Anno X - N° 54

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Novembre/Dicembre 2022

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Anno X - N° 54

Novembre/Dicembre 2022

“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ma non dietro le sbarre”


di Valeria Brancato e Carlo Iovino [*]

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Il lavoro è alla base della funzione rieducativa affidata alle carceri, uno dei pochi strumenti insieme all’istruzione, che favoriscono il recupero alla vita sociale dei detenuti. A tale riguardo non si può non partire dall’art. 27 comma 3 della Costituzione che nell’introdurre i principi di umanizzazione della pena e rieducazione del condannato, prevede che la limitazione della libertà non deve comunque oscurare gli altri diritti costituzionalmente riconosciuti alla persona quali anche il diritto all’istruzione ed al lavoro.

Il carcere, luogo previsto dalla Costituzione, deve garantire anche al suo interno i principi cardine della Costituzione, soprattutto gli artt. 1 e 3, laddove viene affermato che il lavoro fonda la Repubblica, ispirandola e caratterizzandola, ed esprime l’indirizzo che deve condizionare l’azione dei pubblici poteri.

Brancato Iovino 54 1Il mondo del carcere e quello della società cosiddetta “libera” non devono considerarsi mondi isolati e proprio il lavoro può rappresentare il “ponte” che li unisce, favorendo da un lato il recupero e la restituzione alla società del detenuto e dall’altro recando beneficio alla società in termini di sicurezza e risparmio.

Si è visto, infatti, che il lavoro riduce notevolmente la recidiva con un taglio che è stato calcolato addirittura dal 70 all’1%. Dunque, al di là del valore pedagogico, il lavoro in carcere rappresenta economicamente un risparmio per lo Stato italiano in quanto ogni punto di recidiva corrisponde a circa 40 milioni di Euro risparmiati.

Il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, Marcello Bortolato, intervistato da Linkiesta diceva: «Il lavoro in carcere è un’assicurazione sul futuro. Ma oggi è visto come una concessione o un favore che si fa al detenuto. I politici non capiscono che quando la pena finisce e restituiamo alla società un detenuto a cui non abbiamo dato possibilità e a cui non abbiamo insegnato un mestiere, molto probabilmente tornerà a delinquere».

Dando uno sguardo ai numeri emerge che solo il 4 per cento dei reclusi fa un lavoro vero, con formazione e retribuzione: prima della pandemia su 60.769 detenuti ne lavoravano meno del 30% ma di questo 30% quasi tutti erano alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria con mansioni di addetti alle pulizie, alla lavanderia e alla cucina, cuochi e manutentori, senza formazione, mansioni poco richieste dal mercato del lavoro all’esterno.

Antigone, associazione impegnata da anni nella tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, dopo la pandemia, ha visitato diversi istituti di pena e raccolto dati relativi alla presenza di esperienze lavorative nei percorsi di recupero dei detenuti ed attualmente, in media, solo il 33% dei detenuti è impiegato alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria e solo il 2,2% è in media impiegato alle dipendenze di altre imprese.

Nel carcere napoletano di Poggioreale, il più grande d’Italia, su una popolazione di oltre duemila detenuti (e talvolta fino a duemiladuecento) è emerso che lavorano solo in 280, cioè meno del 13%. Antigone sottolinea che inoltre gli istituti scelgono di far lavorare i detenuti solo per poche ore e per pochi giorni, così da poter far lavorare più persone possibile, ma ciò comporta una retribuzione molto ridotta che spesso non copre nemmeno i costi del mantenimento.

L’art 47 del D.P.R. 230/2000, Regolamento sull’Ordinamento Penitenziario, stabilisce che il lavoro svolto dai detenuti, sia all’interno che all’esterno delle carceri, può essere organizzato e gestito dalle direzioni degli istituti di pena oppure da imprese pubbliche o private e in particolare da imprese cooperative sociali anche in locali concessi in comodato dalle direzioni che diventano, a pieno titolo, locali dall’azienda che assume gli obblighi della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nonché del versamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi.

Brancato Iovino 54 2Modello per il lavoro nelle carceri è l’esperienza del carcere Due Palazzi di Padova dove lavorano circa 170 detenuti impiegati in call center delle Asl, per le società di luce e gas, per le Camere di Commercio, nella produzione di tacchi per l’alta moda e nell’assemblaggio di valigie. Particolare importanza ha poi la pasticceria Giotto, premiata dal Gambero Rosso, che produce panettoni e colombe artigianali, biscotti e torte venduti nei migliori negozi italiani.

Queste attività sono purtroppo rimesse ai direttori di carceri, e pochi sono quelli illuminati, e ad imprese di buona volontà. Manca un progetto a livello istituzionale ed il Ministero della Giustizia ha puntato per buona parte sul lavoro gratuito di pubblica utilità.

