Anno XII - n° 61

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Gennaio/Febbraio 2024

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Anno XII - n° 61

Gennaio/Febbraio 2024

Reati e illeciti amministrativi a tutela della parità di genere e contro le discriminazioni


di Pierluigi Rausei [*]

Pierluigi Rausei 61

L’effettività delle tutele della parità di genere e il contrasto alle discriminazioni muove anche dalle misure sanzionatorie che l’ordinamento riesce a prevedere e ad applicare nei confronti dei datori di lavoro e dei sistemi aziendali che violano gli obblighi e non riconoscono i diritti posti a presidio delle garanzie di protezione valorizzate.

Analizzando la normativa c.d. “antidiscriminatoria” rileva un quadro complessivo di interventi legislativi dei quali il D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, detto «Codice delle pari opportunità» (di seguito anche solo “Codice”), con le modifiche apportate dal D.Lgs. 25 gennaio 2010, n. 5, dal D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151 e dalla legge 5 novembre 2021, n. 162, rappresenta l’ultima frontiera.

In questa dimensione assume rilievo essenziale l’apparato sanzionatorio che prende le mosse dalla stessa finalità della normativa, giacché se è vero che il divieto di un agire discriminatorio trova la propria scaturigine idealtipica nell’esigenza (costituzionalmente rilevante in ragione dell’art. 3, comma 1, Cost.) di impedire che la lavoratrice o il lavoratore vengano ad essere penalizzati, in qualsiasi maniera, per la propria soggettiva diversità, è altrettanto sicuro che la tutela del rispetto del divieto, mediante un adeguato e proporzionato intervento sanzionatorio, garantisce, in buona sostanza, l’affermazione concreta ed effettiva del principio di parità di trattamento.

D’altronde, può rinvenirsi nella Carta costituzionale una speciale affermazione squisitamente “operativa” e immediatamente “precettiva” circa l’obbligo per il datore di lavoro di riconoscere alla lavoratrice gli stessi diritti del lavoratore e, «a parità di lavoro» (di attività lavorativa svolta in concreto, non già di risultato effettivamente conseguito), di corrisponderle le stesse retribuzioni, così nell’art. 37, comma 1.

L’attuale quadro punitivo distingue le condotte penalmente rilevanti del datore di lavoro che non dà seguito agli ordini giudiziali di rimozione delle discriminazioni, rispetto ai comportamenti sanzionati in via amministrativa per le discriminazioni attuate in modo diretto o indiretto dalla selezione preassuntiva fino alle diverse fasi e condizioni di svolgimento del rapporto di lavoro, residuando altri due illeciti amministrativi riguardanti l’omesso e il mendace o incompleto rapporto telematico obbligatorio biennale sulla situazione del personale maschile e femminile.


Reato di inottemperanza agli ordini giudiziali di rimozione delle discriminazioni


Le due ipotesi di reato previste dal Legislatore si differenziano in maniera sostanziale per i contenuti delle stesse (l’una destinata a tutelare l’insieme di tutti i lavoratori e le lavoratrici, l’altra finalizzata a proteggere la singola lavoratrice o il singolo lavoratore), così come delineati rispettivamente dall’art. 37, comma 5, e dall’art. 38, comma 4, del D.Lgs. n. 198/2006.

Rausei 61 1Le due contravvenzioni in argomento rappresentano il punto di tutela più forte che il Codice riconosce oggi ai lavoratori e alle lavoratrici vittime di discriminazioni di genere e ricevono una specifica e severa reazione punitiva che ha rimosso e sostituito l’originario richiamo espresso alle pene stabilite dall’art. 650 c.p., assai più lievi.

Le due disposizioni puniscono la condotta del datore di lavoro che non ottempera all’ordine giudiziale di rimozione delle discriminazioni accertate, collettive o individuali, ovvero, con riguardo alle discriminazioni collettive, non provveda a definire il piano di rimozione delle stesse, concordandolo con le rappresentanze sindacali e con la consigliera o il consigliere di parità regionale competente per territorio o con il consigliere o la consigliera nazionale.


