ne suggerisca l’impiego in ambiti meno esposti al rischio di infezione.
 

Smart working per una nuova organizzazione del lavoro


Cocca Argazzi 39 5Il Governo durante l’emergenza epidemiologica, ha anche introdotto una procedura semplificata per accedere allo smart working. A ben vedere, tale modalità lavorativa è caratterizzata solo parzialmente dai tratti distintivi del lavoro agile. I segni che lo contraddistinguono, si avvicinano di molto a quelli del Telelavoro. Senza dilungarsi in questa sede, nella ricerca di una terminologia adeguata, si potrebbe quasi dire che la nuova modalità introdotta non identifica lo “smart working” ma bensì un “home working” in grado di garantire la continuità delle attività di servizio e di business direttamente dal domicilio del prestatore, scongiurando in tal modo la sua sospensione o esenzione dal lavoro. Per tali ragioni, a giudizio degli scriventi, tale innovativa modalità di lavoro potrebbe anche caratterizzarsi, per questa fase, come ammortizzatore sociale.


Il lavoro agile, come definito dall’art. 18 della Legge 81/2017, pone l’accento sulla flessibilità organizzativa, sulla volontarietà delle parti che sottoscrivono l’accordo individuale e sull’utilizzo di strumentazioni, in particolare Pc portatili e tablet, che consentano di lavorare da remoto. Due sono le sue funzioni primarie: favorire il bilanciamento dei tempi di lavoro e di vita (work life balance) e incrementare la produttività e la competitività. Fra i capisaldi anche la piena autonomia del prestatore sia nell’individuazione degli orari e dei luoghi (casa, sede distaccata dell’azienda o coworking) dove svolgere la prestazione.

Ovviamente quanto appena detto è applicabile in periodi di “salute sanitaria”. Invece in questa fase emergenziale il Governo ha raccomandato alle imprese ed alle Amministrazioni pubbliche di utilizzare, il più possibile, modalità di lavoro agile per tutte quelle attività che possono essere svolte dal domicilio del lavoratore o, comunque, in modalità a distanza.

Giova sottolineare che lo smart working dell’emergenza, a differenza di quello “doc”, può essere svolto solo dal domicilio del lavoratore e con pieno rispetto degli usuali orari di lavoro e, molto spesso, con reperibilità telefonica per l’intera durata della prestazione. Da ciò discende, a parere di chi scrive, anche la piena spettanza dei buoni pasto contemplati e disciplinati dai singoli CCNL.

È stata anche introdotta una procedura semplificata di attivazione del lavoro agile, che consente al datore di porlo in essere, in maniera unilaterale e senza il consenso del dipendente, fino al termine dell’emergenza epidemiologica.

Di converso, non esiste un diritto generale del lavoratore a svolgere la propria prestazione lavorativa in modalità agile adducendo, ad esempio, la paura del contagio, per sé e per i propri familiari. Però le norme recentemente introdotte sottolineano che il lavoro agile è un diritto per i lavoratori disabili e per coloro che abbiano nel proprio nucleo un familiare con grave disabilità. Lo stesso diritto è esteso ai lavoratori immunodepressi (o con familiari conviventi in tali condizioni) ed a chi ha figli minori di 14 anni (Art. 90 D.L. 34/2020).

Chi scrive è dell’avviso che il diritto al lavoro agile sussista anche per i lavoratori con particolari situazioni di fragilità. Al riguardo il Ministero della Salute con circolare del 29.04.2020 ha evidenziato che i dati epidemiologici rilevano una maggiore fragilità nelle fasce di età più elevate della popolazione (persone con più di 55 anni) ed in presenza di comorbilità che possono caratterizzare una maggiore rischiosità. La situazione di “maggiore fragilità” viene individuata dunque nell’età e nella sussistenza di eventuali patologie del lavoratore.


Cocca Argazzi 39 7Un elemento positivo, fra i tanti negativi portati dalla pandemia, è che l’emergenza sanitaria ha impresso una accelerazione a tale modalità di lavoro che, in pochi mesi, si è trasformata da attività residuale, appannaggio di pochissimi, ad un nuovo modo di lavorare apprezzato da milioni di lavoratori. Nell’ottobre dell’anno passato l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano ha censito 570mila smart worker. Attualmente ci sono oltre 7 milioni e mezzo di home worker.

Anche nella PA il cambio di passo è stato notevole. Prima dell’emergenza lo smart working nelle Amministrazioni Pubbliche era attestato su percentuali abbastanza esigue. Oggi invece, in ragione dei provvedimenti del Governo, i numeri sono di tutto rispetto. Inoltre, come rilevato da “Il Sole 24 Ore” del 3.06.2020, ai dipendenti pubblici il lavoro agile piace, tanto che il 93,6% vorrebbe continuare con tale modalità anche nel post pandemia. Il Ministro per la Pubblica Amministrazione Fabiana Dadone, recentemente intervista da “La Stampa”, ha confermato l’intenzione di mantenere almeno il 30% dei dipendenti in smart working.

