Anno XI - n° 58

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Luglio/Agosto 2023

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Anno XI - n° 58

Luglio/Agosto 2023

Il differimento del trattamento di fine servizio nella P.A.

La Corte Costituzionale si pronuncia sulla legittimità della retribuzione differita


di Antonella Delle Donne [*]

Antonella Delle Donne 56

La questione sollevata e le posizioni delle parti


Il Tribunale Amministrativo per il Lazio, sezione terza quater, con ordinanza del 17 maggio 2022 ha sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 36 della carta fondamentale in riferimento a due norme:

  • art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997 n. 79, convertito con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140;
  • art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010.

La questione nasce da un ricorso proposto da un dirigente della Polizia di Stato, cessato dal servizio per il raggiungimento dei limiti di età, per il pagamento del trattamento di fine servizio senza differimento e rateizzazione.

Le indennità in esame, inizialmente, erano disciplinate dall’art. 26, terzo comma, del d.P.R. n. 1032 del 1973 che prevedeva, in caso di cessazione dal servizio per il raggiungimento dei limiti di età, un obbligo, a carico dell’amministrazione, di predisporre nei tre mesi antecedenti tutti gli atti necessari con invio, almeno un mese prima, al Fondo di Previdenza per il personale civile e militare dello Stato che era tenuto ad emettere il mandato di pagamento subito dopo la cessazione dal servizio o, in ogni caso, non oltre quindici giorni. Tale termine è stato successivamente elevato dall’art. 7, terzo comma, della legge 20 marzo 1980, n. 75.

L’art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997 n. 79, convertito con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140 originariamente, fissava in ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro il termine concesso all’ente erogatore per provvedere e in dodici per dissoluzione dell’incarico per raggiunti limiti di età o di servizio o per collocamento a riposo d’ufficio a causa dell’anzianità massima stabilita da legge o regolamento. A seguito delle modifiche avvenute nel 2011 e nel 2013 si innalza da sei a ventiquattro mesi il termine per il trattamento di fine servizio e da sei a dodici per raggiunti limiti di età.

A tale disciplina si affianca quella dell’art. 12, comma 7, del decreto legge 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010 che prevede la rateizzazione delle indennità motivato dalla necessità di contenere la spesa corrente per consolidare i conti pubblici.

In particolare, la disposizione richiamata prevede la corresponsione:

  1. in un unico importo annuale se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente pari o inferiore a 50.000 euro;
  2. in due importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente superiore a 50.000 euro ma inferiore a 100.000 euro.
  3. in tre importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente uguale o superiore a 100.000 euro.


Il Giudice rimettente richiama la precedente giurisprudenza di legittimità che definisce le indennità di fine servizio come parte del compenso del lavoro prestato la cui erogazione è differita al momento della cessazione per sopperire al venire meno della retribuzione.

I dubbi di compatibilità sono avanzati in relazione all’art. 36 Cost. che sancisce il principio della proporzionalità della retribuzione e all’art. 38 Cost. che fissa il principio dell’adeguatezza dei mezzi per la vecchiaia.

L’INPS, di contro, sottolinea la diversità tra il trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 c.c., di natura privatistica e sicuramente annoverabile tra le retribuzioni differite, e quello di fine servizio dotato di disciplina propria e maggiormente vantaggioso parametrato all’ultima retribuzione e detassato. Inoltre, quest’ultimo non può essere richiesto anticipatamente ed è alimentato attraverso un contributo previdenziale obbligatorio gravante sull’ente che agisce in rivalsa su dipendente per il 2,50%.

Delle Donne 58 1L’insieme di questi elementi renderebbe estraneo il trattamento di fine servizio al concetto di retribuzione differita comprensivo di quella maturata dal dipendente gradualmente e percepita successivamente.

Di conseguenza, non emergerebbe nessun contrasto con le norme della Costituzione trovando, anzi, applicazione i principi espressi dalla Consulta con sentenza n. 173 del 2016 in relazione al contributo di solidarietà sulle pensioni di importo più elevato la cui dilazione risulta conforme al principio di solidarietà in quanto necessaria per scongiurare una grave crisi del sistema di finanza pubblica e previdenziale.

Si tiene conto della limitatezza delle risorse e della necessità di programmazione della spesa che giustificano, sulla base della ragionevolezza e dell’affidamento, il differimento del pagamento.

Nel giudizio interviene anche il Presidente del Consiglio dei Ministri, a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, sostenendo la compatibilità delle norme impugnate con la Costituzione in quanto non si attua una decurtazione dell’importo né, tantomeno, è negato il credito, ma soltanto versato successivamente.


La decisione della Corte


La Corte dichiara le questioni inammissibili.

Preliminarmente analizza la natura dell’indennità di fine servizio assimilata, attraverso le molteplici modifiche legislative che si sono succedute nel tempo, a quella di fine rapporto di stampo privatistico, pertanto, rientrante nel comune paradigma della retribuzione differita. In comune l’obiettivo di accompagnare il lavoratore durante l’uscita dal mondo del lavoro. Tali caratteristiche non intaccano, però, la natura retributiva degli emolumenti in esame, guadagnate durante la vita attiva, rientranti, pertanto, sotto l’egida dell’art. 36 Cost. La discrasia cronologica, infatti, non ne inficia l’ontologia, ma ne realizza la corretta funzione previdenziale.