Discriminazioni collettive


Più specificamente, a norma dell’art. 37, comma 3, del D.Lgs. n. 198/2006, la sentenza che accerta (su ricorso delle consigliere o dei consiglieri di parità) l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, diretti o indiretti, di carattere collettivo, anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto le lavoratrici o i lavoratori lesi dalle discriminazioni, ordina, fra l’altro, al datore di lavoro che si sia reso autore della discriminazione di «definire un piano di rimozione delle discriminazioni accertate», sentite le «rappresentanze sindacali aziendali» o, in mancanza, «gli organismi locali aderenti alle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative sul piano nazionale», nonché «la consigliera o il consigliere di parità regionale competente per territorio o la consigliera o il consigliere nazionale».

La sentenza contiene un riferimento predeterminato circa i criteri, anche temporali, che devono essere osservati nella definizione e nella conseguente attuazione del piano. Il successivo comma 4 dello stesso art. 37 del Codice stabilisce la titolarità di una autonoma azione giudiziaria in capo alla consigliera o al consigliere regionale e nazionale di parità mediante proposizione di un apposito ricorso in via d’urgenza, che viene deciso con decreto motivato, immediatamente esecutivo, nel quale, sono ordinate al datore di lavoro autore della discriminazione «la cessazione del comportamento pregiudizievole» e l’adozione di ogni altra misura idonea a rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate, compresa la definizione e l’attuazione di un piano di rimozione delle stesse.


Discriminazioni individuali


In caso di discriminazione individuale, a danno di singoli lavoratori o lavoratrici, l’art. 38, comma 1, stabilisce che su ricorso del lavoratore (o per sua delega delle organizzazioni sindacali, delle associazioni e delle organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, o della consigliera o del consigliere di parità provinciale o regionale) il Tribunale in funzione di giudice del lavoro ordina, con decreto motivato immediatamente esecutivo, al datore di lavoro autore del comportamento illecito denunciato e accertato, la cessazione della condotta discriminatrice e la rimozione degli effetti.


Giudizio di opposizione


In entrambi i casi è prevista la possibilità di un giudizio in opposizione avverso la prima pronuncia giudiziale, ma le attuali previsioni dell’art. 37, comma 5, e dell’art. 38, comma 4, del D.Lgs. n. 198/2006, spingono il datore di lavoro a ottemperare tempestivamente alle decisioni giudiziali.


Caratteristiche dei reati


Fattore comune alle due ipotesi di reato qui accomunate è, senza dubbio, anzitutto, la circostanza che l’accertamento delle condotte discriminatorie espone, de facto, il datore di lavoro alla pena prevista per la singola fattispecie discriminatoria posta in essere contravvenendo allo specifico divieto frapposto dallo stesso D.Lgs. n. 198/2006.

Perché il reato si consumi è necessario presupposto che il provvedimento giudiziale disatteso sia, formalmente e sostanzialmente, uno di quelli previsti dagli artt. 37 e 38 (decreto o sentenza) e che contenga l’ordine di rimozione delle discriminazioni ovvero anche quello di definizione e di attuazione di un apposito piano di rimozione.

Sotto il profilo della partecipazione psicologica del datore di lavoro occorre rilevare che la contravvenzione de qua può realizzarsi, a seconda dei casi, con dolo o con colpa: sarà dolosa la condotta datoriale della inottemperanza cosciente, volontaria e intenzionale all’ordine impartito; sarà colposa l’inottemperanza del datore di lavoro che per negligenza o imprudenza disattende l’ordine giudiziale.

La mancata ottemperanza all’ordine, dolosa o colposa che sia, rappresenta, sotto altro profilo, una contravvenzione “di pericolo”, in quanto la realizzazione concreta del fatto di reato non abbisogna, in nessun modo, di una “prova di danno” per essere accertata sussistente.