Il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze Marcello Bortolato in merito sottolinea come sia “fumo negli occhi nei confronti di un’opinione pubblica che si sente rassicurata dal vedere detenuti che puliscono la città gratis. Non si può imporre un lavoro che dovrebbe essere volontario. E soprattutto questo non è lavoro, non ha una valenza educativa per chi la fa”. Lo stesso garante dei detenuti Mauro Palma aggiunge: «Manca la retribuzione, è una modalità che ci fa tornare quasi all’epoca dei lavori forzati».

Se guardiamo oltre i nostri confini, vediamo che in Francia, che pure non brilla, le carceri fanno lavorare quasi il 50% dei detenuti. In Germania, dove la legge penitenziaria prevede l’obbligatorietà del lavoro, attualmente trovano occupazione quasi il 65% dei detenuti.

In Danimarca e Spagna è passato un modello che responsabilizza i detenuti: sono gli stessi reclusi che devono pianificare la loro settimana attraverso il lavoro anche con riferimento al sostentamento economico. Ciò ovviamente favorisce altresì l’accrescimento in termini di autostima e dignità della persona.

È lo stesso Ordinamento Penitenziario, L. 354/1975 e successive integrazioni e modifiche, che all’art. 15, prevede che il lavoro sia uno degli elementi obbligatori del trattamento rieducativo stabilendo che, salvo casi di impossibilità, al condannato è assicurata un’occupazione lavorativa che non può comportare un inasprimento della pena.

Il successivo art. 20 stabilisce poi che il lavoro non ha carattere afflittivo, ma è volto proprio alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato, e deve essere remunerato in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato, in misura pari ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi (cfr. art. 22 cit.). L’organizzazione ed il metodo di lavoro devono riflettere «quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale» (art. 20, comma 3), e nell’assegnazione al lavoro deve tenersi conto, oltre che dei carichi familiari, dell’anzianità di disoccupazione maturata durante lo stato di detenzione e delle abilità lavorative possedute (art. 20, comma 5, lett. a). L’orario di lavoro non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti, e sono garantiti i riposi, la tutela assicurativa e previdenziale (art. 20, comma 13). Inoltre possono essere svolte, per conto proprio, attività artigianali, intellettuali o artistiche (art. 20, comma 11).

Le competenze lavorative del detenuto sono tenute in considerazione, ma è l’amministrazione penitenziaria, che dispone l’assegnazione. Il detenuto può essere destinato a lavorare all’interno o all’esterno del carcere. Il lavoro all’interno è la modalità tradizionale di svolgimento dell’attività lavorativa ed il datore di lavoro potrà essere tanto l’amministrazione penitenziaria quanto imprese pubbliche o private, mentre il lavoro all’esterno, a cui tutti i detenuti possono essere assegnati, rappresenta lo strumento più idoneo a riconoscere un contenuto concreto al 3° comma dell’art. 27 Cost.

È prevista altresì la partecipazione a corsi di formazione professionale (art. 20, comma 1, e 21, comma 4-bis, o.p.), la cui possibilità conferma la centralità del lavoro, durante l’espiazione della pena, ai fini del reinserimento sociale.

Brancato Iovino 54 3La Legge 22 giugno 2000, n.193 con i successivi decreti attuativi, prevede vantaggi fiscali e contributivi per le imprese che assumono detenuti.
Le quote contributive a carico dei datori di lavoro e dei lavoratori sono ridotte nella misura del 95% e trovano applicazione fin quando i lavoratori si trovano nella condizione di detenuti od internati. L’INPS, con la circolare n. 27 del 15/02/19, ha emanato le istruzioni per la fruizione di tali benefici contributivi. Per la determinazione dello sgravio occorre tener presente che, comunque, è sempre dovuto dal datore di lavoro il contributo dello 0,30% sulla retribuzione imponibile in favore della formazione continua ex lege n. 845/1978.

È quasi superfluo evidenziare che tali sussidi rappresentano un significativo risparmio per il datore di lavoro e un investimento sociale per la comunità.

La circolare INL n.1 del 2020 ha chiarito inoltre che è ammissibile il lavoro a domicilio per i detenuti non sussistendovi preclusioni normative, atteso che tale tipologia di lavoro risulta espressamente richiamata dall’art. 47 del citato D.P.R. 230/2000. È necessario che le attività lavorative svolte siano ontologicamente compatibili con le specificità della disciplina del lavoro a domicilio. Quadrato Rosso

Bibliografia

EUFRANIO MASSI, estratto dal n. 16/2021 di Diritto & Pratica del Lavoro: Assunzioni incentivate di lavoratori in Cigs, over 50, detenuti e percettori di RdC

L’INKIESTA – Rivista online del 20/05/2020

IL RIFORMISTA – Rivista online del 22/09/2022

[*] Funzionari dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Le considerazioni espresse sono frutto esclusivo del pensiero degli autori e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.

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