Anno IX - N° 47-48

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Settembre/Dicembre 2021

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Anno IX - N° 47-48

Settembre/Dicembre 2021

Lavoro e discriminazione di genere

Seconda parte


di Giuseppe Cantisano [*]

Giuseppe Cantisano 46

Azioni collettive contro le discriminazioni


L’art. 37, commi 1-3 del D. Lgs. n. 198/2006 recita: le Consigliere o i Consiglieri di parità regionali o nazionali (a seconda della rilevanza territoriale del caso), qualora accertino l’esistenza di discriminazioni collettive, anche quando non siano individuabili in modo immediato le lavoratrici o i lavoratori lesi dalle discriminazioni stesse, prima di promuovere l’azione in giudizio, possono chiedere all’autore della discriminazione di predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, entro un termine di 120 giorni, sentite, nel caso di discriminazione posta in essere dal datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali, ovvero, in loro mancanza, le associazioni locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale.

Cantisano 47 48 1Qualora i Consiglieri di parità non ritengano di avvalersi della procedura conciliativa sopra descritta o in caso di esito negativo della stessa, possono proporre ricorso giudiziale. Il Giudice (del lavoro o Tar), nella sentenza che accerta le discriminazioni, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, ordina all’autore della discriminazione di definire un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, fissando anche i criteri per l’attuazione del piano.

È da sottolineare che, anche nelle ipotesi di discriminazione collettiva, vi è la facoltà di avvalersi di una procedura di urgenza (ex art. 37, co. 4, D. Lgs. 198/2006).

Onere della prova: quando il ricorrente fornisce elementi di fatto desunti anche da dati statistici relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione di carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione (in tal senso si veda l’art. 40 del Codice delle Pari Opportunità).

Sanzioni: l’inottemperanza alla sentenza è punita con l’ammenda fino a 50.000 euro o l’arresto fino a sei mesi.

Azioni positive: ai sensi dell’art. 42, D.Lgs. n. 198/2006, le azioni positive consistono in misure volte alla rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la realizzazione di pari opportunità, nell'ambito della competenza statale e sono dirette a favorire l'occupazione femminile ed a realizzare l'uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro. In particolare, tali azioni hanno lo scopo di:

  1. eliminare le disparità nella formazione scolastica e professionale, nell'accesso al lavoro, nella progressione di carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità;
  2. favorire la diversificazione delle scelte professionali delle donne, in particolare attraverso l'orientamento scolastico e professionale e gli strumenti della formazione;
  3. favorire l'accesso al lavoro autonomo e alla formazione imprenditoriale e la qualificazione professionale delle lavoratrici autonome e delle imprenditrici;
  4. superare condizioni, organizzazione e distribuzione del lavoro che provocano effetti diversi, a seconda del sesso, nei confronti dei dipendenti, con pregiudizio nella formazione, nell'avanzamento professionale e di carriera, ovvero nel trattamento economico e retributivo;
  5. promuovere l'inserimento delle donne nelle attività, nei settori professionali e nei livelli nei quali esse sono sottorappresentate;
  6. favorire, anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo di lavoro, l'equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi;
  7. valorizzare il contenuto professionale delle mansioni a più forte presenza femminile.


Soggetti promotori: le azioni positive di cui sopra possono essere promosse, ex art. 43, D.Lgs. n. 198/2006, dal Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici, istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dai Consiglieri di parità, dai Centri per la parità e le pari opportunità a livello nazionale, locale e aziendale, dai datori di lavoro pubblici e privati, dai Centri di formazione professionale, dalle organizzazioni sindacali, nazionali e territoriali.