Si tratta, poi, di un reato permanente, che rimane unico ed unitario nel suo protrarsi nel tempo, finché l’ordine giudiziale non venga ottemperato.


Reazione punitiva


Quanto al profilo più direttamente sanzionatorio la contravvenzione in argomento è punita con pena alternativa: la pena detentiva dell’arresto fino a 6 mesi ovvero quella pecuniaria dell’ammenda determinata nel massimo fino a 50.000 euro.

Qualora il datore di lavoro ottemperi a seguito di prescrizione obbligatoria (art. 15, D.Lgs. n. 124/2004) la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda sarà sostituita dal pagamento di una somma a titolo di sanzione amministrativa pari a un quarto della misura massima dell’ammenda, vale a dire 12.500 euro.

Si tenga presente che in ipotesi di discriminazioni collettive, accanto alle sanzioni penali è previsto, anche nel caso in cui si proceda alla definizione in via amministrativa a seguito di prescrizione obbligatoria ovvero con procedimento di oblazione speciale, il pagamento di una somma di euro 51 per ogni giorno di ritardo nell’adempimento all’ordine impartito dal giudice, da versarsi al Fondo nazionale per le attività delle consigliere e dei consiglieri di parità (art. 37, comma 5, ultima parte, D.Lgs. n. 198/2006).


Illeciti amministrativi contro le discriminazioni


A tutela delle lavoratrici e dei lavoratori rispetto a qualsiasi tipologia di discriminazione contemplata dal D.Lgs. n. 198/2006, il più recente intervento normativo di depenalizzazione in materia di lavoro (D.Lgs. n. 8/2016) ha posto come forma punitiva di elezione la sanzione pecuniaria amministrativa.

Rausei 61 2L’art. 41, comma 2, del Codice, infatti, originariamente sanzionava in sede penale, con la pena dell’ammenda da 250 a 1.500 euro, condotte di discriminazione diretta e indiretta, ora punite con la sanzione amministrativa da 5.000 a 10.000 euro, in base all’art. 1, commi 1 e 5, lett. a), del D.Lgs. n. 8/2016.

Non si applica la procedura di diffida a regolarizzare (art. 13, D.Lgs. n. 124/2004), in quanto trattasi di condotta materialmente non recuperabile.
Mentre trova applicazione la modalità di estinzione agevolata mediante pagamento della sanzione in misura ridotta, ai sensi dell’art. 16 della legge n. 689/1981, pari a 3.333,33 euro (un terzo del massimo edittale).


Discriminazione per accesso al lavoro e promozione


Risulta così sanzionata la violazione dell’art. 27 del D.Lgs. n. 198/2006, che sancisce il divieto per il datore di lavoro di praticare qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, nonché la promozione, indipendentemente dalle modalità di assunzione e quale che sia il settore o il ramo di attività. La discriminazione è vietata anche quando attuata mediante il riferimento ad uno status soggettivo di tipo oggettivo della persona che cerca lavoro come lo stato matrimoniale ovvero quello di famiglia o quello di gravidanza, o ancora quello di maternità o paternità, anche adottive. Mentre per quanto attiene alle modalità di violazione del divieto di discriminazione, è punito il comportamento del datore di lavoro che attua la discriminazione «in modo indiretto», facendo ricorso a «meccanismi di preselezione» improntati ai criteri discriminatori vietati o anche con l’utilizzo della stampa o di qualsiasi altra forma di pubblicità che evidenzi il genere e, quindi, «l’appartenenza all’uno o all’altro sesso» come «requisito professionale» richiesto per l’accesso al lavoro.

Non commette illecito il datore di lavoro che applichi criteri discriminatori in deroga previsti dal contratto collettivo di lavoro, a norma dell’art. 27, comma 4, del Codice, «per mansioni di lavoro particolarmente pesanti», specificamente e tassativamente individuate. Infine, sfugge da punibilità anche la condotta del datore di lavoro che opera in attività dei settori della moda, dell’arte o dello spettacolo, se condiziona l’assunzione alla appartenenza del lavoratore o della lavoratrice ad un determinato genere, ma solo se e quando ciò risulti «essenziale alla natura del lavoro o della prestazione» (art. 27, comma 6, del D.Lgs. n. 198/2006).


