Anno X - N° 54

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Novembre/Dicembre 2022

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Anno X - N° 54

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Dai mondiali ad Amazon: il (non) rispetto dei diritti che ci interroga e ci riguarda


di Matteo Ariano [*]

Matteo Ariano 46

Nelle scorse settimane si sono avviati i campionati mondiali di calcio. Personalmente non seguo da anni questo sport, considerandolo un moderno “oppio dei popoli” o arma di distrazione di massa, mentre ho seguito con attenzione le polemiche che hanno accompagnato la scelta del Qatar come luogo in cui tenere il torneo.

Ariano 54 2Già nel febbraio 2021, il giornale britannico progressista “The Guardian” pubblicò un’inchiesta secondo la quale, per la costruzione degli impianti sportivi e no, sarebbero morti seimilacinquecento lavoratori in Qatar. Quindi, seimilacinquecento persone, di varia nazionalità (bengalesi, pakistani, indiani, nepalesi, filippini) che si sono recati in Qatar per lavorare e costruire stadi e altre strutture dove la gente è andata durante i Mondiali, non hanno più fatto ritorno a casa. Si tratta, ovviamente, di dati non confermati perché, come riporta lo stesso articolo, il più delle volte queste morti sono state catalogate dalle autorità del Qatar come “morti naturali” e i Governi stranieri interessati si sono ben guardati dal chiedere spiegazioni ufficiali al Governo del Qatar. Pecunia non olet, si sa.

A sua volta, il “Guardian” aveva ripreso un articolo della BBC e un report del 2013 dell’ITUC (International Trades Union Confederation, la confederazione internazionale delle organizzazioni sindacali), che denunciavano un ampio sistema di sfruttamento.

Il punto focale di questo sistema – emerso oggi agli occhi dell’opinione pubblica occidentale in tutta la sua cruda realtà, ma che esisteva già da prima – è il cosiddetto “sistema kafala”: per entrare nel Paese, i lavoratori migranti devono avere uno sponsor interno, normalmente il loro futuro datore di lavoro, che diventa responsabile del loro status legale e dei loro visti di ingresso. Tale sistema ha creato abusi che hanno riproposto forme di moderna schiavitù in quanto, senza il consenso del proprio datore, il lavoratore migrante non può ritornare nel suo Paese di origine, né può cambiare lavoro o andare a lavorare presso altri datori. In buona sostanza, è il datore che decide, in tutto e per tutto, della sorte dei “suoi” lavoratori. Esattamente come accadeva nei campi di cotone americani, nel 1800. Nonostante l’ITUC avesse inviato ufficialmente precise segnalazioni di abusi da parte di alcune imprese al Ministero del Lavoro del Qatar, perché inviasse i propri ispettori del lavoro, niente è accaduto.

Grazie alle denunce di organizzazioni umanitarie come Amnesty International e Human Rights Watch, ma anche grazie alle forti pressioni dell’ITUC, qualche piccolissimo passo verso la tutela dei diritti dei lavoratori si è mosso; così, ad esempio, dal 2020 un lavoratore migrante in Qatar può, in teoria (nella pratica è ancora tutto da vedere), cambiare il suo datore di lavoro senza il consenso del datore che lo ha fatto entrare nel Paese. Ma è ancora troppo poco. Già nel summenzionato report del 2013, l’ITUC scriveva che se la FIFA avesse domandato al Qatar di abolire integralmente il sistema kafala, il Qatar lo avrebbe probabilmente fatto, pur di non perdere l’aggiudicazione dei Mondiali.

Nelle scorse settimane siamo stati invasi dal ritorno del Black Friday, iniziativa commerciale inventata dalla società “Amazon” che, visto il suo successo, è stata poi replicata dall’intero mondo imprenditoriale per vendere qualsiasi cosa. “Amazon” è stata più volte nell’occhio del ciclone per l’utilizzo debordante degli algoritmi (i veri nuovi padroni della società moderna), per misurare i tempi di lavorazione dei singoli lavoratori in magazzini infarciti di telecamere e sensori. Addirittura, il Wall Street Journal (non proprio un giornale di estrema sinistra) ha coniato il termine “bezosismo” – dal nome del fondatore di Amazon, Jeff Bezos – per indicare una nuova organizzazione del lavoro che spreme i lavoratori e ne comprime libertà e dignità. Naturalmente, in questo sistema la libertà sindacale non è assolutamente prevista e, anzi, negli anni passati la società ha perfino rilasciato un video rivolto ai dipendenti, nel quale si dichiarava che i sindacati non sempre fanno il bene dei clienti o degli associati, e concludeva invitando i lavoratori a segnalare eventuali segni di avvio di attività sindacale. Difatti, quando un giovane lavoratore di un magazzino di nome Chris Smalls si è azzardato coraggiosamente a denunciare il mancato rispetto di salute e sicurezza durante il periodo pandemico, è stato immediatamente licenziato dalla società. Quel licenziamento ha innescato una battaglia che potremmo definire epocale, in cui il “Davide” Chris Smalls ha avviato una campagna di raccolta firme per la costituzione del primo sindacato all’interno del “Golia” Amazon.

54 1 Ariano Alu LogoNonostante l’azienda abbia cercato in tutti i modi di scoraggiare i lavoratori di firmare tale richiesta e di impedirne la votazione, alla fine i lavoratori del magazzino JFK8 di Staten Island – distretto di New York – hanno votato a maggioranza per la creazione dell’ALU: Amazon Labour Union, il primo sindacato ufficialmente presente all’interno di Amazon. Anche in Italia, i padroni del vapore volevano portare la loro idea antisindacale e invece, grazie alle dure lotte dei lavoratori, è stato siglato il primo accordo sindacale al mondo siglato da Amazon con rappresentanze sindacali (nello specifico si tratta di Cgil, Cisl e Uil): sottoscritto presso il Ministero del Lavoro, alla presenza dell’ex Ministro del Lavoro Orlando esso prevede, come primo punto, il riconoscimento dell’esistenza delle rappresentanze sindacali e di un contratto nazionale.

Queste due esperienze interrogano le nostre coscienze e ci pongono di fronte a una realtà complessa, ma anche dinanzi a interrogativi vecchi, se non come l’uomo, perlomeno come l’attuale società in cui viviamo: fino a che punto è giusto – non lecito, ma giusto – che il profitto di alcuni possa comprimere la dignità e la libertà umana? Fino a che punto è giusto non interrogarsi o, peggio, far finta di non sapere nulla, sulle condizioni di lavoro di chi costruisce palazzi, produce le merci che noi compriamo o che ci vengono portate comodamente fin dentro casa?

Ma ci dà anche delle risposte: se certe situazioni non ci appaiono conformi a canoni di giustizia, allora è giusto reagire e cercare di cambiare le cose, passo dopo passo, perché la direzione del mondo non è mai segnata in modo irreversibile e sta a ognuno di noi – al Chris Smalls di turno – il compito e la possibilità di cambiarla.

Auguri di essere questa speranza a tutte e a tutti. Quadrato Rosso

Auguri Natale2022

[*] Presidente della Fondazione Massimo D’Antona Onlus

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