Sul punto, si precisa che il Comitato nazionale si occupa, tra l'altro, di formulare proposte sulle questioni generali relative all'attuazione degli obiettivi della parità e delle pari opportunità, nonché per lo sviluppo e perfezionamento della legislazione vigente in materia; di esprimere, a maggioranza, parere sul finanziamento dei progetti di azioni positive, controllando i progetti in itinere, verificandone la corretta attuazione e l'esito finale; di verificare lo stato di applicazione della legislazione vigente in materia di parità; di chiedere alla DTL (rectius ITL) di acquisire, presso i luoghi di lavoro, informazioni sulla situazione occupazionale maschile e femminile, in relazione allo stato delle assunzioni, della formazione e della promozione professionale (art. 10, D.Lgs. n. 198/2006).

Cantisano 47 48 2Rapporto sulla situazione del personale: le aziende con più di 100 dipendenti devono redigere un rapporto, almeno ogni 2 anni (con riferimento al biennio che precede) sulla situazione del personale, maschile e femminile, in relazione alle professioni, allo stato delle assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria e di qualifica, dell'intervento della CIG, dei licenziamenti, della retribuzione (art. 46, D.Lgs. n. 198/2006). Il rapporto è redatto – entro il 30 aprile dell'anno successivo alla scadenza di ciascun biennio – in modalità esclusivamente telematica, attraverso la compilazione on-line di appositi campi riprodotti nel modulo a tale fine predisposto dalle istituzioni (D.M. 3 maggio 2018).

A tal fine, sul sito internet istituzionale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali è reso disponibile un applicativo dedicato alla compilazione di tali campi. Per accedere all'applicativo, le aziende possono utilizzare SPID - Sistema Pubblico di Identità Digitale, ovvero richiedere le credenziali di accesso attraverso l'apposita procedura di registrazione. Al termine della procedura di compilazione dei moduli, il servizio informatico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, qualora non rilevi errori o incongruenze:

  • rilascia una ricevuta attestante la corretta redazione del rapporto e il salvataggio a sistema dello stesso;
  • attribuisce alla consigliera o al consigliere regionale di parità un identificativo univoco per accedere ai dati contenuti nei rapporti trasmessi dalle aziende aventi sede legale nel territorio di competenza, al fine di poter elaborare i relativi risultati e trasmetterli alla consigliera o al consigliere nazionale di parità, al Ministero del lavoro e delle politiche sociali e al Dipartimento delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri.


Una copia del rapporto, unitamente alla ricevuta, deve essere trasmessa con modalità telematica anche alle rappresentanze sindacali aziendali entro il medesimo termine del 30 aprile.

In caso di mancato invio del rapporto entro i termini, l'Ispettorato Nazionale del Lavoro invita le aziende a provvedervi entro 60 giorni. Nei casi più gravi (ad esempio in caso di persistente inadempimento da parte del datore di lavoro), può essere disposta la sospensione per un anno dai benefici contributivi eventualmente goduti dall'azienda.

D.Lgs. 81/2015 (cd. Jobs Act): la nuova disciplina introdotta dal legislatore del Job Act, purtroppo è stata etichettata recessiva per il quadro di tutele apprestate ai lavoratori, in particolare la disciplina dei licenziamenti basata sulla liberalizzazione di essi, con la caducazione del precedente rimedio della reintegra , prima prevista dall’art. 18 Stat. lav., sostituito (a vantaggio della parte datoriale) da una più spiccia monetizzazione, fa salvi, per fortuna i soli licenziamenti discriminatori (notoriamente derivanti da ragioni di discriminazione politica, sindacale, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di hanbdicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali, cui va aggiunto quella per violazione delle norme sulla maternità e paternità etc.). È da salutare con piacere l’attenzione e la sensibilità mostrata dal legislatore per tali licenziamenti illegittimi (ascrivibili secondo la giurisprudenza di legittimità a ritorsioni o rappresaglie), conservando per essi una tutela legislativa “cd. forte”.
 