Discriminazione per orientamento, formazione e aggiornamento


La stessa sanzione amministrativa colpisce la violazione del terzo comma dell’art. 27 del Codice, per punire il comportamento del datore di lavoro che discrimina lavoratori o lavoratrici con riguardo «alle iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento, aggiornamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini formativi e di orientamento», sia per quanto attiene all’accesso, e quindi alla oggettiva possibilità di prendervi parte, sia per quanto concerne i contenuti, e cioè il programma di formazione o aggiornamento.


Discriminazioni in materia di retribuzione, mansioni, qualifica e carriera


Con la medesima reazione punitiva si sanziona la violazione del divieto di discriminazione posto dall’art. 28 dello stesso Codice. Viene punito il datore di lavoro che: non riconosce alle lavoratrici il diritto ad ottenere una identica retribuzione rispetto ai colleghi maschi, nel caso in cui le prestazioni lavorative siano uguali o di pari valore; fa ricorso a criteri differenziati, per il personale maschile e femminile, nell’individuare i sistemi di classificazione professionale adottati ai fini della determinazione delle retribuzioni da corrispondere ai lavoratori e alle lavoratrici, od anche per non averli elaborati in modo da eliminare le discriminazioni; discrimina «fra uomini e donne» per quanto concerne l’assegnazione di qualifiche o di mansioni e per quanto attiene alla complessiva progressione nella carriera professionale all’interno dell’impresa.


Discriminazioni in materia di prestazioni previdenziali


Ancora con la stessa sanzione amministrativa sono garantiti i diritti sostanziali alle prestazioni previdenziali di cui all’art. 30 del D.Lgs. n. 198/2006 che articola dettagliatamente le tutele previdenziali e assistenziali che devono essere garantite in termini antidiscriminatori. Il Codice punisce, quindi, il datore di lavoro che non garantisce ai lavoratori o alle lavoratrici i diritti sanciti dalle leggi vigenti in materia di previdenza e assistenza obbligatoria.


Omesso rapporto biennale sulla situazione del personale


Per prevenire e reprimere i fenomeni di discriminazione il Codice considera fondamentale l’accertamento della composizione per genere del personale dipendente e l’analisi dell’andamento dei “movimenti” dello stesso all’interno dell’impresa (assunzioni, progressione in carriera, licenziamenti e così via).

Rausei 61 3A questa finalità risponde la puntuale verifica della presentazione del rapporto obbligatorio prescritto dall’art. 46 del D.Lgs. n. 198/2006, come modificato dall’art. 3 della legge n. 162/2021, a norma del quale i datori di lavoro pubblici e privati che occupano più di cinquanta dipendenti sono obbligati a redigere un rapporto ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile, secondo una distinzione in ragione delle singole professionalità e in relazione allo stato e all’andamento delle assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, nonché con riguardo agli eventuali interventi della Cassa integrazione guadagni, e al ricorso a licenziamenti, individuali o collettivi, prepensionamenti e pensionamenti, e, infine, per quanto attiene alla retribuzione effettivamente corrisposta.

Le aziende pubbliche e private che occupano fino a cinquanta dipendenti possono, su base volontaria, redigere il rapporto (art. 46, comma 1bis), ma non sono sanzionabili.

Per quanto stabilito dal secondo comma dell’art. 46 del D.Lgs. n. 198/2006 il rapporto contenente i dati indicati deve essere redatto esclusivamente in modalità telematica, secondo il modello predisposto dal Ministero del Lavoro con D.I. 29 marzo 2022, per la trasmissione alle rappresentanze sindacali aziendali, con accesso diretto ai dati trasmessi da parte della consigliera e del consigliere regionale di parità.