È quindi di tutta evidenza l’appeal di tale nuovo modo di lavorare. Superata l’emergenza, se sarà usato in modo equilibrato ed efficace, potrà finalmente dispiegare tutte le sue tante potenzialità e portare risultati positivi e benefici per le aziende e per i lavoratori. In tal modo il cambiamento sarebbe radicale, per certi aspetti epocale e quasi sicuramente irreversibile.
 

Osservazioni conclusive


Il mondo del lavoro dopo la pandemia molto probabilmente non sarà più lo stesso. Il virus ha portato all’attenzione alcune grandi questioni che già cercano con insistenza risposte, certamente non facili. Quale futuro è dietro l’angolo? Cosa ci aspetta alla fine del tunnel emergenziale? Quale sarà il mercato del lavoro nel dopo Coronavirus? Domande che generano altri interrogativi.

Certamente dalla crisi non si esce con un mero ritorno al passato. Appare indispensabile un grande balzo ragionato verso il futuro per dare vita ad un nuovo modello di sviluppo, in grado di promuovere una crescita economica duratura ed inclusiva ed orientata alla sostenibilità. Preziose alleate in questo percorso di rinascita sono le nuove tecnologie. Senza grandi intoppi si potranno svolgere da casa od in co-working la maggior parte dei lavori d’ufficio. Secondo alcuni studiosi, le imprese non vivranno più di sedi, uffici e cartellini da timbrare ma di professionalità. Come ripete spesso il sociologo Domenico De Masi, nell’attuale mondo del lavoro sta crescendo in maniera esponenziale l’importanza delle funzioni innovative e creative che si possono svolgere anche in posti diversi dall’ufficio e dalla sede aziendale.

La Pubblica Amministrazione fin dall’inizio della pandemia è intervenuta sulla propria organizzazione del lavoro, prevedendo per tutti i lavoratori la possibilità di lavorare in “home working”, garantendo in tal modo la prosecuzione dell’attività amministrativa, seppure in forma ridotta.


Cocca Argazzi 39 6Ciò è stato possibile anche perché i dipendenti hanno utilizzato la propria strumentazione (Pc, cellulare e tablet) e la connessione internet di casa. Il paradigma Byod – Bring your own device (porta con te il tuo dispositivo) – è risultato vincente. Tale modalità, apprezzata dalla maggior parte dei dipendenti pubblici, potrebbe tornare utile in futuro anche per gestire le tante emergenze quotidiane (quali allerte meteo, inquinamento, scioperi dei mezzi pubblici, traffico) che non consentano di raggiungere la sede di lavoro. Per proseguire su tale strada è fondamentale la responsabilizzazione del lavoratore che fruirà di una ampia autonomia lavorativa, ferma restando la “co-presenza” sul luogo di lavoro per uno-due giorni la settimana per “rinsaldare i legami di squadra” e favorire il confronto diretto tra colleghi.


Da quanto precede è di tutta evidenza che le modalità organizzative ed operative, poste in essere e sperimentate in questo periodo, potrebbero rappresentare, in tutto o in parte, buone pratiche di lavoro anche per il dopo pandemia quando diventerà imprescindibile rilanciare l’economia ed organizzare nel migliore dei modi i processi produttivi ed i modelli di vita e di lavoro. Quadrato Rosso

Note

[1] L’elenco completo, aggiornato al 26/05/2020, è reperibile sul sito del Garante della Privacy. Inserendo nella home page la chiave “Raccolta Covid-19”, compare “Raccolta delle principali disposizioni adottate in relazione allo stato di emergenza epidemiologica da Covid-19”. Basta un click e si apre un “volume” di 396 pagine;

[2] È stata raccomandata la sospensione delle attività nei reparti non indispensabili alla produzione, l’elaborazione di protocolli anti contagio, la massima limitazione degli spostamenti all’interno dell’azienda ed utilizzare modalità di lavoro agile se compatibile con l’attività svolta;

[3] Consiglio di Stato Sez. III decreto n. 2867 del 31.03.2020;

[4] Bollettino Adapt 20.04.2020. Epidemie, salute pubblica e sviluppo economico: una lezione dal passato. Articolo di Matteo Colombo Adapt Junior Fellow;

[5] Joseph A. Schumpeter, Capitalismo, Socialismo e Democrazia. Edizioni Etas 1994. Pagg. 456;

[6] “Wicked Problems”, letteralmente “problemi sciagurati”, furono definiti in tal modo, per la prima volta nel 1973, da Horst Rittel e Melvin Webber che li paragonarono ad un intricato groviglio di fili dove è difficile individuare quali bisogna tirare per primi;

[7] Tiziano Treu. “L’emergenza coronavirus obbliga a ripensare lavoro e welfare” editoriale pubblicato su “Notiziario Mercato del Lavoro n.1/2020”;

[8] Il datore di lavoro è garante ex lege della salute e sicurezza dei lavoratori. L’art. 2087 cod.civ. gli impone di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei suoi prestatori di lavoro;

[9] Antonello Soro: la sfida privacy in Era coronavirus. Intervista al Garante di Angela Majoli. Ansa del 17.03.2020.

[*] Dorina Cocca in servizio presso la sede di Rovigo dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Ferrara Rovigo. Tiziano Argazzi giornalista, esperto in comunicazione e in materia lavoristica. Le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero degli Autori e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per la Pubblica Amministrazione.

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