Discriminazioni sull’identità di genere


Per completezza espositiva bisogna dire che pur essendo presente una chiara disciplina a tutela delle discriminazioni sull’orientamento sessuale, lo stesso non si può dire per il tema “dell’identità di genere” intendendosi per tale il senso intimo, profondo e soggettivo di appartenenza alle categorie sociali e culturali di uomo e donna, ovvero che permette a un individuo di dire: “Io sono un uomo, io sono una donna”. Indica dunque la percezione che ciascuno ha di sé in quanto maschio o femmina indipendentemente dal fatto che abbia affrontato la riassegnazione chirurgica del sesso se la sua identità di genere è opposta a quella di nascita.

Cantisano 47 48 4Attualmente, infatti, nell’ordinamento italiano è assente una disciplina chiara e univoca che tuteli contro le discriminazioni in ragione dell’identità di genere . Un disegno di legge Zan contro le discriminazioni anche quelle sull’identità di genere è stato ostacolato fin dai primi momenti della sua presentazione.

Si tratta di un problema rilevante, poiché tale tipo di discriminazioni può sovente causare difficoltà all’ingresso nel mondo del lavoro e/o nel mantenimento del posto di lavoro stesso.

Sarebbe compito precipuo del datore di lavoro vigilare affinché, all’interno del luogo di lavoro, non si verifichino condotte discriminatorie di alcun tipo: tale compito discende, ai sensi dell’art. 2087 c.c., dai doveri di protezione e prevenzione finalizzati a garantire la tutela non solo dell’integrità fisica dei propri dipendenti, bensì anche della loro personalità morale.

Ne consegue che il datore di lavoro, oltre a garantire misure di prevenzione da infortuni e malattie professionali, dovrebbe mettere in atto iniziative al fine di prevenire ed evitare fenomeni lesivi della personalità del dipendente, che sulla discriminazione potrebbero fondarsi, quali il mobbing e lo straining.

Dunque, la tutela dell’“identità di genere” potrebbe essere affidata alle stesse misure implementate per garantire la salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

In tal senso, uno dei principali strumenti a disposizione del datore di lavoro è il c.d. “Modello 231”, un insieme di regole e procedure volte alla prevenzione di reati commessi nell’interesse e/o a vantaggio della società, tra i quali troviamo proprio il reato di lesioni personali colpose. Elemento essenziale del Modello 231 è inoltre il c.d. Codice Etico, che “consacra” i valori e i principi etici cui il business aziendale si ispira, tra i quali è imprescindibile il divieto di ogni forma di discriminazione.

La valorizzazione del sistema di compliance adottato ai sensi del D. Lgs. 231/2001 può rappresentare, pertanto, un primo e importante scudo protettivo “dell’identità di genere” sui luoghi di lavoro attraverso l’adozione di misure prevenzionistiche e principi etico-comportamentali che, sebbene orientati in prima battuta alla prevenzione di reati, possono senz’altro costituire un efficace baluardo contro comportamenti lesivi della dignità morale del lavoratore, in attesa di un auspicato intervento legislativo che colmi espressamente la lacuna.

Tale lacuna non è limitata al solo ordinamento italiano, ma all’intera Europa, dove il divario relativo alla protezione contro la discriminazione sull’identità di genere rimane da colmare.

Cantisano 47 48 5Un passo in avanti, però, è stato fatto dalla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, la quale recentemente non solo ha sancito che nessuna persona può essere licenziata in base al proprio orientamento sessuale, ma ha esteso la protezione del Title VII del Civil Rights Act del 1964 – che letteralmente vieta la discriminazione sulla base del “sesso” – alla discriminazione basata sull’“identità di genere” .

Si è trattato di una sentenza storica, e che rappresenterà sicuramente un’importante pietra miliare per i diritti dei cittadini americani LGBTQ+ nel quadro giuridico statunitense (che si basa, ricordiamo, su un sistema di “common law”).

Finora, infatti, negli Stati Uniti non era mai stato sancito il divieto specifico di licenziare qualcuno solo perché omosessuale, bisessuale o transgender .

La posizione, alla luce della sentenza della Corte Suprema, sembra essersi invertita, poiché tale decisione rappresenta sicuramente un importante passo in avanti, anche rispetto a quanto finora previsto dalla legislazione europea e alla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea.