L’art. 5 del D.I. 29 marzo 2022 prevede che il termine di trasmissione del rapporto riferito al biennio 2022-2023 è fissato al 30 aprile 2024 (in fase di prima applicazione per il biennio 2020-2021 è stato concesso un termine più ampio per far fronte alle novità normative).

Se, nel termine prescritto, i datori di lavoro obbligati alla compilazione e presentazione del rapporto non provvedano alla trasmissione telematica, la Direzione Interregionale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), su segnalazione delle rappresentanze sindacali aziendali o della consigliera o consigliere regionale di parità, invita le aziende a provvedervi entro 60 giorni dal ricevimento dell’invito, che si caratterizza quale “ordine” e, più specificamente, come “disposizione”.

In caso di inottemperanza alla “disposizione” impartita dalla Direzione Interregionale del Lavoro (DIL) competente per territorio, si applica l’art. 11, comma 1, del D.P.R. n. 520/1955, come sostituito dall’art. 11 del D.Lgs. n. 758/1994, successivamente modificato dall’art. 1, comma 1177, della legge n. 296/2006, che stabilisce per la violazione in argomento la sanzione amministrativa determinata col criterio normale del minimo (515 euro) e del massimo (2.580 euro) edittale.

Passando ai profili più direttamente operativi, nell’ipotesi di omessa trasmissione del rapporto a seguito di inottemperanza alla disposizione dell’INL trova applicazione la diffida obbligatoria di cui all’art. 13 del D.Lgs. n. 124/2004, sancito nell’elenco allegato alla Circolare 23 marzo 2006, n. 9 del Ministero del Lavoro.

Il datore di lavoro che ottempera alla diffida, trasmettendo il rapporto, gode della riduzione massima della sanzione amministrativa alla misura pari al minimo edittale (515 euro).

In caso contrario la notificazione dell’illecito amministrativo ammette il trasgressore al pagamento della sanzione in misura ridotta a norma dell’art. 16 della legge n. 689/1981, nell’ammontare pari al terzo del massimo edittale previsto dalla norma (860 euro).

Il Ministero del Lavoro, con Circolare 2 aprile 2001, n. 31, ha precisato che la violazione in argomento può legittimamente formare oggetto di indagine anche durante una normale ispezione del lavoro in azienda (oggi attivata dalle sedi territoriali dell’INL e, specificamente, dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro o dall’Ispettorato di Area Metropolitana), ferma restando la competenza della DIL ad intimare la trasmissione entro 60 giorni in caso di inottemperanza.

Da ultimo, si tenga presente che, in aggiunta alla sanzione amministrativa, nei casi più gravi di inadempimento, vale a dire quando l’inottemperanza si protrae per oltre dodici mesi, su segnalazione della DIL, può essere disposta, da parte degli organi erogatori, anche la sospensione per un anno dei benefici contributivi goduti dall’azienda (art. 46, comma 4, ultima parte, D.Lgs. n. 198/2006).


Mendace o incompleto rapporto biennale sulla situazione del personale


Infine, la legge n. 162/2021 ha inserito nell’art. 46 del D.Lgs. n. 198/2006 un nuovo comma 4-bis, che affida all’INL il compito di verificare la veridicità dei rapporti e nel caso in cui accerti che quello trasmesso dall’azienda obbligata è un rapporto mendace o incompleto applica la sanzione amministrativa da euro 1.000 a euro 5.000.

Opera la diffida obbligatoria, al datore di lavoro che regolarizza si applica la sanzione ridottissima di 1.000 euro (art. 13, D.Lgs. n. 124/2004).

Trova applicazione anche l’istituto del pagamento della sanzione in misura ridotta ai fini dell’estinzione dell’illecito amministrativo, con sanzione pari a 1.666,66 euro (art. 16, legge n. 689/1981). Quadrato Rosso

[*] Dirigente dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Ancona. Le considerazioni contenute nel presente contributo sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza

© 2013-2022 - Fondazione Prof. Massimo D'Antona