La Corte si mostra consapevole del peso che l’erogazione delle indennità ha sul bilancio statale e sull’equilibrio finanziario e non esclude che, in situazioni di grave difficoltà, il legislatore potrebbe sacrificare il diritto del lavoratore alla pronta corresponsione del trattamento di fine servizio, ma nel rispetto del criterio di ragionevolezza e proporzionalità con riguardo allo scopo perseguito, altrimenti si sfocerebbe nel mero arbitrio.

Tale soluzione, inoltre, per essere conforme alla Costituzione deve avere durata limitata nel tempo non potendosi richiedere al dipendente un sacrificio indefinito.

I Giudici di legittimità ritengono non conforme ai principi enunciati il termine dilatorio di dodici mesi di cui all’art. 3, comma 2, del decreto legge n. 79 del 1997 in quanto il differimento per l’indennità dovuta per raggiunti limiti di età non bilancia equamente l’interesse alla repentina liquidazione e la stabilità della finanza pubblica. Manca, infatti, un tempo definito e limitato essendosi trasformato l’intervento in misura strutturale di sistema.

In questo modo, inoltre, viene vanificata la funzione previdenziale delle indennità che ne caratterizza la natura dovendo venire in aiuto al lavoratore e alla sua famiglia.

La costante crescita dell’inflazione e la mancata rivalutazione, poi, comporta una perdita del valore reale in spregio al principio di proporzionalità tra retribuzione e lavoro prestato decantato dall’art. 36 Cost.

La Corte, dopo aver evidenziato la mancata conformità delle norme in commento con il disposto costituzionale, in conclusione, afferma di non poter porre rimedio alle violazioni in quanto la soluzione rientra nella discrezionalità del legislatore. Bisogna, infatti, sempre tener conto dell’impatto finanziario che un cambiamento della materia comporterebbe optando per un intervento graduale seppur ossequioso dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza della retribuzione.

Il monito è diretto all’attuazione di una riforma repentina idonea a contemperare la necessità dell’equilibrio di bilancio e a porre fine, quanto prima, alle lesioni costituzionali. Un ingiustificato “protrarsi dell’inerzia legislativa” non sarebbe, infatti, giustificabile.


Conclusioni


La rivoluzione copernicana attuata dalla pronuncia in esame è stata accolta con grande clamore nel settore del pubblico impiego. Il risultato, atteso e, forse, scontato, rappresenta l’apice di un lungo dibattito tra la parte pubblica e quella sindacale concluso a favore dei dipendenti.

Se, infatti, è vero che bisogna tener conto dell’interesse ad una finanza pubblica sana e ad un bilancio statale in equilibrio, ciò non può avvenire a discapito del lavoratore che può godere, effettivamente, della propria indennità soltanto trascorso un notevole lasso di tempo dalla cessazione del rapporto di servizio. Egli, in tal modo, è doppiamente vessato in quanto non ha diritto ad alcuna rivalutazione perdendo, in concreto, potere d’acquisto.

Delle Donne 58 2La Corte, dunque, come già in diverse sentenze concernente temi ove gli interessi sono legati tra loro in un inestricabile nodo gordiano, ad esempio l’eutanasia attiva, esorta il legislatore ad intervenire repentinamente predisponendo una disciplina consona ad attribuire al lavoratore la retribuzione dovuta senza effetti devastanti sul bilancio pubblico con l’introduzione di misure graduali.

De iure condendo, si auspica un veloce intervento del legislatore con la predisposizione di una disciplina ad hoc utile a contemperare sia le esigenze economiche finanziarie che quelle del lavoratore ad una pronta erogazione del trattamento di fine servizio.

La fine del periodo lavorativo costituisce, infatti, un momento delicato della vita di ciascuno caratterizzato dall’assenza di introiti mensili per cui l’indennità assume ancora più importanza. Essa, inoltre, rappresenta parte della retribuzione accumulata e guadagnata durante gli anni di lavoro, remunerazione propria del dipendente che non può vedere i suoi diritti compressi irragionevolmente e oltremodo.

La Repubblica, per espresso disposto costituzionale, tutela il lavoro e le sue applicazioni sancendo il principio della proporzionalità della retribuzione per garantire un’esistenza libera e dignitosa e assicura mezzi adeguati soprattutto nelle fasi più delicate della vita, tra cui quella della vecchia. Un’eccessiva discrasia cronologica tra la fine della vita lavorativa e l’erogazione degli emolumenti contrasta, pertanto, con il dettato costituzionale per il mancato rispetto degli artt. 36-37-38 Cost., del principio di proporzionalità e della funzione remunerativa- assistenziale della retribuzione.

La Consulta a chiare lettere afferma l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto legge 28 marzo 1997 n. 79, convertito con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140 e dell’art. 12, comma 7, del decreto legge 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010 e, contestualmente, demanda al legislatore il compito di provvedere all'emanazione di norme coerenti con la Costituzione esercitando la propria discrezionalità sebbene in un lasso di tempo congruo e con ponderato bilanciamento di tutti gli interessi coinvolti.

Il lavoro costituisce il fondamento della Repubblica italiana, indispensabile per assicurare libertà, dignità e mezzi adeguati a ciascuno. Quadrato Rosso

[*] In servizio presso Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, DG Politiche Previdenziali e Assicurative, Divisione I. Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.

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