Sul punto è dirimente quanto affermato dalla stessa Corte Suprema Americana, secondo cui: “Poiché la discriminazione sulla base dell’omosessualità o dello status di transgender richiede che un datore di lavoro tratti intenzionalmente i singoli dipendenti in modo diverso a causa del loro sesso, un datore di lavoro che intenzionalmente penalizza un dipendente per essere omosessuale o transgender viola anche il Titolo VII”. Con questa sentenza, quindi, si stabilisce che è vietata ogni forma di discriminazione basata non solo sull’“orientamento sessuale”, divieto che, come abbiamo visto, è presente anche in Italia e in Europa, ma anche sulla “identità di genere”, aspetto giuridico che, invece, in Italia e in Europa, non è stato ancora inserito in alcuna legislazione.

La sentenza statunitense, in tal senso, potrebbe rappresentarne un ottimo punto di partenza per i nuovi sviluppi, all’interno dell’ordinamento italiano, delle tutele verso l’“identità di genere”.
 

Fonti comunitarie del principio di non discriminazione

  • Carta delle Nazioni Unite (ovvero accordo istitutivo dell’ONU) sottoscritta a San Francisco il 26 giugno 1945, all’art.1, parag. 3 stabilisce tra i principi delle nascente organizzazione internazionale la promozione “dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di religione”.
  • Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo firmata a Parigi nel 1948. In particolare, all’art. 2 , sanciva: “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione…”.
  • Cantisano 47 48 3CEDU (Dichiarazione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo): viene adottata nel 1950 e l’importanza risiede nell’introduzione di un meccanismo giurisdizionale per la tutela dei diritti attraverso il ricorso alla Corte di Strasburgo. L’art. 14 CEDU dispone che “il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origne nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione”.
  • Convenzione OIL n. 111/1958: l’art.1 della Convenzione afferma che, il termine discriminazione comprende “ogni distinzione, esclusione o preferenza fondata sulla razza, il colore, il sesso, la religione, l’opinione politica, la discendenza nazionale o di trattamento in materia d’impiego o di professione” e, in generale, “ogni altra distinzione, esclusioni o preferenza che abbia per effetto di negare o di alterare l’uguaglianza di possibilità o di trattamento in materia d’impiego o di professione” e, in generale “ ogni distinzione, esclusioni o preferenza che abbia per effetto di negare o di alterare l’uguaglianza di possibilità o di trattamento in materia d’impiego o di professione”.
  • Carta di Nizza del 2000: sancisce il divieto di qualsiasi forma di discriminazione fondata sul sesso, la razza, il colore della pelle, l’origine etnica o sociale… la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale (art. 21);
  • Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) del 2008: “nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale” (art. 10) . Il Consiglio poi in virtù dell’art. 19 TFUE, “deliberando all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale”.
  • Direttive 2000/43/CE, 2000/78/CE e 2002/73/CE: in base all’art. 19 TFUE sono state emanate tali direttive che hanno trovato poi successivamente attuazione nelle legislazioni nazionali.
  • Convenzione OIL n. 190 del 21/6 adottata a Ginevra: è stata resa esecutiva in Italia con la Legge n. 4 del 2021. La Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro n. 190 ha l’obiettivo dell’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, applicabile a tutti i settori sia privati che pubblici. L’estensione della tutela si scorge già dal piano soggettivo: la Convenzione protegge tutte le lavoratrici e lavoratori indipendentemente dallo status contrattuale e dunque volontari, apprendisti, chi è stato licenziato etc.. All’art. 10 della Convenzione tra le altre cose, è previsto “l’obbligo per ciascun Stato Membro di introdurre sanzioni, se del caso, nei casi di violenza e di molestie nel mondo del lavoro”. Quadrato Rosso


La prima parte è stata pubblicata su Lavoro@Confronto n. 46

[*] Capo dell'Ispettorato Interregionale del Lavoro SUD (Napoli)

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